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All’origine dell’esotismo: cosa ci fa una mostra su Bali al centro di Basilea?
Arte contemporanea
Ospitata nello spazio della Kulturstiftung Basel H. Geiger, fondazione culturale dedicata all’interdisciplinarietà delle arti e fondata nel 2019 dalla filantropa Sibylle Geier, la mostra si presenta subito come un’esperienza da vivere con la propria mente e i propri sensi. Se da fuori l’edificio appare ben pulito nelle forme e nei colori (ma con degli indizi posizionati nelle vetrine), una volta entrati ci si ritrova in una traduzione di una Bali dall’aria autentica, nel bene e nel male. Presentata come un’opera site-specific, ROOTS ha la forza di andare oltre al concetto di pura installazione fatta di immersività: si tratta di un intervento autoriale ben consapevole e puntuale, dettato dalla profonda conoscenza verso le sfumature di una cultura stratificata.
L’esposizione ruota attorno alla figura enigmatica dell’artista tedesco di origine russa Walter Spies (1895 – 1942), la cui influenza sul paesaggio culturale di Bali riverbera ancora oggi, provocando un effetto a cascata in cui siamo ancora totalmente immersi. Nel 1923, in pieno clima avanguardistico europeo, il pittore sceglie di intraprendere un viaggio verso i tropici, alla ricerca di nuovi stimoli artistici. È proprio a Bali che trova una seconda casa, accogliente ma al tempo stesso distante ed estremamente diversa. Nato a Mosca e, negli anni, entrato in contatto con gli esponenti delle avanguardie europee quale Otto Dix, Oscar Kokoschka, Friedrich Murnau, Margaret Mead e Charlie Chaplin, vive un’esperienza ventennale che segnerà la storia del paese stesso, ponendo (forse inconsapevolmente) grande attenzione al discorso sottile tra scambio culturale e turismo esotico-massivo consequenziale. La figura di Spies diventa un vero e proprio simbolo del modernismo per i balinesi; i suoi quadri, pur mantenendo chiaramente un’impronta che si rifà all’Espressionismo come corrente artistica, indagano (o forse ritrovano) quella dimensione magicamente primitiva che coglie nelle persone, nei verdi paesaggi, nelle ritualità dal sapore antico, sacro, a tratti lirico.
Con una premessa consapevolmente ancorata alla storia dell’arte europea ed extraeuropea e ai reciproci scambi avvenuti tramite alcune figure-ponte come Spies, la mostra si articola in diverse forme espressive orchestrate sapientemente dalla figura di Micheal Schindhelm che, già per formazione e studi, ha un’anima ibrida e sperimentale.
ROOTS si presenta subito come uno spazio-nello-spazio; la fondazione KBHG perde la sua essenza per trasformarsi in un altro luogo, tanto reale quanto paradossalmente concettuale. Bali qui è tangibile nelle pareti, nei profumi, nei rumori e nei silenzi, ma soprattutto nella scelta delle opere esposte dipinte dagli artisti balinesi contemporanei Made Bayak e Gus Dark, nelle figure della danzatrice Dewa Ayu Eka Putri, del musicista Putu Tangkas Adi Hiranmayena, il coreografo di fama internazionale Wayan Dibai, il gallerista Agung Rai e molti altri. Ogni opera mantiene la propria autonomia stilistica in una situazione di coralità, agendo così su due piani diversi ma allo stesso modo aderenti.
Subito all’entrata si trova una riproduzione di Villa Iseh, un rifugio costruito da Spies nel 1937 a Iseh, Karangasem. Inizialmente un santuario per Walter Spies divenne in seguito una rinomata destinazione per grandi personalità, tra cui David Bowie, Yoko Ono e Mick Jagger. Tra travi di legno dipinte di verde e soffitti che svelano un ambiente pluviale, il visitatore si ritrova ad esplorare il labirinto di stanze della villa, dalla reception alle camere da letto, dai corridoi alle aree soggiorno e alla sala della piscina.
Michael Schindhelm afferma: «La mostra e il docufiction omonimo devono essere intesi come un progetto di memoria collettiva che affronta un aspetto importante della storia postcoloniale di Bali: l’influenza della cultura moderna occidentale sulle tradizioni culturali balinesi. La storia variegata di Walter Spies sull’isola e i suoi effetti sulla successiva trasformazione di Bali in una destinazione turistica globale sono intesi come un patrimonio condiviso». Da dopo la vicenda del pittore Spies, infatti, si è creato un effetto a cascata che ha portato alla percezione di Bali come meta esotica per eccellenza; le opere e l’ambiente che costituiscono ROOTS, se ad una prima visione appaiono come la perfetta riproduzione di un luogo paradisiaco, svelano invece una Bali intrappolata nel suo essere Bali – brand, alla continua rincorsa di uno status lontano dall’essenza ma purtroppo necessario alla vita e al sostentamento economico.
ROOTS non la definirei né installazione né tantomeno opera immersiva, quanto piuttosto un’operazione espositiva autoriale legata allo studio dei processi dell’umanità e dei suoi molteplici sviluppi. Si parla di storia, arte, spiritualità, antropologia ma anche di post colonialismo, processi degradanti, ingranaggi difficili da far funzionare fluidamente. La coralità dei mezzi artistici utilizzati corrisponde perfettamente al senso stratificato della mostra, che si svela come un punto di vista critico e strutturato.