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Venezia: riflessioni di settembre sulla Biennale di Pedrosa, tra successi e occasioni mancate
Arte contemporanea
In una Venezia piovosa e grigia di metà settembre si torna a visitare Stranieri ovunque, la 60. Esposizione Internazionale d’Arte a cura di Adriano Pedrosa. Il padiglione centrale ai Giardini si presenta come un tempio coloratissimo in cui si entra in una dimensione altra e subito, si attiva un continuo pensare, un continuo sentire e un continuo essere trascinati di qua e di là fra le possibili declinazioni della condizione di straniero. La sensazione è quella di una vetrina, di un arcipelago di possibilità escluse, rimosse dalle geopolitiche dell’arte, dalla geografia di un mondo che nella sua centralità occidentale prova ad allargare, accogliere altri sguardi, altre sensibilità, altri mo(n)di di fare arte. È proprio in questa alterità senza mediazione tecnologica che tutto è segnato da un intreccio visivo e artigianale, la chiave per sentirsi e pensarsi stranieri?
Il pensiero corre immediato a Documenta 15 a Kassel nella super criticata e divisiva edizione curata da ruangrupa dove l’altro, lo straniero metteva in questione gli imperativi capitalistici occidentali. La Biennale di Pedrosa è una testimonianza, una rassegna, un report inclusivo e ben impaginato ma che non riesce a proporre un’operazione di riscrittura e immaginazione dell’arte contemporanea. Il Sud del mondo a Venezia sbarca in un recinto condizionato dalle regole stabilite dall’Occidente. Ecco che la condizione di straniero, pur declinata in tante lingue che sfumano, si dissolvono nell’acqua alle Gaggiandre nei tanti idiomi che Claire Fontaine ha collezionato traducendo da Palermo, un sud dei tanti sud. Ma cosa significa essere stranieri, essere Sud, essere altro rispetto a cosa? Salta subito all’occhio che il punto di vista, di osservazione, di inclusione è ancora una volta il sistema dell’arte governato dal Nord, dall’Occidente.
La Biennale intesa come istituzione certifica, conferma che solo ciò che viene nominato al suo interno può cominciare a esistere. Adriano Pedrosa si connette con precedenti edizioni della Biennale come quelle curate dal compianto Okwui Enwezor o da Massimiliano Gioni provando ad allargare le maglie della storia dell’arte, creando una prospettiva non eurocentrica senza, però, fare i conti con i valori e l’istituzione che struttura la mostra e soprattutto da quale modello sociale la Biennale è prodotta. Non è sufficiente testimoniare, documentare. Mentre ruangrupa proponeva la collettività e la condivisione come azioni per creare l’alternativa/il lumbung, un modo, una pratica per resistere all’imperativo capitalista di essere produttivi, competitivi, Foreigners Everywhere non affronta sufficientemente le strutture o i sistemi che incentivano l’emarginazione e lo sfruttamento delle comunità, degli artisti che pretende di mettere in luce. Se a Kassel abbiamo vissuto un temporaneo, quotidiano esperimento critico, sociale, educativo, a Venezia viviamo un processo di assorbimento in un mainstream che tutto fagocita. Una fragilità, marginalità che non si traduce in alternativa, entra nella quotidianità, senza spigoli. Non si tratta di allargare il campo, la geografia, lo sguardo, ma proprio di provare a restare al di qua di ogni struttura, di abitarne una che sia il più possibile inclusiva e alternativa. Ma è tutto ciò che conta? E le opere?
Nelle sue molteplici e differenti declinazioni l’essere straniero si connette anche con l’essere queer ed è forse proprio questa condizione trasversale, stramba, a restituire al meglio l’intento, anche, politico del curatore. Lo stesso Pedrosa ha sottolineato più volte questo tratto identitario: «Mi identifico anche come queer, il primo curatore dichiaratamente queer nella storia della Biennale Arte. Inoltre, provengo dal contesto brasiliano e latinoamericano in cui l’artista indigeno e l’artista popular svolgono ruoli importanti; sebbene siano stati emarginati nella storia dell’arte, di recente hanno cominciato a ricevere maggiore attenzione. Il Brasile è anche la patria di molti esodi, una terra di stranieri per così dire: oltre ai portoghesi che lo hanno invaso e colonizzato, il Paese ospita le più grandi diaspore africane, italiane, giapponesi e libanesi del mondo». Questo intreccio di corpi ibridi è particolarmente riuscito sia in termini stilistici che storici nelle sale del padiglione centrale dove si creano delle straordinarie mescolanze che bucano la successione cronologica della storia dell’arte aprendo a una possibile e necessaria riscrittura della potenzialità o possibilità di un altro mondo, di un’altra arte. Filippo De Pisis dialoga con la freschezza giovanile di Louis Fratino attivando un processo associativo che genera un orizzonte di futurità queer. Anche Giulia Andreani rivela e sovverte la storia, interrogando le narrazioni veicolate dagli archivi fotografici, setacciando le pieghe della storia ufficiale per liberare nuove traiettorie. Il lavoro di Andreani prende le mosse da un dialogo con l’artista autodidatta Madge Gill esplorando i possibili legami tra femminismo e spiritualismo come forma di emancipazione e resistenza.
La riscrittura del passato ci aiuta a immaginare nuove temporalità che interrompono il tempo lineare e patriarcale. Nascono nuove possibilità di interrogazione della storia dell’arte, nasce un tempo ucronico che esplica i modi in cui una molteplicità di artisti tematizzano, vivono la loro condizione di persone queer o di altre soggettività minoritarie nell’ordine sociale dominante. Un’idea di queerness che si sposa perfettamente con le altre questioni che il curatore affronta, come quelle che discendono dal colonialismo e dalla migrazione. Questioni su cui si focalizza maggiormente la proposta di Pedrosa all’Arsenale e dove la sensazione che il limite di Stranieri ovunque stia proprio nella spinta, nella volontà di attirare l’attenzione sulle categorie che pretende di smantellare o riscrivere. Il costante richiamo al fatto che le opere esposte sono prodotti di culture straniere allo spettatore occidentale rende molto difficile andare oltre le strutture di identità e di attribuzione che ci si aspetterebbe che la mostra sconvolga. È proprio in questa deriva, presunzione latente su ciò che è estraneo a chi? Nelle opportune didascalie dettagliate sulla provenienza geografica, sulla poetica degli artist* spesso si sottolinea come sia la prima volta che le opere sono esposte in una mostra occidentale e che non sono lavori derivati né dipendenti dalla storia dell’arte occidentale.
Questo genera, forse, la domanda: chi dice che lo siano? Il Disobedience Archive curato da Marco Scotini offre attraverso un recinto circolare di circa 40 monitor, un’intimità di fruizione e interrogazione con una raccolta di video che abbracciano decenni e che collegano migrazioni, politiche postcoloniali, della diaspora e movimenti LGBTQ+ globali. Un progetto aperto, in divenire che si connette con l’etica afrofuturista e con un vissuto antagonista dove in cui si fondono elementi soprannaturali, fantastici, storici e futuristici. Un’esplorazione di pratiche, vissuti antagonisti che segnala i diversi modi in cui l’umanità potrebbe esistere.
Possono comunità il cui passato è stato deliberatamente cancellato e le cui energie sono state successivamente consumate dalla ricerca di tracce leggibili della propria storia, immaginare futuri possibili? La risposta è affermativa reimmaginando, ricreando il passato e reinventando il futuro. Un’immaginazione nera che buca, supera tutte le gabbie create dall’Occidente. Classe, genere, razza. Il potente dispositivo video The Mapping Journey Project di Bouchra Khalili ci segnala questa possibilità dove ogni schermo è una storia diversa raccontata dalla persona di cui vediamo la mano disegnare su una mappa dell’Europa, del Medio Oriente e del Nord Africa, il percorso dal Marocco, dall’Afghanistan, dalla Somalia e da altri luoghi verso l’Europa. Mentre si racconta: il transito, l’attesa per gli avvocati e per i documenti di immigrazione o i visti, i parenti che accolgono, le telefonate alla famiglia. The Mapping Journey Project è esemplare nell’uso del video come testimonianza e riconoscimento umano. Una voce ci dice che tutto ciò che le persone – migranti vogliono è vivere, lavorare, ESSERE. Il problema è che il potere sociale ed economico occidentale si mette sempre di traverso. In un mondo che sceglie di alzare barriere, muri e stare in guerra, l’affermazione della propria soggettività diventa sempre più conflittuale.