22 ottobre 2024

Quale futuro per Barcellona? Risponde Filipa Oliveira, mediatrice creativa di Manifesta 15

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Abbiamo parlato con Oliveira del ruolo della mediazione nel creare collegamenti con il territorio, del duplice mandato di Manifesta - internazionale e locale - e delle forme di cura da implementare per affrontare la crisi ambientale attraverso il discorso artistico

manifesta 15
The three Chimneys, Sant Adrià de Besòs. Protocredits Manifesta 15 Barcelona Metropolitana - Arnau Rovira

Secondo la direttrice Hedwig Fijen questa edizione è «la più ambiziosa e decentralizzata» nella storia dell’evento, affermazione che ha acceso sin dall’inizio non pochi dibattiti e posizioni contrastanti. Le domande su se Barcellona avesse davvero bisogno — o fosse pronta — per ospitare un evento di tale portata, così come le discussioni sull’impatto reale della manifestazione nel tessuto artistico e culturale della città hanno aperto, senza dubbio, uno spazio critico e fertile per la riflessione. Secondo Filipa Oliveira, mediatrice creativa di questa edizione di Manifesta 15, il progetto ha il mandato di fungere da catalizzatore di cambiamento. Organizzata attorno a tre cluster tematici – Curare e prendersi cura, Immaginare futuri e Bilanciare conflitti – e distribuita in 12 municipalità, mira a lasciare un’eredità duratura per la regione.

When women strike the world stops, 2020 credits Claire Fontaine. Photo credits Manifesta 15 Barcelona Metropolitana. ph Ivan Erofeev

Sei mediatrice creativa nel contesto di Manifesta 15. Come definisci questa posizione?
«L’approccio di Manifesta alla mediazione era qualcosa di nuovo per me. All’inizio mi sentivo un po’ persa. È stato difficile disimparare a essere curatrice. La sfida è stata abbracciare un processo collettivo di pensiero che non dipendesse completamente da me. Piuttosto che dalla figura di «curatore-dittatore» sono più attratta da processi curatoriali che permettono l’incontro fra sguardi diversi. Per riassumere, potremmo dire che la mediazione creativa è una forma di pensiero curatoriale».

Come hai connesso i cluster principali, ovvero Curare e prendersi cura, Immaginare futuri, Bilanciare conflitti?
«Sebbene temi come il conflitto o il futuro possano sembrare astratti, in questo contesto diventano molto concreti. Ad esempio, il conflitto tra l’espansione dell’aeroporto di El Prat e la preservazione ecologica è un dibattito attuale e urgente per la città. Casa Gomis, una delle sedi principali di Manifesta 15, si trova accanto all’aeroporto e lo illustra in modo tangibile. Gli aerei passano costantemente e, a volte, a seconda del vento, si può uscire da lì con l’odore di cherosene sui vestiti. È impossibile ignorare la realtà del conflitto ambientale quando lo si sperimenta in modo così diretto. Queste tensioni tra crescita e sostenibilità sono essenziali per la discussione sul futuro della città».

Ocean Bird (Washup), 1974 credits Ana Mendieta. Photo credits Manifesta 15 Barcelona Metropolitana ph. Ivan Erofeev

Un altro esempio?
«Anche il cluster dedicato alla cura si collega, a suo modo, al territorio. Le montagne, i fiumi e il mare che definiscono Barcellona sono stati storicamente luoghi di rifugio e protezione. Poi c’è Immaginare futuri, che abbiamo deciso di esplorare attraverso un’incursione nelle Tres Chimeneas, uno degli ultimi spazi costieri non sviluppati, a Sant Adrià de Besos. In tal senso, si configura come l’ultimo luogo in cui si può ancora discutere e progettare il futuro. Cosa ne sarà di quel luogo? Il Comune di Barcellona e la Generalitat de Catalunya potrebbero avere delle idee, ma anche i residenti dovrebbero essere parte integrante del processo».

Riprendendo alcune delle parole chiave che hai menzionato per riflettere sul territorio: i «conflitti» a Barcellona, come la gentrificazione, l’espansione incontrollata e il turismo di massa sono evidenti. Uno degli obiettivi di Manifesta è proprio la decentralizzazione. Come può incidere sui problemi strutturali che una città come Barcellona già affronta, contribuendo all’immaginazione del suo «futuro»?
«È una domanda molto importante, anche Manifesta se l’è posta. Barcellona ha davvero bisogno di Manifesta? A prima vista, la risposta sembra essere no. Ha scena artistica consolidata, con iniziative forti. Tuttavia, l’invito che abbiamo ricevuto dal Comune non era quello di lavorare sulla Barcellona centrale, ma di ripensare le città che la circondano, spesso invisibilizzate. Con i suoi evidenti problemi di gentrificazione, turismo di massa e un’eredità coloniale che persiste ma raramente viene discussa, Barcellona tende a concentrare le risorse. Per questo motivo, la sfida è stata quella di smettere di trattare i comuni dell’Area Metropolitana e dar loro potere come entità con un’identità propria, con strutture culturali più solide, risorse meglio distribuite e bilanci adeguati. Ad esempio, Mataró ha già una base culturale solida grazie al lavoro del M|A|C, ma altre città dispongono di strutture culturali molto precarie che necessitano di maggior sostegno».

Quali forme di «cura» pensi che Manifesta possa apportare con i suoi programmi?
«La “cura” risiede nel rafforzare queste strutture, dare loro maggiore visibilità e permettere che le città dell’area metropolitana giochino un ruolo più rilevante nel tessuto culturale della regione. Se riuscissimo a migliorare la qualità della vita e l’accesso alla cultura in queste aree, più persone scegliessero di vivere fuori dal sovraffollato centro di Barcellona. Certamente una biennale non può risolvere problemi strutturali così profondi, ma come afferma Hedwig, direttrice di Manifesta, può essere un’incubatrice di cambiamento, segnalando le ferite e aprendo spazi di dibattito».

Restos de Sueño [Sleep Remains], 2024 credits Bea Bonafini. Photo credits Manifesta 15 Barcelona Metropolitana ph. Cecília Coca
Restos de Sueño [Sleep Remains], 2024 credits Bea Bonafini. Photo credits Manifesta 15 Barcelona Metropolitana ph. Cecília Coca
Qual è il rapporto tra centro e luoghi circostanti?
«Una delle maggiori sfide è la mobilità tra queste città, dato che tutto è centralizzato a Barcellona. Se vogliamo sviluppare queste aree è essenziale migliorarne la connettività. Stiamo lavorando su questo collaborando con gruppi locali, ma affinché si concretizzi saranno necessarie misure economiche, di mobilità e politiche sociali».

A proposito di risorse economiche…
«Manifesta adotta una politica di totale trasparenza: sul sito web è possibile vedere da dove proviene esattamente ogni centesimo. Inoltre, il budget di Manifesta non viene prelevato dai fondi destinati alle strutture culturali locali. Questo è assicurato dall’accordo con la città per evitare di indebolire il tessuto culturale esistente. Provengono da fondi per eventi internazionali, come quello per la Coppa America. Non siamo qui per competere o indebolire le istituzioni locali, ma per rafforzarle, offrendo una piattaforma di visibilità e sostegno che possano sfruttare».

Parliamo di temporalità. Manifesta ha puntato su un processo lungo prima di svelare il programma. Quale sarà la sua eredità dopo la chiusura?
«L’edizione precedente di Manifesta, tenutasi a Pristina, Kosovo, ha lasciato come lascito fisico il Centre for Narrative Practice, ma gestire questi spazi una volta che Manifesta è finita non è semplice. Mi chiedo: è davvero necessario lasciare una struttura fisica? Non sono sicura che sia indispensabile; credo piuttosto che ciò che conta sia creare un faro, che ispiri nuove destinazioni d’uso per edifici già esistenti».

L’intervista a Filipa Oliveira prosegue su exibart 126. Scarica qui la tua copia 

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