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Come hai scoperto la tua passione per l’arte? Ci sono stati momenti o persone particolari che hanno influenzato il tuo percorso?
Ho sempre nutrito un sincero fervore nei confronti dell’arte. Inizialmente per quella antica, alla quale ho cominciato a interessarmi fin dalla più tenera età, già nei primi anni di scuola; passione rimasta inalterata nel tempo e che sarebbe poi sfociata nella mia brama di collezionare pittura del Sei-Settecento.
L’aspirazione a “fare” arte è sorta come immediata conseguenza a tutto ciò. Cominciando dapprima a copiare – come quasi tutti, credo – grandi classici della pittura per poi sentire presto la necessità di creare qualcosa “di mio”. Il punto di svolta, se così si può definire, è stato subito dopo la laurea in Giurisprudenza; quando, dopo anni di autonomo studio artistico, ho deciso di intraprendere uno specifico percorso di tecniche pittoriche in seno all’Accademia di Verona, dal 2007 al 2011, sotto la guida sensibile e raffinata di Silvio Lacasella. Questo è stato il momento in cui ho iniziato davvero a convincermi che l’arte poteva essere la mia strada, anche professionale.
Ci sono temi o concetti ricorrenti che esplori attraverso la tua arte? Cosa ti ispira maggiormente?
Sono profondamente affascinato dalla natura travagliata dell’Uomo e nelle mie opere ho sempre cercato di riflettere in merito alle ragioni e agli effetti delle inquietudini che lo caratterizzano. Il mio lavoro, pur partendo da istanze ed esigenze personali, cerca tuttavia di travalicarle nel tentativo di cogliere e rappresentare una condizione il più possibile collettiva e condivisa.
Oltre a ciò, anche il mio essere collezionista di pittura antica emerge con costanza in quel che faccio, sia per la continua attenzione al dato tecnico, sia attraverso la ripresa di iconografie c.d. “classiche”; le quali – sono convinto – una volta permeate di nuovi contenuti hanno la possibilità di offrire spunti assolutamente validi ed attuali.
Come pensi che il contesto culturale e sociale in cui vivi influenzi il tuo lavoro artistico?
Credo sia fondamentale, per una ricerca artistica che intenda proporsi come contemporanea, l’aspirazione a cogliere gli spunti peculiari che un determinato contesto è in grado di offrire, in positivo o in negativo.
Nel corso della mia attività ho sentito spesso il bisogno di esprimermi in merito a quanto mi stava accadendo attorno. Sia in reazione a clamorosi episodi di cronaca, come il “furto di Castelvecchio” nel 2015, che mi ha spinto a lavorare – con la serie Iniuria – sul concetto di fragilità della Bellezza; sia quale personale risposta ad una situazione fortemente drammatica come la gestione dell’emergenza sanitaria da COVID-19 e le relative restrizioni sociali.
Puoi raccontarci di un progetto o di un’opera a cui tieni particolarmente e spiegarci il motivo?
Molto volentieri, e mi ricollego proprio a quanto appena accennato. Vorrei parlare di Mirror (“specchio”) il mio progetto più recente, che ho iniziato a sviluppare a partire dal primo lockdown.
Sono sempre stato affascinato dal cinema e dalla sua straordinaria capacità di esprimersi attraverso le immagini; proprio durante i mesi di chiusura sociale ho quindi avuto modo di riprendere e approfondire la visione di capolavori che già conoscevo, nonché di imbattermi in realtà a me nuove, avviando così ulteriori e importanti spunti di riflessione. In tal senso, la visione di questi film era diventata, assieme alla pittura, il principale canale di sfogo e di nutrimento artistico, in assenza pressoché totale di qualsiasi altro contatto sociale. Un modo per far viaggiare la testa a velocità altissima, con cambi di situazioni e prospettive tanto repentini quanto il passaggio da un film all’altro. Proprio nel momento in cui, al contrario, in mondo viveva una sospensione al limite del surreale.
La scelta delle pellicole, apparentemente casuale, in realtà rispondeva a precise linee di ricerca che – all’inizio inconsciamente, poi con sempre maggior consapevolezza – stavo cercando di sviluppare, nel tentativo di trovare punti di contatto tra il mio lavoro e i film di cui mi nutrivo così voracemente. Arrivando infine a riconoscere frammenti di me stesso “riflessi” in quelle pellicole. Mirror, appunto.
Avrò sempre un profondo legame con questa serie di lavori: attraverso Mirror, infatti, l’astinenza sociale si è tramutata in occasione per riflettere intimamente su me stesso. E scoprire, forse, qualcosa di nuovo.
In che modo l’interazione con il pubblico influisce sulla tua pratica artistica? Ti capita di modificare il tuo lavoro in risposta ai feedback che ricevi?
Mi è sempre piaciuto osservare le reazioni del pubblico alle mie opere; divertendomi di tanto in tanto, in occasione di fiere o mostre collettive, a fingermi anch’io semplice visitatore dell’evento per poter meglio cogliere commenti e sensazioni non condizionati dalla presenza dell’autore. A parte questo divertissement, amo vivamente discutere col pubblico del mio lavoro, sia per fornire approfondimenti sulla mia ricerca sia, soprattutto, per rendermi davvero conto di cosa sia effettivamente “filtrato” attraverso le mie opere. E mi capita allora di riscontrare, con grandissimo interesse, come l’effettiva percezione del pubblico non sempre si limiti alle mie intenzioni di partenza: anzi, talvolta emergono letture ulteriori o sfaccettature di significato che mi sento di condividere, pur non avendone avuto piena consapevolezza fino a quel dato momento. In questo senso riconosco grande importanza all’interazione col pubblico.
Nella pratica della creazione, tuttavia, mi reputo piuttosto indipendente. Ai limiti dell’intransigenza. Negli anni il mio lavoro si è certamente evoluto e modificato, ma non per consapevole presa d’atto dei feedback del pubblico. E non mi è mai capitato di alterare un’opera dopo un giudizio, neppure su espressa richiesta di un potenziale acquirente. La responsabilità, anche morale, che l’artista ha nei confronti del proprio lavoro non deve mai venir meno.
Cosa pensi della commercializzazione dell’arte contemporanea? Pensi che possa compromettere l’integrità dell’opera o la sua funzione critica?
Sono convinto che la commercializzazione delle creazioni artistiche non vada assolutamente demonizzata, anzi. Chi ambisce a “praticare arte” a livello professionale dovrà, per forza di cose, tener presente anche l’aspetto economico e commerciale, alla stregua di qualsiasi altra professione; come, d’altronde, è sempre avvenuto nel corso della storia dell’arte.
Detto ciò, reputo comunque imprescindibile per un artista preservare una genuina integrità intellettuale; avendo cura di assecondare innanzitutto la propria intima esigenza creativa, prima ancora delle impellenze del mercato. Solo in questo modo l’opera d’arte rimarrà “onesta” e vero specchio del suo autore, conservando intatta la sua funzione critica.
Certamente, può non essere sempre facile far combaciare gli estremi di una ricerca artistica con i canoni della c.d. “vendibilità” di un’opera. Ma rimango sinceramente convinto che l’onestà creativa, alla lunga, ripaghi sempre.