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Nello spazio, dello spazio, sullo spazio: la maturità di Remo Salvadori a Milano
Mostre
Una composizione di cinque elementi in stagno sulla facciata della galleria verso via Monte di Pietà – l’intervento site-specific Nel momento (2017) – annuncia la presenza di Remo Salvadori da BUILDING. Dallo stesso punto di osservazione si intravedono, all’interno, due opere: L’osservatore non l’oggetto osservato (2024) e Non si volta chi a stella è fisso (2024) rispettivamente un’installazione di undici opere in ferro e colore e una colonna in acciaio corten di cinque stelle sovrapposte. Portando lo sguardo su di loro nella vetrina che funge da soglia, ci riflettiamo, come se fossimo nello spazio, dello spazio, sullo spazio. Accade così ciò che Salvadori, con grande umanità, spiega in questi termini: «il vero protagonista è colui che guarda, non la cosa guardata. Nel senso che se uno cerca di fare un’esperienza con l’opera individuata, si potrebbe dire che c’è una direzione che va verso l’opera e una direzione che va verso lo spettatore e poi c’è il fatto che uno si trova esattamente lì: questa consapevolezza in qualche modo ci porta verso un concetto di presenza, perché noi sentiamo quando siamo presenti nello spazio».
«Voglio raccontarvi una poesia – ha detto Salvadori in apertura della mostra intitolata con il suo nome ricordando la sua grande passione per le campane tibetane – che Rainer Maria Rilke scrisse nel 1925: “Risonanza, non più con l’udito misurabile. Come fosse il suono che tutto intorno ci trascende, una maturità dello spazio”. Voglio raccontarvela perché con queste parole ho affrontato il concepimento di questa esperienza, di questa mostra, e perché questa maturità dello spazio è diventata per me una guida».
Ma che cos’è questa maturità dello spazio? Accompagnandoci verso una riflessione, niente affatto retorica, su che cosa essa sia, Salvadori stimola lo spettatore a non guardare la mostra e basta, ma a fare un’esperienza di sé, perché solo sentendosi nello spazio si percepisce il senso preciso del lavoro. Dal piano terra, dove è esposta anche Alveare (2024), opera in rame che si sviluppa a dimensione ambientale con una leggera verticalità che evoca uno spartito musicale, si si sposta verso il primo per andare incontro a quella che Salvadori ha definito «opera trovata nel respiro di un tempo lungo» e che si rivela un’inedita giustapposizione del colore indaco con la sostanza argento attraverso l’opera Nove giornate (2024) – composta da sessantaquattro esagoni dipinti ad acquerello – in dialogo con dieci elementi in argento facenti parte del ciclo di opere Nel momento (2024).
Salendo ancora si arriva all’ultimo piano, dove alcune Tazze (2023, 2024) – «Per me la tazza è la possibilità di relazione con gli altri, la possibilità di passare da uno stadio illusorio bidimensionale a uno stato reale, a più dimensioni», spiega Salvadori – insieme a L’osservatore non l’oggetto osservato (2024) sulla misura di un infante, Alveare (2024), Non si volta chi a stella è fisso (2024) e Nel momento (1998) invitano a una relazione più intima rispetto alla precedente scala monumentale. Questo piano, pensato come sommità di un percorso ascensionale iniziato nel piano terra, concentra forse ancora di più il focus sul Vedersi vedere – dal titolo dell’opera 1996/2019 – in cui si figura, concretamente, ciò che Marco Biraghi scrive nel testo che accompagna la mostra: «Remo Salvadori torna a BUILDING e lo fa non soltanto con opere diverse, ma soprattutto con una coscienza ulteriore del rapporto da istituire con gli spazi della galleria. In questo senso va inteso il modo nel quale dispone le opere basate sui sette metalli (oro, argento, mercurio, rame, ferro, stagno, piombo) all’esterno e sui piani della galleria, concepiti come parte di un unico organismo; uno spazio organico di cui le opere intendono sollecitare i punti energetici (al proposito, infatti, egli utilizza il termine di “agopuntura”). Come risulta evidente da ciò, la pratica artistica smette di essere un puro esercizio di “ostensione di oggetti”, per trasformarsi nella pratica di un respiro, cui Salvadori attribuisce il valore di una “nascita”. Ma una simile pratica del respiro non assumerebbe il suo senso se non si collocasse in uno spazio, se non fosse cioè l’esperienza di sé nello spazio – e precisamente in quello spazio che è a sua volta conformato-trasformato da tale respiro».
In questa esperienza le opere non sono più e non sono soltanto nello spazio, sono dello spazio, sono sullo spazio. «Nel comporre lo spazio esterno e dei piani interni della galleria con tali opere, Remo Salvadori mostra una maturità che, per quanto possa apparire provvisoria sulla base del trascorrere esterno del tempo, risulta invece appartenere allo spazio per sempre sulla base del suo tempo interiore», scrive ancora Biraghi. «Lo spazio ha un tempo interiore che noi aggiungiamo quando siamo al suo interno, così che alla fine il tempo dello spazio risulti la somma delle esperienze che sono state fatte. Questo spazio ha in sé lo spazio di tutto il processo», gli fa eco Salvadori. Ecco, allora, la maturità dello spazio che ci chiedevamo cosa fosse.