04 ottobre 2024

Che ne sarà dell’industria cinematografica italiana? La parola a Chiara Sbarigia

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A margine del primo appuntamento di MyRoma, abbiamo incontrato Chiara Sbarigia, Presidente di Cinecittà e APA - Associazione Produttori Audiovisivo, per fare il punto sulla situazione del cinema in Italia

FraMmenti Club, My-Roma, incontro con Chiara Sbarigia
FraMmenti Club, My-Roma, incontro con Chiara Sbarigia

È stata Chiara Sbarigia, Presidente di Cinecittà e APA – Associazione Produttori Audiovisivo, la protagonista del primo appuntamento di MyRoma, il nuovo ciclo di incontri curato da Clara Tosi Pamphili presso FraMmenti Club. Ospitato all’interno del Palazzo delle Pietre, progetto di ospitalità della famiglia Mazzi, FraMmenti Club è un luogo che rappresenta una storia di mecenatismo contemporaneo, un club con una formula di divulgazione che rinnova la tradizione, la convivialità, l’apertura al dibattito, al confronto tra le menti, nel solco della tradizione delle accademie romane.

In questo salotto culturale, in attesa della Festa del Cinema di Roma, abbiamo incontrato Chiara Sbarigia per parlare del cinema italiano e della sua promozione all’estero. In un momento in cui si attendono i decreti attuativi della nuova legge sul Tax Credit, del quale hanno beneficiato molte produzioni estere che hanno girato in Italia e negli studi di Cinecittà, non possiamo non chiederci cosa accadrà all’industria cinematografica italiana senza quei finanziamenti. Così come non possiamo ignorare che parlare di cinema significa parlare di cultura, di diplomazia culturale e di soft power per favorire il dialogo e la conoscenza del nostro Paese e dei nostri valori.

Chiara Sbarigia

Cinecittà è attiva anche nella promozione del cinema italiano all’estero. Nel 2023 Cinecittà spa ha avuto ricavi per circa 43 milioni di euro. Il denaro proviene dagli accordi per serie tv e cinema con le multinazionali Prime Video, Sky, Netflix, Peacock, Fremantle. Freemantle ha comprato Wildside, The Apartment Pictures, Lux Vide e possiede Fremantle Italia. Quanto stiamo diventando un service? Quale soft power gestisce oggi l’Italia col suo cinema? E quanto il cinema è ancora nostro?

«Il cinema non è più solo, ma dobbiamo iniziare a pensarlo insieme all’audiovisivo. I produttori, i registi, gli autori, gli attori parlano tutti una lingua un po’ più grande, che va al di là del cinema come lo si intendeva in passato. È vero, il fenomeno di mergers and acquisitions in Italia è fortissimo.  Ma, se leggo i dati europei, vedo che la Germania è quella che fa meno mergers and acquisitions,  perché c’è un’integrazione verticale molto forte tra le società di produzione e la committenza, cioè le emittenti pubbliche, soprattutto ZDF. Ci sono tanti investimenti nazionali e tanto prodotto nazionale. Per il resto non ci discostiamo molto dagli inglesi, dai francesi, dagli spagnoli. È sicuramente un tema, ma quando comprano aziende di produzione in Italia, non le svuotano: mantengono il management e le maestranze italiane.  Ci sono dei fenomeni, come quello della Palomar, la società che ha prodotto Montalbano, dove Carlo Degli Esposti, che ha venduto una quota grande di Palomar, ha acquisito una quota più piccola della Casa Madre. Quindi sono in realtà operazioni che non svuotano l’azienda dal punto di vista culturale.

Secondo me, quello che bisogna guardare con grande attenzione sono i committenti. Cioè: chi sono i committenti di queste società anche se restano i manager italiani? Perché noi abbiamo l’arrivo delle grandi piattaforme, soprattutto Netflix, che in parte ha sostituito il calo degli investimenti di Mediaset, ma che compra tantissimo prodotto confezionato all’estero, come per esempio le lunghe serialità turche, che hanno un pubblico pazzesco nel nostro Paese. E c’è anche un grande star system turco che ha preso piede nel nostro Paese.

Penso che si debbano controllare tutti i pezzi del sistema. Vedrei se queste piattaforme hanno cambiato qualcosa nell’offerta. Analizzerei come il cinema, di cui parlavi prima, si è posizionato dentro questo nuovo grande sistema dell’audiovisivo che ha visto una spinta fortissima sulla serialità. Sono tutte domande che ci dobbiamo fare.

E poi c’è il cinema indipendente, che sembra non morire mai, con questa grande vitalità. Vermiglio, film candidato all’Oscar di Maura Delpero, che è veramente di un piccolo produttore indipendente, mi fa pensare che forse c’è spazio per tutti. Io gli auguro una grandissima fortuna».

Il produttore indipendente è una figura che ha veramente ancora spazio con la modifica del tax credit?

«Il tax credit intanto bisogna leggerlo, perché è un testo molto complesso. In realtà ci sono state limitazioni importanti per le società a grande capacità produttiva. Per i piccoli produttori ci sono i decreti direttoriali che escono a breve, che pare abbiano introdotto molti correttivi. Ad esempio, per il documentario viene richiesto al produttore di trovare sul mercato il 30% della copertura finanziaria. Nei decreti direttoriali ci sono però delle correzioni per cui tu devi trovare come copertura solo il 15%. Ci sono state tante mitigazioni, sia per la fiction che per il cinema».

C’è anche il vincolo della distribuzione che deve essere fatta da una delle prime venti società del settore nello scorso anno. Academy Two, ad esempio, che ha distribuito Parasite, non è tra queste. Non solo, ma i colossi internazionali vanno bene per i blockbuster americani, non per distribuire film italiani di qualità ma minori…

«So che hanno già inserito altri parametri che tengano presente anche i risultati delle precedenti annualità e stavano ancora riflettendo su come riuscire a garantire, per esempio, i nuovi entranti. I film piccoli potrebbero poi beneficiare dei criteri festivalieri nel caso vincano premi… So che c’è stato un grande lavoro e siamo tutti in attesa di vedere quali assestamenti sono stati fatti. Ma so che sono state accolte molte delle richieste dei più piccoli».

Progetti per il sostegno del cinema italiano all’estero, soprattutto in occasione di premi come Cannes e gli Oscar?

«Come Cinecittà SpA facciamo tanta attività di sostegno, perché è uno dei compiti che Cinecittà riceve dal ministero della Cultura e Direzione Generale Cinema.

È un’attività che ha costi elevati. Lo scorso anno abbiamo sostenuto il film che è andato agli Oscar con grandissima forza.  Abbiamo un’intera struttura di 12 persone che si occupa di portare i talent,  le delegazioni, che si occupa di ospitare in Italia i direttori dei festival per far loro scegliere anche i film italiani. Abbiamo una struttura che si occupa delle retrospettive internazionali, dei rapporti con le Academy. Un’altra che fa i tre grandi mercati: Berlino, Cannes e Venezia. In questo settore Cinecittà svolge un grande lavoro di sostegno».

220 opere andate perdute nell’incendio del CSC. Alcune opere erano vostre, come i cinegiornali dell’istituto Luce. Come Cinecittà SpA progetti avete e come gestirete ora ciò che resta, visto poi che parte del materiale era di fondazioni che avevano dato in affido gli archivi? La nuova gestione del CSC ha, viste le nuove spese da sostenere per i compensi, fondi necessari?

«Le nostre opere erano copie, perché gli originali li custodiamo nei nostri cellari. Resta il fatto che è andato perso un patrimonio comune.

Il CSC ha i suoi soldi e i fondi del PNRR. Non li hanno neanche utilizzati tutti. Noi abbiamo i cellari,  una struttura separata dalle mura di Cinecittà, che conserva film dagli anni ’20 in poi. Poi noi siamo in continua digitalizzazione. Questo è un tema per me fondamentale, una cosa che dovrebbero fare anche le Cineteche. Ci sono delle Cineteche che non sanno neanche cosa hanno nei loro magazzini. Nella conservazione e archiviazione, ad esempio, sono molto bravi a Bologna.

A me a volte è capitato di cercare film per restaurarli e non ho trovato tutti i materiali, li ho dovuti ricostruire cercando pezzi anche all’estero. È successo con Zeffirelli; poi quando abbiamo recuperato il film di Damiano Damiani, L’Isola di Arturo: dopo altri due mesi sarebbe andato perso, non lo avremmo più potuto restaurare.

Quando ho saputo dell’incendio al CSC mi si è spezzato il cuore, ma è una vecchia storia quella del Centro Sperimentale, una storia vecchia di anni».

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