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Maurizio Mochetti, dalla prospettiva del perfettibile: intervista all’artista
Arte contemporanea
Presso la galleria Contemporary Cluster di Giacomo Guidi, a Roma, sarà visitabile fino al 31 gennaio 2025 la personale di Maurizio Mochetti (Roma, 1940), 30 PROGETTI 2 REALIZZAZIONI, con la visione critica di Alberto Mugnaini. Il titolo si pone come omaggio e prosecuzione della mostra dell’artista inaugurata nel 1968 alla Galleria La Salita di Gian Tommaso Liverani. La nuova esposizione consiste in una messa in ordine della produzione dell’autore, dal suo esordio fino ai lavori più recenti. Essa consta di due installazioni degli anni Sessanta e di un prezioso corpus di 30 progetti su carta che si «Perfezionano nel tempo».
«L’intento di questa personale è quella d’oltrepassare qualsiasi standardizzazione di riconoscibilità legata alla figura di Maurizio che, dagli Anni Ottanta, è stata talvolta associata al “laser”. C’è un’idea dietro, più che un concetto, che svela una panoramica che era giusto ricreare, poiché spesso esistono più progetti di una singola opera», spiega Giacomo Guidi in una nostra conversazione. Andiamo a indagare, in questa intervista a Mochetti, le fondamenta di tale mostra e la sua produzione, testimonianza di una realtà moltiplicabile non solo artistica.
30 PROGETTI 2 REALIZZAZIONI alla Contemporary Cluster esemplifica uno dei concetti complessi alla base della tua produzione: il “perfettibile”. Cosa significa e come è ricollegabile a questa esposizione?
«Il mio lavoro è “perfettibile”, ossia si migliora nel tempo. Un artista crea nel momento in cui possiede un’idea e, per me, l’ideazione è importante tanto quanto la realizzazione. Quindi i miei lavori, come l’architettura, servono per costruire qualcosa. Conferisco forma a progetti (ne ho realizzati 320 in tutto), che conservo, per edificarli poi in un secondo momento. Il collezionista, dunque, potrebbe acquisire cinque pezzi miei che appartengono, come nel caso dei progetti in mostra, ad un’evoluzione della medesima idea».
Nei tuoi progetti si parte dalla rappresentazione di oggetti solidi e statici, approdando a forme fluide e trasparenti, capaci d’indagare una dimensione più profonda della realtà, dove l’apparenza cede il passo a un’essenza vibrante, di atomi, contenuti in noi e in ciò che ci circonda. In che modo è raggiungibile?
«Non mi interessa l’azione di modifica in sé per sé, mi interessa un’opera capace di evolversi continuamente, avvicinandosi sempre di più all’idea, attraverso l’uso delle nuove tecnologie. Questo può avvenire solo con la sintesi. Il mio compito, dunque, è di levare il superfluo, sottraendo quello che non potevo prima, rimanendo al passo coi tempi. Ogni decennio, dunque, potrei mettere mano ad una mia creazione, avvicinandomi sempre di più alla sua origine. Sono sempre stato affascinato dalla meccanica quantistica e, per questo, attraverso un gruppo di fisici e chimici che mi aggiornano, tento d’inserirla nei miei lavori».
In mostra compaiono, oltre ai progetti, due realizzazioni che prendono la forma di installazioni ambientali degli Anni Sessanta. Di cosa si tratta, precisamente?
«Le sculture luminose, di per sé, sono il risultato di una ricerca che svolgo sulla natura della luce e delle sue interazioni con lo spazio, attraverso i solidi. Le due realizzazioni in mostra sono: una il minimo per fare un cono e l’altra per fare un cilindro. Nella prima, realizzata nel 1966, il cono ha un’altezza, un diametro di base e una punta che è il suo vertice. Esso è un piccolo cono di metallo, come un peso a piombo, dotato di un filo che va sul soffitto. Se io continuo le pareti di questa piccola figura, come in un campo magnetico, arrivo a determinare il cerchio che è la base del cono.
Nella seconda, realizzata nel 1967, il cilindro invece è la madre del lavoro che ho fatto al MAXXI: immagina un tubo che va da una parete all’altra. Invece che restituire un intero tubo, ricreo solo una parte di esso, da cui si irradiano sul muro le proiezioni di continuità, che possono essere luminose oppure nere. Qui vi è il senso della scultura, come continuazione e intersecazione delle pareti stesse, sulle quali viene svelata l’immagine: l’ipotetica proiezione».
Nelle tue opere, in cui si interseca arte e tecnologia, vi è il tentativo di connessione tra le cose. Come se ci fosse una sorta di corrispondenza scientifica, uno stare da A a B. Pensi che questa interazione possa riflettere qualcosa di più ampio?
«Sono interessato alla relazione tra gli oggetti. È tutto così in natura! I pianeti stanno in quel posto e se sposti un pianeta, tutto si muove. C’è un equilibrio, legato alla relatività, che io intendo ricreare. Come posso essere interessato ideologicamente ai razzi e alle frecce, allo stesso modo reputo che l’arte possa essere uno strumento utile per esplorare le questioni più verticali dell’esistenza.
Coi miei lavori tento di superare i limiti della percezione e della rappresentazione tradizionale, giungendo a un dialogo con quell’energia che permea l’universo».