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L’ispirazione per la mostra è nata dalla lettura di alcuni versi di Pablo Neruda, scritti nel 1933, in un cui il poeta esprime le proprie emozioni al ritorno in Cile dopo molti anni. Il breve componimento, dal titolo No hay olvido, ha permesso ai curatori di riflettere sui concetti di terra e di identità secondo un punto di vista fisico ed emotivo. Le diverse nazionalità dei partecipanti alla School for Curatorial Studies hanno favorito un dialogo dinamico, che ha portato alla fusione negli spazi della galleria di opere di artisti veneziani e internazionali.
La natura duplice del titolo, now here e nowhere – «ora qui» e «nessun luogo» – esprime la difficoltà contemporanea nel determinare una forma di appartenenza verso un luogo; si tratta di un sentimento sempre più effimero, fluido e influenzabile da nostalgia e memoria.
Gli artisti in mostra, attraverso emozioni e ricordi (che possono essere sia reali sia immaginari), cercano di stabilire un nuovo legame con gli ambienti di vita, sviluppando così una narrazione intima e personale. L’esposizione presenta opere di: Mohammad AlFaraj, Baratto & Mouravas, Polam Chan, Domestic Data Streamers, Alfredo Graal, Rajyashri Goody, Margot Kalach, Lebohang Kganye, Nancy La Rosa, Mohammad Muneem (Alif), Germán Naglieri, Cabinet Óseo, Anhar Salem, Matilde Sambo, Serhat Tunç, Riccardo Vicentini, Annie Yuan Zhuang.
Arrivando da calle dei Orbi, lo sguardo viene catturato dalle fotografie che compongono l’opera Questo non è un confine di Riccardo Vicentini. L’artista raggruppa fotografie scattate nel corso di alcuni viaggi in luoghi distanti e altre realizzate, invece, durante brevi passeggiate nei dintorni della propria abitazione nel periodo di lockdown della pandemia (2020). In questo senso, la forzata permanenza in uno specifico ambiente entra in contrasto con il desiderio di recarsi in un luogo lontano.
L’opera di Matilde Sambo, dal titolo Sono Qui. Dentro Me, ragiona sull’appartenere a un luogo particolare come Venezia, facendo riferimento all’acqua, come fonte di vita, e al corpo, come prima casa. La poesia, ricamata in un lungo drappo di seta, esprime l’instabilità e la fragilità del sentimento di appartenenza, due caratteristiche che si legano alla natura di Venezia: «Laguna o lacuna, spazio vuoto da cui farsi riempire / Distacco per tornare / Nascere sull’instabilità di umidi frammenti in larice / rende equilibristi / Insegna a essere marea».
Le sei fotografie di Germán Naglieri, che prendono il nome dalla nazionalità delle persone ritratte, sono disposte a coppie e mettono in risalto l’intima connessione tra il soggetto e il luogo in cui trascorre la maggior parte del tempo. Si tratta di un legame fisico ed emotivo, analizzato anche nell’opera Mashallah. Why Did You Cross The Indian Ocean di Anhar Salem. Seduti su un tappeto in cui è riprodotto il soggiorno dell’artista, i visitatori possono guardare un video ambientato in Arabia Saudita in cui alcune persone, condividendo un pasto, parlano di cosa significhi appartenere e del senso di casa.
Una forma di appartenenza non solo fisica ma anche sociale, così l’opera di Rajyashri Goody Eat With Great Delight esplora la connessione tra l’atto del mangiare e il sistema delle caste in India. Una serie di libri di ricette, posizionati su una mensola sotto ad un gruppo di dieci fotografie, contribuisce a una riflessione sul cibo come forma di esclusione e di imposizione.
In parallelo rispetto alla tematica di Biennale Arte 2024 dal titolo Stranieri Ovunque, no(w)here rappresenta un’opportunità di poter partecipare alle contemporanee discussioni sui concetti di appartenenza, estraneità e disparità sociale, avviando un percorso di meditazione personale.