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Donna, in che senso?
Attualità
di Carlo Settimio Battisti e Federico Sacco
Simone de Beauvoir ha affermato «Donne si diventa, non si nasce». Luisa Muraro ha risposto, invece, il contrario: «Donne si nasce, perché nasciamo tutti da donna, e uomini si diventa». Questa tensione non è solo teorica, ma profondamente esistenziale. Che cosa significa essere donna? E cosa significa diventare uomo in una società che ancora vincola il corpo al proprio destino? La dialettica tra nascere e diventare trova una dimensione di scontro e riflessione nei percorsi di transizione, evidenziando come il concetto di genere come classificazione biologica sia ormai obsoleto. Non si tratta più semplicemente di maschio e femmina, ma di una complessa rete di identità che si costruiscono, si scelgono e si rivendicano. Come possiamo conciliare queste prospettive? Il genere, scrive Judith Butler in Gender Trouble, è «una performance, un atto ripetuto»: la biologia non basta a definirlo. Attraverso la sua ripetizione e costruzione sociale, si frantuma: i «cinque sessi» di Anna Fausto-Sterling si moltiplicano e diventano mille. Abbiamo bisogno di una lingua che cambi ed evolva con noi: il termine “transessuale” sembra implicare una destinazione finale, un traguardo del sesso. Invece, “transgender” riflette ciò che il genere realmente è: una fluidità di comportamenti, un costante mutamento. Il termine “trans” si spoglia di qualsiasi gabbia identitaria: non appartiene più a nessuna classificazione rigida, ma fluisce, si evolve insieme all’esperienza di chi lo vive.
Da qui si apre la riflessione sulla femminilità. Secondo Andrea Long Chu, essa è «il desiderio di essere desiderata» (FEMMINE), non più un obbligo sociale o un destino biologico. È una volontà, una sottomissione volontaria che non è sinonimo di debolezza, ma si trasforma in una forma di potere. Cosa significa allora essere uomini e donne se queste identità non possono essere vincolate al corpo? E quale ruolo ha il corpo nella definizione di mascolinità e femminilità? Questi interrogativi ci spingono a confrontarci con il conflitto tra ciò che crediamo naturale e ciò che è il prodotto di secoli di narrazioni, ruoli e aspettative sociali. Il femminile, storicamente rappresentato da caratteristiche di cura e passività, nasconde un processo di limitazione. L’idea che la donna sia naturalmente portata alla cura non è altro che una trappola sociale, che ne impedisce l’esplorazione di altre possibilità. Ridurre l’identità femminile alla maternità è un modo per confinare le donne in uno spazio ristretto, quello di madre, escludendone le potenzialità. Al contrario, diventare uomo significa entrare in un sistema di potere basato sulla performance e sul controllo, che non solo reprime altre espressioni, ma crea anche una gerarchia tra i generi. Il maschile viene associato al dominio, il femminile alla sottomissione, con effetti limitanti su entrambi i sessi.
Il legame tra genere e ruoli sociali è particolarmente evidente nella provocazione di Deborah Giovanati, Consigliere Comunale del Comune di Milano, che lo scorso ottobre durante un’assemblea ha scatenato le polemiche in aula chiedendo alla giunta milanese: «Come facciamo a definire che cos’è una donna? Riuscite a distinguere chi è un uomo e chi una donna?». Il problema è innanzitutto linguistico. Abbiamo associato un significante (donna) a un significato fisso, legato a immagini e concetti rigidi. Giovanati insiste: «Per me l’unica certezza è che una mamma è una donna» cedendo alla confusione e alle incertezze di questo secolo, facendosi probabilmente portavoce di un’educazione di stampo patriarcale associa la maternità a una figura piuttosto che a un concetto. Dimentica, forse ignora, altri tipi di genitorialità non associabili a un destino biologico o identitario. Adrienne Rich ha descritto la maternità come una delle costruzioni ideologiche più potenti del patriarcato (Of Woman Born). Tuttavia, può essere riscritta e rielaborata. La maternità, tradizionalmente vista come apice della femminilità, può diventare un simbolo di sottomissione. Manon Garcia, in Sottomessa non si nasce, lo si diventa, afferma che la sottomissione non è una condizione naturale, ma una scelta condizionata dalla società. Le donne sono state educate alla sottomissione, e hanno imparato a vedere nella rinuncia una virtù. Ma Garcia ci ricorda che la sottomissione può essere rifiutata, reinterpretata come un atto di autonomia. In questo senso, la maternità stessa, pur essendo una forma di sottomissione, può essere sovvertita. Il legame tra maternità e sottomissione si estende alla sfera sessuale. Andrea Long Chu ci invita a considerare la sottomissione come una forma di desiderio: desiderio di essere accolti, visti, desiderio di relazione. In questo contesto, la maternità diventa una forma di sottomissione sia sessuale che sociale, un’accettazione volontaria di un ruolo imposto. Chu ci offre una prospettiva diversa: la sottomissione non è debolezza, ma potenza. Una resa che, attraverso il desiderio, genera una nuova forma di libertà.
A questo punto, il cerchio si chiude. Che cosa significa allora divenire donna o uomo? Significa, forse, rifiutare le narrazioni imposte e scegliere le proprie. Il genere non è un destino tracciato nel corpo, ma una mappa che possiamo riscrivere. Diventare donna, come suggerisce de Beauvoir, è un processo continuo di scoperta e creazione. Un atto di ribellione contro le definizioni rigide della società. In questa continua negoziazione con il mondo, la sottomissione si trasforma da condanna in atto di libertà. Diventare donna o uomo, in fondo, è riscrivere sé stessi al di là delle apparenze e dei ruoli imposti; soprattutto se a essere donna (o uomo) è chi non ne ha l’aspetto attraverso una lente sociale.
Questo articolo è apparso sul numero 126 di exibart.onpaper. Scarica qui la tua copia