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Il museo-seme: una proposta per rendere le realtà culturali più reattive alle sfide del presente
Musei
La recente pubblicazione di Museum Seed, edito da electa, raccoglie il bagaglio di esperienze di Ico Migliore, co-fondato insieme a Mara Servetto dello studio Migliore+Servetto. Fondato nel 1997, lo studio si distingue per la realizzazione di progetti innovativi nel campo dell’architettura, dell’interior design, dell’urban design e della comunicazione. Migliore+Servetto ha ricevuto numerosi riconoscimenti internazionali, tra cui tre Compassi d’Oro ADI, ottenuti nel 2008, 2014 e 2018.
Museum Seed si colloca all’interno di un contesto più ampio di ricerca e pratica e si struttura come un manifesto in otto punti, offrendo una prospettiva sul futuro del progetto di architettura e design degli interni per gli spazi culturali. Come un seme, il museo cresce, si trasforma, dilaga nella città e si estende in una sua versione “aumentata”, capace di evolversi costantemente tra conservazione e narrazione, e di aprirsi a nuove forme di accessibilità e inclusione. Museum Seed raccoglie contributi di quindici voci del mondo della cultura – direttori, curatori, collezionisti, accademici, architetti, designer, giornalisti e psicologi – che si confrontano sul tema del futuro degli spazi culturali come luoghi di aggregazione e comunità. Abitare questi spazi richiede oggi una progettualità capace di integrare architettura, design e grafica con l’evoluzione delle tecnologie, delle neuroscienze e dell’intelligenza artificiale. Con oltre ottocento progetti realizzati in ventuno nazioni, Migliore+Servetto continua a lasciare un segno significativo nel panorama internazionale dell’architettura e del design, come il Museo di Storia Naturale di Milano, il Museo Chopin di Varsavia, l’ADI Design Museum di Milano, il Blue Line Park a Busan e la nuova sede di The Human Safety Net a Venezia.
Come è nata l’idea di Museum Seed?
«Il libro nasce dal convegno tenutosi a Seoul nell’ottobre del 2023, ma l’idea di Museum Seed è nata circa 15 anni fa, quando mi trovavo in Cina, nella provincia di Zhejiang, per un progetto di costruzione di un museo in nuovo distretto cittadino. Mentre attraversavamo autostrade iper moderne circondate da villaggi circostanti antichi, rurali, ho iniziato a pensare che il museo dovesse essere come un seme che germoglia e si sviluppa con il territorio. Non semplicemente un contenitore riempito di oggetti, ma un luogo che produce cultura e condivisione in grado di costruire e promuovere l’identità locale. Da allora, ho riflettuto su come sarà il museo del futuro e a cosa serve oggi. Il libro nasce da queste riflessioni e dalla necessità di pensare una progettazione culturale e museale che abbracci il pensiero divergente più che quello convergente con l’intento di integrare ambiti diversi e trasversali ed esplorare una visione evolutiva del museo. Noi l’abbiamo immaginato come un magazine aperto che vuole porre domande più che dare risposte».
Com’è stata accolta questa “chiamata alla responsabilità culturale del design” in Italia e in Corea?
«La comunicazione della cultura è un tema molto rilevante e sentito. In Italia abbiamo un grande vantaggio: abbiamo delle bellissime opere, poste in bellissimi musei, inseriti in bellissimi borghi, che stanno in bellissime regioni. Non abbiamo bisogno di acquisire opere, piuttosto questo grande patrimonio culturale necessita di essere comunicato in modo nuovo, energico e di alta qualità. Dobbiamo raccontare storie, non solo mostrare oggetti, storie che creano narrazioni, valori, comuni, cioè un’identità collettiva in cui il singolo può ritrovarsi».
Quali sono le principali differenze e somiglianze tra l’approccio italiano e quello coreano nella progettazione di spazi culturali?
«In Asia in generale il rapporto tra education, formazione, industria, università, ricerca, artigianato e “cosa pubblica” è molto connesso, c’è compartecipazione e responsabilità anche da parte della classe politica. In Corea è concepita come una “casa collettiva”, si riflette anche nella progettazione degli spazi culturali che sono visti appunto come spazi di tutti e per tutti, quindi devono essere accessibili, comprensibili, piacevoli. Anche per questo ha investito molto in istruzione e tecnologia, diventando uno dei paesi più avanzati, con musei come quello di Seoul tra i più visitati al mondo».
Il libro è ricco di metafore “biologiche” che descrivono il museo come un seme in esplosione, come un organismo in metamorfosi, come la linfa della città. Quali sono stati i riferimenti e gli immaginari che vi hanno portato ad avere questo tipo di approccio ambientale?
«Ho una formazione legata al design, avendo studiato a Torino sotto la guida di Achille Castiglioni, mio mentore. Castiglioni aveva una particolare attenzione per lo spazio, la narrazione e la comunicazione. Questo approccio si riflette nel nostro lavoro, dove cerchiamo di incrociare diversi ambiti, come teatro, cinema e musica, per arricchire la progettazione degli spazi culturali. Credo che i musei debbano essere ricchi di biodiversità, incrociando e promuovendo una varietà di esperienze e contenuti».
Quali sono gli esempi negativi che prendete in considerazione?
«Nel libro descriviamo due tipologie di museo verso cui siamo scettici: il “museo chiodo-parete” e il “museo luna-park”. Il primo è il classico museo white cube, dove le didascalie sono scritte in caratteri così piccoli che solo il curatore può leggerle, e il visitatore si limita a osservare passivamente le opere con le mani in tasca. Il secondo tipo, il “museo luna-park”, è caratterizzato da grandi effetti scenografici e proiezioni spettacolari, ma spesso manca di sostanza. Crediamo che ci sia bisogno di una terza via: un “museo narrante”, che funzioni come una piazza dove possono nascere dialoghi spontanei».
In che modo, in un sistema educativo/culturale come quello italiano, si possono avvicinare i musei al pubblico per trasformarli da luoghi elitari a spazi inclusivi, informativi, accessibili e coinvolgenti per un pubblico diversificato?
«Per realizzare questo tipo di museo, è fondamentale creare spazi che favoriscano l’interazione e l’inclusività: una libreria, una biblioteca, uno spazio per il caffè, aree dove sedersi, collegare il computer, studiare e lavorare. In questo modo, il museo può diventare un “terzo spazio”, un luogo di comunità e connessione. Nel libro includiamo un progetto realizzato dagli studenti per la città di Seoul: un grande ponte che racconta la città stessa. Prendiamo ispirazione dal Museo di Alessandria d’Egitto, che era un luogo di ricerca, esplorazione e sperimentazione. I musei oggi devono ritornare a questo ruolo attivo nella e per la città, devono aumentare il desiderio e spingere verso una visione futura».
In Italia quali sono gli esempi virtuosi?
«Un esempio virtuoso è il Museo Egizio di Christian Greco. In generale, tutto dipende dalle persone, dalle risorse e dalle strutture. Purtroppo, molti musei pubblici non riescono a valorizzarsi adeguatamente. Solo il 15% dei musei italiani vuole rinnovare la propria offerta tecnologica, contro il 50% che desidera migliorare la comunicazione. È fondamentale investire in nuove tecnologie per offrire contenuti interessanti e aggiornati».
Anche nel testo si ribadisce la necessità di conoscere e integrare le nuove tecnologie: quali sono le principali sfide nell’integrare le nuove tecnologie e le ricerche in ambito scientifico nel presente e nella definizione dei musei del futuro – anche in riferimento, com’è riportato nel testo alle neuroscienze?
«Il museo deve diventare un teatro: un luogo da frequentare regolarmente, come facciamo con il teatro, con appuntamenti fissi che offrono nuove rappresentazioni e diverse interazioni. Nel teatro, la funzione catartica è fondamentale: la visione del dramma, secondo la concezione aristotelica, permette una trasformazione personale, una cura di sé. Il teatro è quindi uno spazio di cura. Anche il museo ha una funzione di cura, come suggerisce il termine “curatela” ».
Ovvero?
«Curare un museo significa anche garantire il benessere psicologico dei visitatori, interagire con loro e predisporre un’accessibilità cognitiva. Già l’accessibilità fisica per le persone con disabilità è spesso trascurata o solo parzialmente risolta (solo il 60% dei musei è totalmente accessibile), e di accessibilità cognitiva se ne parla ancora meno. Bambini, ragazzi e adulti con disturbi dello spettro autistico, disturbi dell’attenzione o dislessia necessitano di un’attenzione particolare. Le nuove tecnologie possono aiutare a rendere i musei più inclusivi, ma spesso sono usate solo per creare spettacolo, sprecando così il loro potenziale. La tecnologia deve risvegliare l’attenzione, fornire stimoli contemporanei e promuovere l’inclusività. Le neuroscienze ci aiutano a dialogare con il pubblico in modo adeguato: non solo il pubblico deve comprendere il museo, ma il museo deve capire il suo pubblico, conoscere le sue capacità e le sue esigenze. Nel 2010, abbiamo realizzato il Museo Chopin a Varsavia, vincendo un bando. Lì abbiamo riflettuto su come le tecnologie potessero far percepire la musica di Chopin, riportandoci alla sua epoca, trasmettendo conoscenze e rendendo l’esperienza museale sintetica. Dopo quasi 15 anni, il museo ha cambiato alcuni dispositivi, ma l’impianto narrativo continua a funzionare».
Come integrate l’interazione sensoriale e sinestesica nei vostri progetti museali in modo da offrire quella che definite una “narrazione spaziale”?
«Cerchiamo di creare esperienze sensoriali e sinestesiche che calino il visitatore nella storia. Al Museo Chopin, ad esempio, abbiamo utilizzato suoni e odori per ricreare l’ambiente in cui viveva il compositore. Questo tipo di approccio aiuta a memorizzare meglio le informazioni e a coinvolgere più profondamente il visitatore. In generale, la nostra pratica è… di mettere in pratica. C’è sempre uno scarto tra la teoria, l’idea e la sua realizzazione, quindi per capire se una idea funzioni bisogna vedere se funziona in pratica».
Quali altri progetti avete portato avanti in questa direzione?
«L’ultimo progetto che abbiamo realizzato è stato presso il Museo di Storia Naturale di Milano, dove abbiamo progettato e allestito La Sala dell’Uomo, in un ricco e costante dialogo con la curatrice Anna Alessandrello. Nel libro scriviamo che “la forma è generata dal contenuto” e in questo caso ci siamo posti il problema di come costruire delle teche che contengano scheletri di primati e uomini primitivi, ma che raccontino anche altre storie, includendo noi stessi e chi sta guardando in quel momento. Abbiamo quindi deciso di realizzare delle teche attraversabili: puoi entrarci, interagire con animazioni digitali di Studio Azzurro e toccare alcuni materiali, stabilendo così un rapporto fisico con il museo e le opere. In questo caso, è stato proprio il contenuto del museo a determinare la forma delle teche. Alla fine della sala, abbiamo inserito una grande parete a specchio, in questo modo, il visitatore si vede incluso nella storia, diventandone parte insieme alle opere del museo, instaurando così un rapporto più empatico e partecipativo. È importante trasmettere l’idea che il museo non sia un luogo polveroso, ma un posto allegro».
In che modo?
«Il museo deve aprirsi alla città. Ad esempio, abbiamo realizzato il Museo del Design del Compasso d’Oro, decidendo di farlo completamente in vetro, visibile dall’esterno. Se i negozi hanno vetrine per mostrare cosa c’è dentro, perché non fare lo stesso con i musei? E così abbiamo fatto: passando col tram, puoi vedere le opere del museo».
Nei vostri progetti, qual è stata poi la reazione, il feedback, delle comunità locali?
«Il Museo del Design del Compasso d’Oro funziona molto bene, anche perché abbiamo deciso di unire la collezione permanente alle esposizioni temporanee in modo tale che ogni volta il museo racconti storie diverse. Così il museo diventa più vivo: ti chiedi “Cos’è che racconteranno questo mese?” e ci vai diverse volte, diventando un luogo familiare, una comunità. Questo è molto importante per noi, perché nell’idea di museo-seme c’è anche l’idea che il museo debba nascere dall’interno, cioè essere un desiderio sentito dal pubblico che poi lo frequenta, generando contenuti interessanti e adatti».
Avete in programma collaborazioni internazionali che coinvolgano anche professionisti del mondo dell’architettura del paesaggio?
«Assolutamente, proprio perché pensiamo che il museo non debba essere considerato un singolo edificio, un luogo chiuso, ma uno spazio che genera altri spazi. A Busan, in Corea, abbiamo collaborato con paesaggisti e architetti del verde per il progetto Blue Line. Lì c’è una forte cultura delle alghe, quindi abbiamo impostato il progetto su questo tema e, in un parco (ex ferrovia trasformata), abbiamo realizzato Il Padiglione delle Alghe che racconta la loro storia. Lavorare con chi si occupa di natura è sempre molto interessante, soprattutto per il tema della multietà: ci sono piante molto vecchie e piante molto giovani che convivono. Noi umani non abbiamo tanto questo tipo di organizzazione: un centro per anziani non è un centro per bambini. Nelle città – come nei musei- dobbiamo cominciare a ripensare questo rapporto con la multietà».
Quali sono i prossimi passi per il progetto Museum Seed? Qual è il vostro consiglio per i giovani architetti e designer che vogliono lavorare nel campo della progettazione di spazi culturali?
«Quello che dico ai miei studenti del Politecnico è di pensare e guardare in maniera divergente, muoversi da un ambito all’altro: musica, cinema, natura, teatro. Oggi non esiste più “l’architetto” o “il designer”, esistono progettisti divergenti. L’altra cosa, che forse è anche la più difficile da trasmettere agli studenti oggi, è infondere positività. Io credo che come insegnanti dobbiamo fornire grandi basi di conoscenza, grandi dubbi, ma anche una grande fiducia che ce la faranno, cosa che normalmente non c’è. Quindi creatività, competenza, determinazione e “un fisico bestiale” perché fare i progettisti culturali è un lavoro sfiancante ma anche divertente, e il divertimento non deve mai essere messo da parte nel nostro lavoro: “Bisogna essere molto seri ma non seriosi”, diceva Achille Castiglioni».