-
- container colonna1
- Categorie
- #iorestoacasa
- Agenda
- Archeologia
- Architettura
- Arte antica
- Arte contemporanea
- Arte moderna
- Arti performative
- Attualità
- Bandi e concorsi
- Beni culturali
- Cinema
- Contest
- Danza
- Design
- Diritto
- Eventi
- Fiere e manifestazioni
- Film e serie tv
- Formazione
- Fotografia
- Libri ed editoria
- Mercato
- MIC Ministero della Cultura
- Moda
- Musei
- Musica
- Opening
- Personaggi
- Politica e opinioni
- Street Art
- Teatro
- Viaggi
- Categorie
- container colonna2
- container colonna1
Qual è stato il tuo percorso artistico?
“Ho iniziato l’attività artistica nel 1989, in cui rivisitavo i classici della pittura barocca e facevo anche il “copista”. Successivamente mi sono gradualmente spostato sull’arte informale e soprattutto concettuale, ad esempio con un ciclo di opere che tematizzavano la “firma” come espressione della singolarità dell’individuo, ma anche come marca o brand di un’artista presente nel mercato. Nel 2003 ho conosciuto e ho lavorato con Shozo Shimamoto del Gruppo Gutai, con il quale ho fatto diverse mostre, dalla 50. Biennale di Venezia a una mostra presso il Trevi Flash Art Museum (2005), alla quale tra l’altro partecipò Ben Vautier.
Negli anni 2004-2012 mi sono dedicato a delle performance multimediali e all’utilizzo di software per generare dei pensieri astratti. Da qui il progetto per un evento collaterale alla Biennale del 2009 (Blue Zone) e del 2013 (Overplay).
Dal 2018 al 2021, sempre rimanendo in un ambito neo-concettuale, ho focalizzato il mio interesse creativo sulle questioni ecologiche, immaginando un ipotetico museo paleontologico del terzo millennio nel quale elementi biologici fossili sono integrati nella plastica (Venezia 2018) e nuove forme animali si sono adattate a vivere nei rifiuti e con i gas serra. Nell’ultimo progetto (Venezia 2021) oggetti di plastica (telefonini, smartphone, bottiglie, mascherine, etc.) sono state fritti e impanati come veri e propri alimenti, per poi essere esposti all’interno di installazioni e quadri”
Quali sono gli elementi principali del tuo lavoro?
“La mia idea è che l’arte contemporanea debba essere poliedrica e, quindi, debba utilizzare tutte le tecniche e le discipline disponibili per esprimere dei concetti. Non si tratta di tradurre linguisticamente un pensiero, perché per questa cosa ci sono già la scienza e la filosofia, ma di far sì che un’idea diventi emozione, che tocchi l’anima e il cuore. Non dobbiamo pertanto più pensare al cliché di un’artista che deve distinguersi per uno stile, un tratto, una tecnica specifica da lui elaborata: si tratta di “far sentire” alla gente il mondo che stiamo vivendo e i cambiamenti epocali che ci aspettano, e ciò con tutti i mezzi a disposizione, dalla perfomance alla musica, dall’installazione alla pittura, dall’opera digitale alla più pura elaborazione software.”
In quale modo secondo te l’arte può interagire con la società, diventando strumento di riflessione e spinta al cambiamento?
“Per me è una delle urgenze dell’arte contemporanea: non è più il tempo dell’arte catechistica o semplicemente decorativa, né di quella celebrativa del potere, né tanto meno di quella elitaria dell’art pour art, auto-referenziale e chiusa nei suoi linguaggi esoterici (quella post-Duchamp, per intenderci). Come dicevo, la spinta al cambiamento e quindi una certa valenza rivoluzionaria dell’arte, si può raggiungere – se ciò, poi, è mai possibile – facendo sentire emotivamente il mondo paradossale che stiamo abitando. Vi faccio un esempio: un giorno camminavo per Milano e mi sono trovato innanzi a una serie di ingorghi. Tutto normale, si direbbe, anzi, meglio del solito. Ma successivamente mi sono immaginato che cosa avrebbe pensato un extra-terrestre appena disceso in viale Certosa: tutti quegli esseri viventi richiusi in scatolette puzzolenti che vanno e su e giù senza senso, incrociandosi o stando fermi per ore in fila senza meta. La sensazione è stata straniante e allucinante, devo dire la verità.”
Quali sono i tuoi programmi per il futuro?
“Sto lavorando a una cosa abbastanza complessa a dire la verità, cioè il rapporto tra arte e tempo, o, meglio, tra l’arte e il tempo-vita. Molti artisti ci hanno lavorato, e con successo. Sto immaginando delle performance lunghissime, di giorni e settimane, in cui ogni 20-30 minuti io traccio una linea sulla tela, come facevano i carcerati per contare i giorni di detenzione. C’è uno svuotamento dell’esistenza, uno stare assieme con il proprio corpo, senza pensare a nulla. L’uomo, nei pochi anni che vive sulla terra, perde il suo tempo in innumeri faccende e pensieri che non hanno senso e soprattutto non sopporta il vuoto dell’esistere per esistere, come invece riescono, a mio avviso, gli animali.”
In quale modo le istituzioni potrebbero agevolare il lavoro di artisti e curatori?
“Le istituzioni purtroppo oggi hanno perduto la vocazione sociale per così dire e sono molto più orientate al successo immediato di pubblico, alla risonanza mediatica degli eventi, agli incassi e al merchandising. In realtà dovrebbero dedicarsi al reclutamento di nuovi artisti, mescolandoli magari con i nomi più noti, così come fanno le squadre di calcio meglio organizzate che lavorano per lo più sui vivai. Ricordo una bella esperienza alla Galleria Civica di Arte Contemporanea di Trento, diretta allora da Fabio Cavallucci (1998-2007 circa), in cui artisti sconosciuti potevano esibirsi senza costi e incontrare magari Cattelan o Hirst: una gran bella esperienza istituzionale boicottata però dalla politica.”