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Parigi esplode di mostre: una ricognizione dalla capitale culturale dell’Europa
Mostre
Questa cronaca è un racconto a volo d’uccello per dare il quadro generale e suggerire di approfondire i temi più suggestivi dell’insieme di manifestazioni espositive in corso a Parigi. È infatti l’insieme di tutte le proposte, più o meno rilevanti, che dà la misura di quanto è in atto e che potrebbe incoraggiare e spingere il lettore a fare il possibile per passare qualche giorno a Parigi entro metà gennaio, prima che molte delle mostre citate chiudano i battenti. Per non perdersi nell’intreccio intenso fra i temi seguiremo una specie di percorso.
Ritrovarsi a Parigi tra novembre e dicembre è stato come tuffarsi in un mare, o meglio in un fiume tumultuoso. C’è in questi mesi una specie d’implosione delle certezze del fine novecento, una prova di resilienza per un deportato nel XXI secolo, e visitare con questo stato d’animo le innumerevoli esposizioni, cui era impossibile rinunciare, ha creato un sovraccarico di stimoli ma allo stesso tempo un conforto.
Grand Palais e Petit Palais
Sotto le volte vetrate del Grand Palais, finalmente riaperto dopo il restauro mirabile per le manifestazioni delle Olimpiadi 2024, risplendeva Fine arts La Biennale, una fiera dell’arte allestita senza risparmio, che aveva una dovizia di offerte degna di un museo di medio livello; il livello dei prezzi delle opere antiche e moderne era invece stratosferico. La presenza dei fiamminghi era sorprendente per quantità a qualità, fra tutti un piccolo mirabile Lucas Cranach il vecchio Cristo oltraggiato del 1520. Ormai il GP ha chiuso i battenti che riapriranno nel campo di pattinaggio sul ghiaccio che già stanno approntando e che, c’è da aspettarsi, creerà per il visitatore uno scenario onirico abbacinante.
Di fronte, il Petit Palais presenta la prima retrospettiva francese su Jusepe de Ribera 1591-1652, la gigantesca monografica Ribera Tenebres et Lumiere (fino al 23.02) dedicata allo Spagnoletto, il nome con il quale si sancì la cooptazione dell’artista valenciano al mondo napoletano della pittura. In essa si evidenziano le ragioni del suo essere stato il trionfatore del dopo Caravaggio a Napoli e in Italia, venendo rappresentato in tutte le sue sfaccettature. Una mostra che scaturisce da un impegno imponente di raccolta di opere di qualità, finalizzate alla descrizione filologica ma anche didascalica ed esplicativa della personalità matura ed evolutiva della sua pittura.
Un centinaio di opere: i dipinti provengono dall’Italia tra cui Museo di Capodimonte di Napoli, le gallerie Corsini e Borghese di Roma ma anche da tutto il mondo, tra cui il Wadsworth Atheneum di Hartford CT, il Museo del Prado e la Collezione Abello di Madrid. Da segnalare che grazie ai prestiti è stato possibile confrontare tre diverse immagini del Cristo deposto riunite per la prima volta: la Lamentazioni sul corpo di Cristo della National Gallery di Londra e quella del Museo Nacional Thyssen-Bornemisza e La deposizione del Museo del Louvre e mettere così a fuoco la sua capacità di introdurre nella rappresentazione dello stesso soggetto i diversi gradi e stati di sofferenza che vengono vissuti dai differenti personaggi raffigurati in ciascuna scena. Una raccolta di disegni e stampe con gli eccezionali prestiti del Metropolitan Museum of Art, del British Museum della Collection Colomer e del Fondo Dutuit del Petit Palais, completa il quadro della produzione dell’artista.
All’uscita della mostra, solo se dotati di spirito indomito, si può proseguire, saltando di tre secoli, nei paesaggi scandinavi innevati visitando la monografica dedicata al pittore svedese Bruno Liljefors (1860-1939) La Suede sauvage (fino al 16.02) forte degli ingenti prestiti del partner Nationalmuseum of Stockholm, della Thiel Gallery e del Gothenburg Museum. Con questa mostra il Petit Palais completa il ciclo sui pittori svedesi, della triade denominata con l’acronimo ABC , dai loro nomi di battesimo, Carl Larsson presentato nel 2014 e Anders Zorn nel 2017, con un’originale proposta naturalistica, iconograficamente lontana dall’esperienza dei due amici e sodali come pure si può misurare da qualche loro opera esposta nella mostra.
Il corpus dei lavori presentati è ascrivibile all’esperienza del viaggio nelle città tedesche e italiane nel 1883, ai contatti con la colonia di artisti scandinavi a Grez-sur-Loing e all’influsso delle scoperte darwiniane che permearono la cultura europea nel diciannovesimo secolo. Nell’universo di Liljefors, animali, piante, insetti e uccelli compongono un insieme complesso, ognuno parte integrante e con un proprio ruolo in paesaggi incontaminati come in un prezioso documentario naturalistico. Il tutto appare come una premonizione della questione contemporanea della conservazione della biodiversità.
I due poli della modernità: Jeu de paume e Orangerie
A Place de la Concorde – tra i fuochi simbolici del potere, la templare Madeleine a nord e l’Assemblee Nationale a sud oltre Senna, che risplendendo di ripulitura olimpica anticipano i bagliori che ai primi di dicembre accenderanno la vita politica – si affacciano dal bastione delle Tuileries i due poli culturali che riportano alla modernità novecentesca.
Nello Jeu de paume, le prime due mostre al femminile della cospicua serie proposta nella programmazione del dopo olimpiadi. La mostra sulla fotografa americana Tina Barney in Family Ties (fino al 19.01) copre oltre quarant’anni di carriera dell’artista nata nel 1945; questa prima retrospettiva europea ritrae pezzi di famiglia in interni sofisticati, attentamente messi in scena dall’artista, con l’obiettivo di rinviare agli schemi spaziali della pittura classica. A partire dalle fotografie di parenti e amici alla fine degli anni ’70, comprese alcune mai viste prima in Europa, con il suo implacabile obiettivo si concentra sulle abitudini culturali all’interno di contesti domestici, nei quali affondano i suoi ritratti colorati di grandi dimensioni, solo apparentemente casuali istantanee di famiglia. E queste stesse complessità e ironia traspaiono nei ritratti esposti di celebrità e top model per le riviste di moda e i marchi di lusso.
Al livello superiore un laboratorio di ricerca fotografica e video di Chantal Akerman (1949-2015) Traveling (fino al 19.01) cerca di ricostruire l’anomala esperienza di questa figura mitica per generazioni di artisti e cinefili e il cui film Jeanne Dielman, 23 quai du commerce, 1080 – Bruxelles definito «miglior film di tutti i tempi» dalla rivista britannica Sight&Sound, in correlazione alla mostra viene trasmesso in rete sul canale televisivo Arte. La mostra al Jeu de Paume concertata con il Palais des Beaux-Arts de Bruxelles, la Fondation Chantal Akerman e Cinematek propone un dialogo tra i suoi film, le sue installazioni e una bio-filmografia contenente archivi inediti. Seguendo le tappe della sua carriera, è come viaggiare attraverso gli anni e i luoghi che ha percorso e filmato, dai suoi esordi a Bruxelles, al Messico passando per Parigi e New York. Lo spazio più suggestivo è dedicato a D’est au bord de la fiction del 1995, un’installazione di 24 monitor che seguono un viaggio dalla Germania fino in Russia nei paesi della Europa post sovietica.
Nel Musée de l’Orangerie, l’altra sentinella sul giardino, è visitabile la mostra Heinz Berggruen Un Marchand et sa collection (fino al 27.02) con un centinaio di opere del Museum Berggruen di Berlino – chiuso fino al 2025 per lavori di ristrutturazione – che ritornano dove erano state raccolte. La chiusura del museo è stata l’occasione per la collezione berlinese di viaggiare e farsi conoscere in Europa nell’ambito di una serie di mostre organizzate da diversi musei, tra cui anche a Venezia nel marzo scorso con la mostra Affinità elettive delle Gallerie dell’Accademia e la Casa dei Tre Oci.
Come di consueto lo scopo della presentazione di una collezione privata è quello di ricostruire il percorso e lo spirito che ha guidato il collezionista nella scelta delle opere collegandolo allo spirito del tempo. Heinz Berggruen (1914 – 2007) nacque a Berlino da famiglia ebrea tedesca e, sopravvissuto alla persecuzione nazista prima in Germania e poi in Francia dove si era rifugiato, si trasferì negli USA. Dopo la guerra, tornò prima nel suo paese natale come giornalista, poi a Parigi per lavorare nella sede dell’UNESCO. Animato da una forte passione per l’arte aprì una prima galleria a place Dauphine, anche “per poter comprare le opere che desiderava” come dichiarò, per stabilirsi poi definitivamente in un grande spazio in rue de l’Université.
La sua raccolta non è quella dei galleristi, mecenati, scopritori di talenti dell’epoca degli impressionisti o delle avanguardie del novecento. Tendenzialmente si muove sul sicuro, fra talenti già riconosciuti ma ancora bisognosi di supporto: in quei difficili momenti del dopoguerra li sostiene e ne diffonde la conoscenza. E così si muove nel mercato dell’arte e stabilisce rapidamente contatti con il mondo culturale parigino ed incontra sia gli artisti da esporre che poeti, mercanti, storici, critici e collezionisti dell’epoca. E Berggruen diventa il «miglior cliente» della propria galleria, appoggiandosi a queste relazioni investe anche nella produzione dei cataloghi delle mostre che organizza e di pubblicazioni d’arte. Nella sua collezione costituì uno dei corpi più cospicui di opere di Paul Klee, fra le quali Landschaft in Blau del 1917 e Perspective fantomatique del 1920, la prima opera da lui acquistata che si porterà come un talismano, fino a inserirla nell’ingente partita di opere che donò al Metropolitan. Un’altra porzione consistente la offrì proprio alla Fondazione Paul Klee.
Raccolse inoltre nell’ambito della sterminata produzione di Picasso, che frequentò intensamente, una scelta di lavori che rappresenta quasi integralmente le molteplici fasi del suo geniale percorso artistico. Oltre questi due autori, cardine della sua collezione, nel centinaio di capolavori esposti figurano Matisse, Giacometti, Kurt Schwitters, Karel Appel, Pierre Soulages, Miró e artisti meno rinomati all’epoca che rivelano il ruolo e il valore di Berggruen quale attore importante del mercato dell’arte parigino della seconda metà del XX secolo. L’intera collezione residua fu donata allo stato tedesco nel 2000, pochi anni prima della morte del collezionista.
La linea femminista dell’Orsay
Il Musée d’Orsay sembra avere optato per una linea femminista e queer nelle tre mostre monografiche proposte. Gustave Caillebotte Peindre les hommes (fino al 19.01), già ammiccante nel titolo, offre una panoramica sulla sua produzione di grande ampiezza. Ne viene, direi finalmente, mostrata la personalità sia dell’artista che del cittadino. Il suo sguardo sulla città che si allarga e si modernizza, è attento a nuovi spazi e grandi strade, piazze, inondando con la luce naturale le nuove architetture. Ma anche le tecniche – le immagini delle varie versioni esposte di Le pont de l’Europe arrivano alla minuzia del bullone – e l’umanità.
Quel “peindre les hommes” definisce la sua preferenza a dipingere uomini: in un contesto iconografico prevalente di ballerine d’ogni tipo, donne eleganti e sciantose, nudi femminili arditi o segreti, Caillebotte si inserisce con un’antologia di maschi, intellettuali pensosi e sportivi in azione, un amico che sogna a occhi aperti sul balcone, uno sconosciuto che si lava, uomini nella banalità della loro esistenza qualche nudo e operai all’ opera come i celebri parchettisti chini al lavoro, sudati su pavimenti in legno nelle diverse fasi di lavorazione, con il lucido delle vernici che riflette il sudore della loro fatica. Di particolare rilievo la possibilità di ammirare Part of a Boat, recentemente acquisito dall’ Orsay, Rue de Paris, temps de pluie (1877) prestato dall’Art Institute di Chicago e Jeune homme à sa fenetre dal Getty Museum.
Una testimonianza particolare della vita quotidiana nella Parigi del XIX secolo e già una messa in discussione del posto del maschile, in un secolo in cui tutto si capovolge (trasporti, comunicazioni, città, ecc.). Per esplicitare il senso della mostra, il 5 dicembre è stato proposto un ardito aggancio con il contemporaneo con una serata immersiva, – sotto la grande navata – in collaborazione con il fior fiore della trasgressione d’oltralpe le Curieuses Nocturnesdi Rosa Bonheur, il fumettista Félix Auvard, i drag king, Kings Factory, il musicista Lescop.
L’Orsay offre altre due mostre, che proseguendo nel percorso di ricerca di figure femminili finora tenute in disparte e da rivalutare, arricchiscono l’offerta di voci di rilievo, nuove e originali. Sulla pittrice norvegese Harriet Backer 1845-1932 la mostra La musica dei colori (fino al 12.01) è imbastita sull’ardito accostamento pittura musica riempiendo in particolare una grande sala con figure e scene domestiche che ritraggono musicisti e strumenti musicali, con una colonna sonora di musiche primo novecento. Questa prima retrospettiva in Francia, di un’artista considerata in patria, insieme ad Edvard Munch, una delle figure più notevoli del panorama artistico, mette in luce la sua capacità nell’uso di colori ricchi e luminosi, sia per le scene d’interni che nei paesaggi en plein-air. Come la maggior parte degli artisti scandinavi ebbe dei legami privilegiati con l’avanguardia parigina i cui frutti si leggono nella sua produzione. La mostra é stata promossa dal Museo Nazionale di Oslo e dal Museo d’Arte Kode Bergen, e organizzata con il Nationalmuseum di Stoccolma.
La mostra Fotographe (fino al 19.01) è la prima dedicata a Céline Laguarde 1873-1961 una fotografa francese attiva prima della Grande Guerra. Questa mostra scaturisce dalla riscoperta del fondo personale dell’artista nelle collezioni del Museo d’Orsay. Ritratti, studi di figure e paesaggi chiariscono i motivi della sua fama di virtuosa della fotografa nel campo dei processi di pigmentazione, considerati ancora oggi tra le tecniche di stampa più complesse e sofisticate. Attraverso più di centotrenta stampe originali dell’artista, talvolta affiancate a fotografie di uomini e donne a lei contemporanei, la mostra ripercorre l’evoluzione e la continuità, le influenze e i dialoghi, ma anche l’originalità e le peculiarità che ne contraddistinguono l’opera.
Musée Maillol e Musée du Luxembourg
Lo stesso intento e la stessa precisione documentaria animano la mostra Nadia Léger. Une femme d’avant-garde (fino al 23.03) nel vicino Musée Maillol. Vengono presentate più di 150 opere di questa figura emblematica del novecento. La retrospettiva su Nadia Khodossievitch-Léger 1904-1982 ripercorre il viaggio in gran parte sconosciuto di questa donna eccezionale, allo stesso tempo pittrice prolifica, redattrice di riviste, collaboratrice di Fernand Léger, combattente della resistenza, costruttrice di musei e fervente attivista comunista. La mostra percorre tutte le tappe della sua lunga esistenza dalle sue origini in Bielorussia nei pressi di Vitebsk avvenuta poco prima che Chagall ne partisse per Pietroburgo. Anche lei lasciò presto la Russia, prima per Varsavia e poi per Parigi affiancandosi alle diverse comunità artistiche e ai grandi nomi che incrociava nel suo percorso: Fernand Léger che a un certo punto da mentore divenne suo marito, Pablo Picasso, gli studenti dell’Atelier Léger (Nicolas de Staël, Hans Hartung, Marcelle Cahn e tanti altri) con i quali visse le tante avventure sperimentali del Novecento e portò avanti l’evoluzione della sua creatività in costante tensione tra astrazione e figurazione fra mondo capitalista e fedeltà ideologica al comunismo.
Dal Cubismo al Suprematismo, dal Suprematismo al Realismo, la sua produzione composta di pittura, grafica, montaggi, manifesti, progetti di architettura o allestimenti rivela la sua capacità di adattamento. Questo compendio rende giustizia a una donna di grande spessore civile e politico e artista restata nell’ombra per due ragioni: essere un’accesa stalinista fino all’ultimo e moglie di un artista famoso di cui portava il cognome.
In questa volontà dirompente di sbriciolare schemi e modelli stereotipi si inquadrano altre due proposte molto ricche, imperdibili, che richiederebbero un successivo approfondimento specifico. Al Musée du Luxembourg la mostra Peindre le Brésil moderne (fino al 2.02) su Tarsila do Amaral 1886 1973 una pittrice brasiliana, nata a Capivari nello stato di São Paulo, che nella sua longevità ha percorso tutte le temperie della prima metà del novecento e nella sua esperienza ha sperimentato molte tecniche, misurandosi con grandi personalità e con le correnti pittoriche più significative del novecento, connotando le sue opere con segni legati alle tradizione iconica sudamericana.
Fondation Cartier e Fondation Louis Vuitton
Alla Fondation Cartier la mostra Olga de Amaral (fino al 16.03) (ebbene si, per caso lo stesso cognome che deriva dalla parola “amara”, che in spagnolo e in portoghese denomina un frutto) su un’artista colombiana nata nel 1932 a Bogotà la cui specificità è la fiber art. Le differenti fibre tessili naturali e sintetiche, la tessitura su telai speciali, gli intrecci fra materiali differenti e l’uso dei colori sono il territorio della sua ricerca e delle sue rappresentazioni. Le sale della Fondazione ospitano grandi pannelli che raccontano la sua inesauribile capacità di sperimentazione di forme spaziali, installazioni, variazioni luminescenti e commutazione dei colori.
La Fondation Louis Vuitton nella mostra Pop Forever, Tom Wesselmann & (fino al 24.02) presenta una fantasmagorica selezione di opere di Tom Wesselmann 1931-2004: 150 dipinti e opere realizzate con materiali diversi, opere in gran parte poco note perché provenienti da collezioni private. La mostra include inoltre 70 opere di 35 artisti famosi, che sarebbe troppo lungo citare, di diverse generazioni e nazionalità uniti da una comune sensibilità per il “pop” dalle sue radici dadaiste alle manifestazioni contemporanee, dagli anni ’20 ai giorni nostri.
Wesselmann iniziò a dipingere alla fine degli anni ’50. Sperimentò, per poi abbandonare l’approccio dei pittori astratti americani, e poi svoltando verso il figurativo penetrò nel vocabolario iconografico contemporaneo, appropriandosi nelle sue opere dei segni della pubblicità. Tanto da inserire nelle sue opere a metà strada tra pittura e scultura, anche elementi multimediali (luce, movimento, suono, video).
Nonostante le opere esposte negli spazi della fondazione compongano installazioni più che mai spettacolari all’ingresso non c’era da sottoporsi alla consueta fila interminabile e la vista delle opere non era impedita dalle folle assiepate, come se il richiamo alla pop art che viene documentata nelle sue tante articolazioni non fosse stata sufficiente ad accendere l’interesse per un artista americano ingiustamente poco celebrato in Europa.
Arte Povera e Surrealismo, dalla Bourse al Beaubourg
Una visione d’insieme altrettanto complessiva è quella offerta dalla Pinault Collection Bourse de commerce in Arte povera, una raccolta formidabile di opere in un allestimento algido che esalta ogni opera e ciascun autore e facilita la ricostruzione delle ricche relazioni che avevano legato tutti gli artisti in quel mitico gruppo. Con lucida professionalità e dimostrazione di un raro senso di collaborazione e continuità questa esposizione si pone in piena coerenza, a completamento e ulteriore contributo conoscitivo della mostra Renverser ses yeux Autour de l’arte povera 1960-1975: photographie, film, vidéo che lo Jeu de Paume ha allestito nell’ottobre 2022.
Ma, immersi nel ragionare e nelle suggestioni sulla forza e il valore della partecipazione delle donne alla creazione artistica, rattrista misurare come nel nostro recente passato in quel movimento così innovativo ci fosse, chiara e originale, una sola voce femminile, quella di Marisa Merz. Queste due iniziative di fatto propongono il confronto fra fenomeni coevi quali il travolgente pop d’oltreoceano e la dirompente rivolta italiana dell’arte povera. Trovarsi materialmente in quelle due realtà, da un lato è molto stimolante e dall’altro in questa fase storica ci conforta questo riconoscimento internazionale quando con il concetto di italianità si coprono le peggiori arretratezze.
Va ovviamente citata anche la grande operazione al Centre Pompidou, Surrealismo. La mostra del centenario. 1924-2024 (fino al 13.01) e di cui si è già parlato su queste pagine, che si propone come trattazione sistematica del movimento artistico e letterario nella sua complessità.
Da tutto ciò emerge il quadro di una società che continua a fare della gestione della cultura un tassello cruciale della crescita civile e del supporto all’educazione. Il forte impegno finanziario per ottenere questi risultati produce un effetto propulsivo sul coinvolgimento di operatori di vasti e svariati settori sia pubblici che privati che gravitano nella produzione di cultura. Queste scelte consentono di mettere a disposizione di tutti un’offerta mai come in questi mesi così inusitata, di cui è opportuno evidenziare la portata integrando l’elencazione, che comunque non sarà ancora esaustiva dell’offerta e della cui pedanteria mi scuso, per segnalare la complessità dei soggetti responsabili e i tanti temi affrontati e proposti.
Museo di arte orientale Cernuschi e Musée Picasso
L’approfondimento storico arricchisce il senso di una mostra su tre artisti vietnamiti operanti negli anni della fine del colonialismo francese, come Lê Phô, Mai Thu, Vu Cao Dam, al Museo di arte orientale Cernuschi (fino al 9.03); le esperienze dei tre artisti per quanto sconosciuti ai più, anche se di valore non eccelso, per come vengono inserite nella documentazione sulla politica culturale francese verso le colonie di Indocina, fanno luce sia su una vicenda storica delicata e dimenticata che sugli esiti della commistione di linguaggi. Con uno stesso intento quasi di risarcimento si pone Revelation! Contemporary art from Benin (fino al 5.01) la collettiva di originali artisti contemporanei del Benin, negli evocativi sotterranei della Conciergerie.
Di diverso impatto fra loro ma comunque interessanti tre proposte di lettura nell’affiancamento delle opere di due artisti: Jackson Pollock. Les premières années (1934-1947) (fino al 19.02) sull’inizio della formazione artistica di Jackson Pollock (1912-1956) documentata con dovizia di opere poco note viene confrontata con l’esperienza di Picasso nel Musée Picasso. Con un approccio quasi sentimentale vengono proposte poche opere opere relative al periodo di amicizia dei due “infelici” immigrati, Modigliani e Zadkine in Une amitie interrompue (fino al 30.03) al Musée Zadkine e quelle di Giacometti e Morandi in Moments immobiles (fino al 2.03) alla Fondation Giacometti.
Il rinnovato fulgore di Notre Dame
Infine per concludere val la pena accennare all’operazione di restauro di Notre Dame visto il forte significato simbolico, l’immane impegno economico investito e il clamore mediatico. In questi medesimi giorni si è infatti svolta la cerimonia di riapertura della cattedrale alla fine dei lavori di restauro. E lì, come chiunque può aver visto in rete, si è rappresentato una sorta di duplicato dell’incoronazione di Napoleone: preceduto dall’arcivescovo di Parigi monsignor Laurent Ulrich il presidente Macron con la consorte ha fatto il suo ingresso nella basilica riportata in vita, dopo l’incendio che la devastò nel 2019, secondo l’impostazione ideologica del “com’era dov’era”.
Il fulgore ripristinato dei colori con i quali nel suo restauro ottocentesco Viollet le Duc ne aveva rivestito le tetre navate, le vetrate restaurate e le ripulite superfici in pietra dell’esterno riconsegnano alla città il più duraturo testimone materiale dei destini della Francia. Ma poiché la visita fino alla grande inaugurazione alla presenza dei capi di stati del mondo era impossibile e le previsioni di visite guidate su prenotazione fanno presagire tempi lunghi anche per il futuro ci si deve per ora accontentare della mostra Faire parler les pierres. Sculptures médiévales de Notre-Dame (fino al 16.03) al Musée National du Moyen Age -Thermes de Cluny. Una testimonianza per affermare la qualità della conduzione dei lavori, dell’articolazione scientifica e delle ricerche connesse al vasto intervento di recupero con particolare approfondimento sugli elementi lapidei dalla cattedrale.