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YOU ARE HERE. Milano rafforza la visibilità dell’Asia Centrale nel panorama locale e globale
Mostre
Una vibrante costellazione di visioni artistiche provenienti dall’Asia Centrale, un caleidoscopio di indicatori distinti che invitano ad ampliare gli orizzonti, un tavolo di famiglia metaforico per discussioni aperte, conversazioni critiche e riflessioni profonde: YOU ARE HERE. Central Asia è tutto questo, e abbraccia e propone nuove narrazioni, libere tutte dalla pressione di dover aderire alle dicotomie che storicamente hanno plasmato la percezione dell’Asia centrale. «Abbiamo incoraggiato gli artisti a staccarsi dalla mappa letterale – dichiarano le curatrici Dilda Ramazan e Aida Sulova – e, fuggendo strumentalizzazioni e atteggiamenti esotizzanti, a marcare la loro presenza in modi che fossero in risonanza con la loro percezione di sé, i loro punti di vista, i ricordi, i sentimenti e le esperienze vissute. Che si tratti di spazi mentali, corporei, spirituali, geografici, metafisici o politici, tutte le prospettive sono state accolte nell’ideazione della mostra».
Entrando in Fondazione Elpis ci si trova immediatamente di fronte a un pod’ezd, ovvero a uno spazio d’ingresso comune tra la strada e la casa – familiare a molti residenti dei condomini di epoca sovietica – che Aika Akhmetova (1995, Kazakistan) hanno ricreato, dipingendolo di colore blu nella parte inferiore (la scelta del blu e del verde affonda le sue radici nella storia sovietica: il verde era usato per i macchinari militari, il blu per quelli civili), dove la cassetta della posta funge da contenitore di oggetti e di emozioni, anche proibite, come baci furtivi degli adolescenti, marachelle, conversazioni ascoltate, liti o festeggiamenti. Da Rage Fantasies, che Akhmetova descrivono nei termini di «un progetto sull’amore, la rabbia e la guarigione», il percorso si apre verso le ricerche pittoriche di Temur Shardemetov (1990, Karakalpakstan, Uzbekistan) e Nurbol Nurakhmet (1986, Kazakistan) che, rispettivamente, l’una annulla il confine tra uomo e natura in nome dell’armonia tra le diverse specie viventi, e l’altra tenta di tradurre plasticamente l’idea di storia perduta e riscritta – questo tentativo di Nurakhmet si esplicita nella scelta di dipingere su ottone, perché quando si dipinge sul metallo, si può rimuovere completamente la vernice come se non fosse mai stata applicata sulla superficie, ottenendo una lastra quasi vergine.
Sul piano, Qizlar (Uzbekistan) mostra, attraverso un’installazione multimediale costituita da vari messaggi video e audio presi da Telegram, un mondo di connessioni fisiche e digitali, dove emozioni ed esperienze creano una mappa-griglia delle relazioni delle componenti del collettivo tra loro e con la loro città natale, Tashkent; mentre Medina Bazargali (2001, Kazakistan) presenta Call-дау, or emotional support hotline, un progetto che intende creare una linea telefonica di supporto emotivo con voci preregistrate di persone anziane – in lingue come il kazako, il kirghizo, l’uiguro, l’uzbeko, il tagico, l’inglese e l’italiano – che offrono conforto agli individui che affrontano traumi legati alla loro patria e alla difficile decisione di lasciare il loro Paese. Pur con media diversi, il dialogo intergenerazionale che anima l’opera di Bazargali, e che svolge un ruolo importante in Asia Centrale, è determinante anche nelle pratiche di Aïda Adilbek (1994, Kazakistan) e Kasiet Jolchu, (2000, Kirghizistan), che hanno trovato ispirazione e sostegno nei ricordi e nei racconti delle loro nonne. Esposte entrambe al piano inferiore, anticipate dalle animazioni di Marat Rayimkulov (1984, Kirghizistan), Adilbek nella serie fotografica Jeti Qaraqshy mostra diverse mostra diverse qalta (borse) realizzate a mano dalla nonna; Jolchu invece, ricordando uno dei mestieri tradizionali kirghisi appresi dai suoi familiari, realizza cannicci con lunghi steli d’erba – chiamati chiy – che raccoglie, pulisce, avvolge separatamente con lana di vari colori e poi lega insieme fino a formare un intricato disegno.
Nel piano interrato, sulla destra, Sonata Raiymkulova (1996, Kirghizistan) riflette sul significato dell’esistenza e dell’umanità – Echoes of Existence è il titolo delle grafiche murali, della scultura e del bassorilievo – muovendo dalla sua esperienza personale e dalla sua identità di figlia, donna e cittadina; a sinistra invece nella sala che accoglie l’opera di Munara Abdukakharova (1990, Kirghizistan) sono proposte le opere video di Her Five Lives di Saodat Ismailova (1981, Uzbekistan), che si concentra sull’evoluzione degli archetipi dell’eroina femminile nel cinema uzbeko; Looking for You di Azadbek Bekchanov (1996, Uzbekistan), che mostra come la tecnologia influenzi la nostra percezione della realtà e l’ambiguità che si crea in questo vortice tra virtuale e non virtuale; e la documentazione video della performance Snail (Spiral) di Chyngyz Aidarov (1984, Kirghizistan), creata ricordandosi di quando, da operaio migrante, lavorava come addetto al carico merci in una fabbrica di dolciumi e viveva nei cosiddetti appartamenti di gomma, dove un posto letto non era altro che un materasso standard che ogni mattina andava arrotolato: «dopo tre mesi di lavoro senza un giorno di riposo, il tempo e la sua percezione si trasformano, si perde semplicemente la connessione con il tempo e la vita si misura solo con il rotolamento e lo srotolamento del materasso», ricorda Aidarov.
Al piano superiore trovano collocazione la ricerca di Ulan Djaparov (1960, Kirghizistan), che si immerge nel regno del mondo naturale alla ricerca della fusione tra uomo e ambiente; l’installazione Bir Ai di Said Atabekov (1965, Uzbekistan), composta da trentuno lune, tutte rappresentate dai ferri di cavallo metallici; la video performance di Bakhyt Bubikanova (1985-2023, Kazakistan), che mette in scena una figura androgina seminuda, rappresentata dall’artista stessa nella classica posa dell’iconografia di San Sebastiano legata a un palo dell’elettricità da qualche parte nei pressi di Almaty; e New Patterns for Suzani: Tree Stumps di Anna Ivanova (1971, Uzbekistan), un vibrante collage tessile creato su un tessuto Ikat tradizionale, che vuole offrire una narrazione visiva al contempo di perdita e rinnovamento. Al centro della sala Tar di Zhanel Shakhan (1992, Kazakistan) manifesta l’esperienza delle donne, spesso percepite come “troppo” per i ruoli imposti dal contesto sociale: troppo audaci, troppo attive, troppo schiette. La scultura assume la forma di un corpo femminile con mani sovradimensionate trasformate in un nodo rotondo, come un cespuglio rotolante che vaga nello spazio, e raffigura sia la stagnazione che il movimento.
Alla sua sinistra Emil Tilekov (1962, Kirghizistan) esplora i labirinti come tracce dell’esistenza umana e su tre pannelli in feltro propone, a partire dalla raffigurazione del labirinto, la possibilità di un legame tra gli scioscioni statunitensi e il popolo kirghiso. Sulla destra invece Vyacheslav Akhunov (1948, Kirghizistan) presenta un progetto congiunto con la sua apprendista e collega Ester Sheynfeld (2000, Uzbekistan): The Disappearance di Akhunov prevede la cancellazione letterale di parti di testo, fotografie e immagini da parte dell’artista, creando così distruzione, o meglio decostruzione, Dust di Sheynfeld consiste invece nel raccogliere, conservare e disporre con cura la polvere prodotta dal gesto di cancellazione di Akhunov all’interno di piastre di Petri. Più in fondo, NKVD – picco che ora ha il nome di Pierre de Coubertin, ma per motivi politici ha cambiato nome molte volte – è l’installazione di Yerbossyn Meldibekov (1964, Kazakistan) e consiste in quattro bacinelle di alluminio con le caratteristiche linee di scanalatura che ricordano le mappe topografiche, dove le irregolarità e i dislivelli sono indicati dalla distanza tra le linee. L’artista ha deformato il rigoroso ordine originale delle linee, in modo che la loro disposizione interrotta crei l’immagine topografica di un rilievo montuoso, arricchita da punti di marcatura incisi e dai nomi delle cime dell’Asia centrale.
All’esterno Alexey Rumyantsev (1975, Tagikistan) realizza The Wall, un muro dove tra i mattoni l’artista fa scorrere il tradizionale tessuto Ikat, che funge così sia da elemento legante che da vettore del sudore e delle storie dei lavoratori. Da qui, è ben visibile anche l’opera all’aperto Landmark by the Sun che Rashid Nurekeyev (1964, Kazakistan) ha realizzato come un punto di rilevamento – un modo per mappare il mondo, per marcare il proprio territorio – sulla cui cima è collocata una testa di volpe. Come il muro di Rumyantse è un muro da abbattere, così YOU ARE HERE. Central Asia incoraggia ad ampliare gli orizzonti, a immergersi nelle opere, a scoprire dimensioni e profondità delle molteplici identità in gioco, a lasciarsi coinvolgere da un affascinante intreccio di rimandi e di espressioni che è ben visivamente espresso da Horizontal Line from the series Öliara: The Dark Moon, l’installazione di Gulnur Mukazhanova (1984, Kazakistan) che collega tutti e tre i piani dell’edificio della Fondazione, assicurando la continuità della narrazione della mostra. Gli strati di tessuto, a tratti intricati, a a tratti minimali, con cui Mukazhanova realizza l’opera fanno pensare a strati di ricordi, che si fondono con il presente e si mescolano al futuro, restituendo quei «meravigliosi e inaspettati intrecci» – di cui parla il Direttore Bruno Barsanti – che sono al cuore dell’Asia Centrale. E tu, e noi, siamo qui.