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We Humans: la Biennale Danza di Venezia, tra corpi e tecnologie
Danza
Con la notizia della riconferma di Wayne McGregor alla direzione della Biennale Danza per il prossimo biennio, si è aperta la rassegna veneziana dal titolo, quest’anno, We humans, e che ha visto conferire il Leone d’oro alla Carriera alla settantenne coreografa italiana Cristina Caprioli (attiva in Svezia dagli anni ’80, dove risiede e dirige la compagnia CCAP), e il Leone d’argento al cinquantunenne statunitense Trajal Harrell.
Sister or He Buried the Body
Di quest’ultimo si è visto Sister or He Buried the Body. Ispirandosi, come in altri suoi lavori, al vogueing e alla forma giapponese del Butoh, ricercando strati di memoria nella cultura pop e gender, il danzatore e coreografo inscena un assolo dentro un piccolo spazio recintato di strisce di stoffa e un tappeto di paglia. Vi entra con una lunga gonna che poi toglierà. Stando seduto e con un iPhone a terra, attiva una personale playlist di diverse musiche e canzoni sulle quali, ogni volta, con un movimento libero delle sole mani e delle braccia e con il corpo oscillante, coprendosi il viso o mimando diverse smorfie facciali, darà “voce” ad una sofferta interiorità e ad una ironica espressività, ricreando uno stato di coscienza intimo che però rimane confinato nel suo mondo senza coinvolgerci più di tanto.
Waves
D’impianto tecnologico, inteso come contaminazione creativa, è lo spettacolo Waves della compagnia di Taiwan Cloud Gate Dance Theater, fondata nel 1973 da Lin Hwai-min, e dal 2020 diretta dal coreografo Cheng Tsung-lung. Dodici danzatori fantastici sono impegnati in una – alla lunga – ripetitiva modalità di danze sinuose e turbolenti che attingono alla tradizione orientale unita al contemporaneo. L’inizio, promettente, faceva presagire sviluppi inediti per via dell’interazione dei movimenti corporei catturati come dati digitali e trasformati dall’intelligenza artificiale, proiettati su un grande schermo in diversificate texture.
L’immagine primaria – dopo il gruppo compatto in file serpentine – con un danzatore di profilo che avanza lentamente e a fatica, legato da filamenti luminosi sulla schiena che lo trattengono, è intrigante perché sembra reale, e invece è la sua proiezione sul fondale da dietro il quale poi appare. Altre proiezioni con dissolvenze e frantumazioni molecolari degli stessi performer in abiti casual, in contrasto con quelli neri dei danzatori in scena, subentreranno in un dialogo interattivo tra umano e virtuale. Le immagini video di Daito Manabe incombono sui ballerini, sottolineando la disgiunzione tra gli effetti del mondo digitale e la fisicità reale. Il gioco però si esaurisce presto, e la coreografia alquanto monotona, prettamente corale e con duetti e assoli in mezzo, non lascia tracce interessanti.
Natural Order of Things
Arriva però la bellissima onda di corpi di Natural Order of Things, della compagnia GN|MC dei coreografi barcellonesi Guy Nader e Maria Campos, a compensare la serata. Nel silenzio e nella gradualità della luce che fa svanire le lunghe ombre a terra del gruppo disposto in fila, in un gioco di pesi e contrappesi dei corpi in continuo movimento, inizia un ipnotico ondeggiare di nove danzatori che si inclinano da un lato all’altro, verso destra e sinistra della scena, sempre compatto salvo improvvisamente lasciare fuori qualcuno, e ritornare nella fila.
Altre variazioni, fuoriuscite e rientri, nel continuo flusso e riflusso, comporranno un affascinante paesaggio umano, e marino – costumi azzurri sfumati –, ora calmo ora tumultuoso, determinato dalla marea dei corpi sparsi ovunque e sempre ricompattati, lanciati nelle direzioni più varie, catturati in volo e bloccati in posture ed equilibri sorprendenti, in intrecci scivolosi, in prese acrobatiche. L’affascinante spettacolo si ispira ai concetti di ordine e disordine, caos e armonia, binomi tradotti nel fluido e pulsante linguaggio cinetico della coppia Nader-Campos, sulla musica del compositore Coti K., che utilizza schemi ritmici ripetitivi per trasmettere un senso di caos controllato.
Posguerra
Si definisce artista multidisciplinare l’argentina Melisa Zulberti, artista visuale, designer, regista, coreografa, vincitrice del bando internazionale Biennale Danza 2023 per una nuova coreografia, presente a Venezia con Posguerra, titolo inteso come «Un’immersione multidisciplinare nel corpo del dopoguerra». Cinque performer agiscono in un labirintico spazio di placche rettangolari specchianti tenute verticalmente, che ne moltiplicano la presenza, immerse in un universo sonoro elettronico (musica live di Julian Tenembaum).
Vestite con tute, e con corde e ganci di rocciatori ai fianchi, con telecamere in streaming live incollate sui caschi che creano un multiverso simultaneo, si muovono come speleologhe impegnate in un’operazione di resistenza dopo un momento di conflitto e distruzione, scalando quei muri riflettenti, aggirandosi affannate e a tratti con passi militareschi, tra ostacoli, per raccontare uno stato del corpo post-traumatico. L’improvviso crollo delle placche determineranno la distruzione totale di quella terra effimera, campo di battaglia, lasciando i corpi sepolti, salvandone solo uno che, al suono di una – inappropriata – musica sinfonica, si trascinerà a terra. Spettacolo debole drammaturgicamente e troppo dilatato nei tempi e nelle sequenze.