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Il mondo distopico di Beeple va in mostra in Cina. È la prima personale mai realizzata dell’artista digitale
Mostre
Era marzo 2021 quando il martelletto della casa d’aste Christie’s batteva Everydays: the First 5000 Days alla cifra record di 69 milioni di dollari, facendolo passare immediatamente alla storia come l’NFT più costoso di sempre. A distanza di tre anni, lo stesso digital artist che ha aperto un lungo dibattito sul valore – non solo economico – dell’arte digitale lo ritroviamo al Deji Art Museum di Nanjing (italianizzato Nanchino), protagonista della prima personale mai realizzata dal titolo Beeple: Tales from a Synthetic Future. In questo mondo orientale così fluido, in cui antico e contemporaneo, archeologia e metaverso convivono senza alcuna barriera di sorta, non è strano trovare una sede espositiva all’ottavo piano di un centro commerciale. Il Deji Art Museum, infatti, è integrato in un vasto mall di brand di lusso che fa capo al Deji Group e che unisce le sue varie anime in diversi percorsi espositivi: da una parte il percorso multimediale che racconta la storia della città a partire dalla dinastia Song (1000 d.C.), dall’altra la curiosa collezione di nature morte e composizioni floreali dei maggiori artisti – sia occidentali che orientali – dall’Ottocento fino ad oggi. In questo ambito, il digital rappresenta la nuova frontiera alla quale il museo cinese intende ancorarsi (seppur non nuova, come dimostra la presenza di Unsupervised, il lavoro di Refik Anadol precedentemente esposto al MoMA di New York). A sottolineare l’importanza di questo passaggio, il museo ha invitato un panel di peso a discutere attorno agli interrogativi mossi dalla mostra e di questo nuovo orizzonte del fare arte: tra loro il curatore Hans Ulrich Obrist (questa volta in veste di senior artistic advisor), l’ex direttrice del Castello di Rivoli Carolyn Christov-Bakargiev, il curatore dell’M+ di Hong Kong Sunny Cheung e la curatrice del Nasher Museum del North Carolina Xuxa Rodríguez.
Per la prima volta, insomma, Beeple, al secolo Mike Winkelmann, ha la possibilità di raccontare per intero la propria storia e ricerca. Beeple: Tales from a Synthetic Future, va detto, non è interamente smaterializzata, ma anzi attinge a un ampio ventaglio di media: a partire dall’ingresso della mostra che, come una raccolta di oggetti archeofuturistici costituiscono gli strumenti utilizzati da un Beeple in erba. Personal computer degli anni ’80 e ’90, cd-rom, schermi ingombranti e televisori mostrano i suoi primi esperimenti di videoarte, assieme ai numerosi riferimenti culturali dei decenni scorsi, da Pulp Fiction a Donnie Darko. Dalla seconda sala si entra nel pieno della produzione largamente nota dell’artista: sulle quattro pareti viene infatti proiettata una selezione di Everydays, le immagini che dal 2007 – una al giorno, come si evince – vengono prodotte utilizzando Photoshop: se l’opera venduta da Christie’s conteneva le prime 5000, oggi siamo a oltre 6000 (durante l’inaugurazione al Deji l’artista ha realizzato la #6406 in una live session aperta al pubblico).
«Penso che l’idea della ritualità sia davvero centrale», spiega Obrist. «È una sorta di regola auto-imposta da un giovane artista che poi ha continuato ad attenersi al piano. In un momento come questo che sta uccidendo ogni sorta di ritualità è importante recuperarne la pratica. Se qualcuno mi chiedesse cosa spero che i giovani artisti imparino, non risponderei la tecnologia ma mi concentrerei su questo aspetto. È la base per la costruzione di ogni istituzione». Trovarsi in questa sala vuol dire fare esperienza di una tempesta iconografica in cui i simboli della contemporaneità si incrociano e sovrappongono fluendo come le miriadi di immagini che scorrono ogni giorno sul feed dei nostri telefoni. Una sensazione tanto straniante quanto familiare.
Il codice linguistico dell’artista – questa mostra è curata da lui stesso, assieme al team del museo – descrive un panorama apocalittico e distopico, che predilige la straniante stratificazione dei simboli. Sul futuro infatti, Beeple non lesina scenari, ma lo fa in modo tutt’altro che rassicurante: lo si vede nei dipinti come Adaptation o Regenerate, in cui l’elemento naturale è sopravvissuto a una città devastata e alluvionata risucchiandone le energie, oppure in Block Zero e Tomorrow, in cui inquietanti giganti sono diventati i nuovi idoli biblici, oggetti di venerazione in mezzo a un paesaggio desertico. Oltre ai temi trattati, all’interno di questa serie di dipinti è impossibile non porre l’accento sul tema dell’autorialità: queste opere infatti, riprese dalla versione digitale degli Everyday e dipinte a mano da un copista, diventeranno degli NFT non-fungible-token dotati di una tecnologia che ne certificherà per sempre la proprietà. Anche in questo caso viene ribaltato il paradigma del sistema tradizionale, aprendo ulteriori quesiti sull’autorialità dell’opera.
A impressionare maggiormente all’interno del percorso, tuttavia, sono le “scatole rotanti” di oltre due metri di altezza al cui interno, attraverso un implemento sofisticatissimo della tecnologia generativa, si sviluppano storie legate all’essere umano, al digitale, all’ecologia e all’universo. Ne è un esempio S.2122 (2023), acquisita dal Deji Art Museum, che mostra un grattacielo che alterna la distruzione (l’edificio in fiamme) a una situazione di calma e prosperità. Nonostante questo binomio paradiso-inferno, l’immagine si rigenera continuamente mutando nei dettagli, ogni volta diversa da se stessa (ma permane un inquietante Saturno di Peter Paul Rubens, impresso su una bandiera ridotta a brandelli). È un dispositivo morfologico, un “organismo vivente”, come lo definisce Obrist: con chiaro riferimento all’allarmante innalzamento dei mari, il livello dell’acqua presente sul fondo viene aggiornato ogni cinque giorni, fino a quando si arriverà al 2122 (l’opera è destinata a durare fisicamente cento anni?), momento di non ritorno in cui sommergerà del tutto il grattacielo. La stessa cosa avviene in Human One, dove troviamo un astronauta-robot il cui volto è coperto da un imponente casco, che cammina inesorabilmente attraverso paesaggi devastati, futuristici o futuribili: anche in questo caso un lavoro non-finito in cui l’artista potrà continuare a intervenire da remoto aggiungendo nuovi dettagli e contesti. La stessa opera l’avevamo vista in Italia, al Castello di Rivoli nel 2022, in un contesto espositivo che la metteva a confronto con Study for Portrait IX (1956-1957) di Francis Bacon. «A parte alcune eccezioni, c’è una certa reticenza da parte del mondo dell’arte tradizionale verso il digitale», spiega a exibart Carolyn Christov-Bakargiev. «Intanto per un problema di accesso alle fonti del lavoro – non tutti sanno dove trovarlo – e poi per una questione sociologica: siamo in transizione da un’epoca post-industriale a una conseguente alla rivoluzione digitale. Questa porta con sé nuovi gruppi sociali, nuove identità, nuovi gusti. Emergono linguaggi artistici che prima non esistevano, emerge quello che all’inizio è sempre un “cattivo gusto” rispetto al paradigma dominante». E conclude, «tuttavia Beeple non ha il suo pubblico solo nel mondo online, è interessato anche al rapporto con l’elemento fisico, come queste scatole che sono anche gli ingigantimenti dei dispositivi che portiamo sempre con noi. Le dimensioni di queste sculture ci possono contenere, hanno un qualcosa dell’Uomo vitruviano e si rapportano con lo spettatore».
Anche secondo Obrist parte del problema oggi sta nella percezione del digitale come “qualcosa di altro” rispetto a ciò a cui siamo abituati. Un divario che è inevitabilmente più persistente nel mondo occidentale, dove la storia dell’arte, quella fatta di pigmenti, oli, gessi, pietre, marmi e terrecotte costituisce un pilastro identitario e culturale fondante. Ma su quali basi l’arte digitale può allora entrare a pieno titolo del discorso dell’arte? Possono l’iper-produzione di immagini e l’uso sofisticato dell’innovazione tecnologica essere sufficienti a rappresentare il contemporaneo, leggerne il tempo, comprenderlo da punti di vista inattesi? Possiamo dare per scontato l’equazione digitale = futuro? Obrist pare non avere dubbi: «Trovo sorprendente che una pratica come quella di Beeple non fosse ancora stata esposta in una mostra museale. Ma penso anche che quella sorta di divisione che c’è tra arte digitale e non digitale sia un rapporto binario che dobbiamo sorpassare. Lo dimostra il grande numero di mostre oggi che mescola entrambe le modalità. Nella mostra di Beeple accade la stessa cosa: sono esposte sculture cinetiche, disegni, pittura. Allo stesso modo in cui nel XX secolo si classificarono le discipline umanistiche da una parte e quelle scientifiche dall’altra, oggi ci troviamo in una situazione analoga: c’è questo divario da colmare».