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Other Identity #122, altre forme di identità culturali e pubbliche: Cristina De Paola
Fotografia
Tratta dall’omonima rassegna ideata dall’artista e curatore indipendente Francesco Arena, la rubrica “OTHER IDENTITY – Altre forme di identità culturali e pubbliche” vuole essere una cartina al tornasole capace di misurare lo stato di una nuova e più attuale grammatica visiva, presentando il lavoro di autori e artisti che operano con i linguaggi della fotografia, del video e della performance, per indagare i temi dell’identità e dell’autorappresentazione. Questa settimana intervistiamo Cristina De Paola.
Other Identity: Cristina De Paola
Il nostro privato è pubblico e la rappresentazione di noi stessi si modifica e si spettacolarizza continuamente in ogni nostro agire. Qual è la tua rappresentazione di arte?
«Essa può partire dalle pitture parietali nelle grotte arrivando al metaverso oggi. Il problema sta nella definizione di “rappresentazione dell’arte”, perché l’arte è rappresentazione e viceversa. La rappresentazione per me è un processo che traduce un pensiero, un’azione, un’esperienza, una necessità interiore. Esiste uno spazio liminale tra il nostro essere privato e il nostro essere in un contesto sociale più strutturato; è proprio in questo luogo fittizio che – per me – nasce il pensiero artistico. È come un limbo in cui le connessioni con l’esterno si traducono in stimoli e che a loro volta incontrano il nostro pensiero personale. La rappresentazione è una conseguenza. Nella mia esperienza e pratica artistica questo carattere dualistico della vita, che a mio avviso si può ritrovare in tutto (pubblico/privato, passato/presente, terra/acqua e via dicendo) è fondamentale per costruire una narrazione, indagando spesso su ricordi e sensazioni di luoghi che non vivo più da tempo. La mia rappresentazione di arte è dunque materica, quasi multisensoriale, ma allo stesso tempo impalpabile come la memoria».
Creiamo delle vere e proprie identità di genere che ognuno di noi sceglie in corrispondenza delle caratteristiche che vuole evidenziare, così forniamo tracce. Qual è la tua “identità” nell’arte contemporanea?
«Mi piace pensare all’identità come forma fluida, capace di adattarsi a diversi contesti sociali e culturali. La mia identità nell’arte è racchiusa nel termine “artista”, che ho imparato ad utilizzare, seppur timidamente, negli ultimi tempi. Identificarsi come artista per me comporta delle responsabilità molto grandi, nei miei confronti ma in generale verso gli altri. Avere la necessità – ma soprattutto la possibilità – di fare arte oggi è un privilegio, un atto liberatorio ma a volte anche doloroso. E avere lo spazio in cui poter raccontare e raccontarsi, così come sta accadendo oggi con questa intervista, per me è fondamentale per identificarmi e confermare questo mio ruolo tanto arduo quanto meraviglioso».
Quanto conta per te l’importanza dell’apparenza sociale e pubblica?
«Ahimè molto. Il conflitto per me sta nel fatto che questa importanza dell’apparenza non l’ho decisa io, ma mi è stata inconsapevolmente imposta. L’apparenza pubblica va aldilà della presenza fisica in un luogo, perché ormai all’off-line si preferisce l’on-line; l’apparenza sta nel garantire a se stessi e agli altri la validazione della partecipazione alle attività collettive, attraverso la condivisione. La partecipazione attiva diventa passiva e svuotata di significato. E nel frattempo tutti osservano, in silenzio. A tal proposito mi ritrovo nel pensiero del filosofo Byung-Chul Han, in particolare nella definizione di internet come panottico digitale. In questo senso critico la grande incidenza che ha questa importanza dell’apparenza su di me, ma credo – e spero di non risultare pretenziosa – di poter allargare il discorso a molte altre persone. In fin dei conti mi sembra piuttosto utopistico pensare di vivere in modo autentico la vita sociale e pubblica, senza pensare all’apparenza, credo solo che essa debba coesistere con l’esperienza».
Il richiamo, il plagio, la riedizione, il ready made dell’iconografia di un’identità legata al passato, al presente e al contemporaneo sono messi costantemente in discussione in una ricerca affannosa di una nuova identificazione del sé, di un nuovo valore di rappresentazione. Qual è il tuo valore di rappresentazione oggi?
«Il mio valore di rappresentazione oggi verte verso la ricerca dell’essenziale. Essenziale nella forma ma soprattutto nel processo creativo. L’identificazione del sé è un processo molto lento e va controcorrente rispetto alla necessità imposta da un sistema dell’arte che obbliga a sostenere dei ritmi a volte troppo veloci ed estenuanti».
ll nostro “agire” pubblico, anche con un’opera d’arte, travolge il nostro quotidiano, la nostra vita intima, i nostri sentimenti o, meglio, la riproduzione di tutto ciò che siamo e proviamo ad apparire nei confronti del mondo. Tu ti definisci un’artista agli occhi del mondo?
«Come accennavo in una delle risposte precedenti, sì. Sono curiosa di sapere come il mondo definirebbe me!».
Quale “identità culturale e pubblica” avresti voluto essere oltre a quella che ti appartiene?
«Una rivoluzionaria, un po’ come Ildegarda di Bingen nel Medioevo».
Biografia
Cristina De Paola (1995, Uggiano la Chiesa). Si laurea in Fotografia all’Accademia di Belle Arti di Brera a Milano. Nel 2020 realizza la mostra personale Finis Terrae, a cura di Emma Zanella, presso il Museo MA*GA,Gallarate. Nel 2021 partecipa alla rassegna di cinema e video PROGETTO SPAZIO VOLTA OPEN CINEMA, presso Spazio Volta, Bergamo. Nel 2022 espone a ReA! Art Fair, alla Fabbrica del Vapore, Milano. Nel 2023 espone nelle mostre collettive: Combat Prize al Museo Civico Fattori di Livorno; Parla del Tuo Villaggio #3, a KORA Contemporary Arts Center, Castrignano de’ Greci e ImageNation Paris / Just Women Collective, alla Galerie Joseph Le Palais, Parigi.