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Valentina Gelain e Bekim Hasaj: protagonisti in Finlandia con The Shell Cracked
Mostre
di redazione
«Spostare accidentalmente i precari ‘equilibri’ del sé ~ Dinamiche interiori turbolente si scoprono irrimediabilmente ~ La percezione-concetto di noi stessi e degli altri viene alterata ~ Consapevolezza che possiamo incontrare». É questo l’incipit di The Shell Cracked, la mostra che dà il via al ciclo espositivo di cui sono protagonisti Valentina Gelain e Bekim Hasaj, entrambi finalisti nella scorsa edizione di exibart Prize.
La mostra, allestita negli spazi di 3H + K, in Finlandia – dove i due artisti risiedono – presenta il nuovo fil di Gelain, The Peaks, e la più recente serie di sculture Shell di Bekim Hasaj, parte del progetto Scanning Landscape. Diving, immersione, è la prima parola che incontriamo nel film. The Peaks, i picchi. Qualcosa si muove, anzi no, qualcuno si muove. I suoi occhi ci guardano per un instante, prima di fuggire. Un instante che è fatale: ci immergiamo nella profondità del nostro abisso, alla stessa velocità con cui l’occhio corre verso il punto più alto di quel picco, e verso il punto più profondo del complesso roccioso, dove ritroviamo la figura – ora bianca, immobile, prima nera, in movimento, ora di nuovo nera, in movimento, poi di nuovo bianca, immobile.
È Valentina? Si. Potrei essere io? Si. Potresti essere tu? Si. Ci è chiaro nell’attimo in cui le due figure, l’una candida, l’altra oscura, camminando l’una verso l’altra, si incontrano, si siorano, si toccano, e poi scompaiono lasciando che la roccia dissolva su di un volto che volge il suo sguardo su di noi attraverso due occhi le cui pupille sono un mondo: siamo, del resto, «esseri guardati, nello spettacolo del mondo», come ben affermava George Christoph Licthenberg. Il volto, che si fa corpo, di Valentina non è semplicemente un volto o un corpo: si figura piuttosto come un’architettura che noi visitiamo e dentro cui al contempo guardiamo, anche in relazione agli stimoli prodotti dagli altri che, come noi, si muovono all’interno della stessa.
Gelain dunque con The Peaks sviscera la questione del disvelamento del sé e del rapporto dell’umanità utilizzando la propria figura come tramite metaforico per stimolare un’indagine circa il legame tra le istanze psicologiche e ciò che si può ottenere se ci connettiamo attivamente all’inconscio, provando a superare la condizione passiva e illusoria che perpetriamo con il nostro stato cosciente. La sua riflessione in materia di cieca fiducia dietro cui ci nascondiamo quando si tratta di guardarsi e di riconoscersi prosegue, al di fuori del film, nell’installazione interattiva The Shell Cracked-Protruding che invita, letteralmente (Tell me about the Self, show me your Ego), a confrontarsi con ciò che resta in concreto dell’ultima immagine di The Peaks parlando del proprio sé e mostrando il proprio Ego. Un simile sguardo, viene da pensare, ci voleva, per gettare nuova luce sulla sua figura, per mettere a nudo l’uomo e insieme l’artista.
Uno sguardo tutt’altro che neutrale e oggettivo, anzi profondamente partecipe e soggettivo, ma proprio per questo tanto più acuto e penetrante, che come si muoveva di fronte a The Peaks, così potrà fare (anche) in prossimità di Shells, che Bekim Hasaj ha realizzato – nell’ambito del più ampio progetto Scanning Landscape – modellando, martellando, il metallo sopra un corpo naturale, il corpo roccioso. L’installazione scultorea sopravvive a un gesto, è ciò che resta di un’azione, che viene esposto in chiave sineddochica come parte di un tutto. Non c’è dubbio che Hasaj, come del resto Gelain, riescano a rivestire la loro stessa persona di arte, e l’arte della loro persona, che significa molto di più della mai sopita idea di unità tra l’arte e l’esistenza – intesa come mescolanza di verità e verosimile.
Sulla superficie dei lavori che Gelain e Hasaj hanno congiuntamente creato, il sé ha l’occasione di esporsi davvero alla luce, come sulla pelle che il poeta Paul Valéry diceva non esserci niente di più profondo. Non si tratta di una riproduzione di qualcosa di riconoscibile e nemmeno della manifestazione, si tratta di portare alla luce gli stati interiori del sé e di esporli al rapporto con sé e con noi, come a voler togliere un velo e scoprire un mezzo smaterializzato e sicuramente più intelligibile per creare un abc del vedere, dell’esperire, dell’agire e con questo, inevitabilmente, dell’essere umano. È in tal senso che la mostra è destinata a evolvere, atto dopo atto, come se ognuno di fatto costituisse un passaggio necessario per scoprire le dinamiche interiori e le possibili alterazioni della percezione, nostra e degli altri, fino a prendere coscienza che i precari equilibri del sé possono incontrarsi.
Come il metallo e un corpo roccioso, come la pelle e l’inconscio. Come The Shell Cracked, un altro (dopo Dripping Cavities, ne avevamo parlato qui) dispositivo di derivazione pollockiana, aperto da ogni lato e sempre sempre rivolto verso sé stesso e verso lo spettatore, affinché tutti, indistintamente, possano attraversare quel guscio.