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Parthenope di Sorrentino ci ricorda che siamo tutti un po’ vecchi e un po’ miserabili
Cinema
Alla domanda su cosa gli piaccia di più, Jep Gambardella ne La Grande Bellezza, risponde: «l’odore delle case dei vecchi». Si tratta di una provocazione, l’alternativa alla risposta che darebbero tutti gli altri. Ebbene, Parthenope è un film su questa risposta, ed è collocato in quel locus indistinto, primigenio e terminale allo stesso tempo, che compare nelle memorie e nei sogni di Jep, dunque di Sorrentino stesso, cioè Napoli, non intesa come luogo fisico, ma come stato mentale, un po’ come l’Europa di Lars von Trier, autore con cui Sorrentino ha in comune il fatto di far arrabbiare le femministe tramite l’evocazione di «mezze sante e mezze vacche» (Diane Keaton docet). E chi si vuole infuriare si infuria di gusto, anche perché oggi sappiamo che a Sorrentino piace sia «l’odore delle case dei vecchi» che l’altra cosa e qui, in un seguito concettuale di È stata la mano di dio, continua a raccontarla a suo modo, affidandola a volto, movenze, estremità e imperfezioni pulsanti di Celeste Dalla Porta, bellezza comune ma “memorabile” (cit. Luisa Ranieri/Greta Cool), che sembra una Mia Goth mediterranea e dotata di sopracciglia. Una memorabilità, la sua, innescata proprio dalla narrazione e dall’essere non “straordinariamente” bella, ma “autenticamente” bella.
La trama (se di trama si può parlare) in breve: Parthenope, giovane, ricca, brillante, bella studentessa di antropologia è una sirena nata dalle acque del golfo. Durante la sua crescita seduce chiunque incontri – prima negandosi allo sfinimento e poi concedendosi – per il solo fatto di essere (citando sempre Sorrentino) “assertiva”. Si snoda così il bildungsroman di questo personaggio che pare contribuire alla salvezza del mondo per il solo fatto di esistere in quanto giovane, in quanto bella, in quanto lì. Fino alla seduzione del Demonio stesso.
Celeste Dalla Porta è il film. Sedotta dallo sguardo lubricamente bonario della macchina da presa, lei sfonda la quarta parete e seduce la platea. Poi ci sono Silvio Orlando e Peppe Lanzetta – il bene e il male – che rappresentano il tonfo che fa la realtà tramite l’ironia tragica della farsa. E infine, a marchio Sorrentino, c’è tutto il coro di maschere di questo realismo magico senza futuro: da Lorenzo Gleijeses, straordinariamente trasformato nel padre Geppy, ad Alfonso Santagata, dal cammèo di Biagio Izzo alla sorpresa di Isabella Ferrari. Manca solo Servillo, ma stavolta lui è dietro la macchina ad ammirare la grande bellezza. Gary Oldman nel ruolo di John Cheever è puro marketing anche se ci strabilia con almeno due battute (scoprite voi quali). Va diversamente con Stefania Sandrelli che risulta poco credibile nel ruolo della vecchia ninfa. Forse è il motivo per cui il film perde vigore nel finale.
L’estetica di Parthenope è quella ormai reperibilissima nel sembiante della maggioranza delle giovani ragazze carine che incontriamo per strada (mi sa che Fulvio Abbate ci ha scritto qualcosa in merito), ma a tutte loro mancherebbe la straordinerietà dell’epos. In questo consiste l’intervento artistico dell’autore. Ridondante, retorico? Può darsi. Anni fa, ascoltando Hai paura del buio? degli Afterhours mi resi conto che non solo era un concept su Milano, ma anche sulla risposta alternativa a quella di Jep. Dandomi questa interpretazione ebbi la visione di una bellissima ragazza che solcava al rallentatore la banchina di una fermata della M3. Beh, tralasciando il fatto che Dalla Porta è nata a Milano e, se si escludono l’introduzione e il fatto che gli Afterhours non c’entrano nulla, Parthenope inizia in maniera simile, con Napoli invece di Milano, in un binomio che è sempre lo stesso: città/altra risposta alternativa a quella di Jep. Così Parthenope è un denso, rarefatto, simbolista viaggio nella perdita d’innocenza, collocato in una specie di Marienbad napoletana, densa ed evanescente come un Hofmannsthal in salsa tirrenica.
La storia ricalca allegoricamente la genesi della città, dalla nascita alla rifondazione cumana, da Parthenope a Neapolis, in una corrispondenza che richiama i temi fondamentali del regista e che rilegge a suo modo questi valori universali (banali se vogliamo) con una chiave capace di renderli avulsi da ogni richiamo morale. Così le vestigia della Chiesa, come in Young Pope, così gli anziani che sbavano dietro la forza dirompente della giovinezza, come in Youth. Perché la loro corruzione è la nostra: umana e sgangherata, quindi più compatibile che stigmatizzabile. In altre parole, noi non siamo Parthenope, ma siamo tutti gli altri e come tutti gli altri non rispondiamo come Jep, ma nell’altro modo, e per questo siamo tutti un po’ miserabili e un po’ vecchi. A differenza di Parthenope e del figlio di Silvio Orlando. Insomma, da vedere. Anche solo per chi vuole insultarlo per non sentirsi vecchio.