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visualia_interviste Francisco Ruiz de Infante
visualia
Video e installazioni come micromondi. Parabole di una “realtà” che si presenta incontrollabile, complessa, sfaccetata. L’artista? E’ Francisco Ruiz de Infante. Con lui abbiamo parlato delle sue “prospettive”, di politica ‘audiovisiva’ e del suo rapporto con l’infanzia...
Lei prepara lo screenplay e i testi, gira le immagini e realizza la musica. Insomma, cerca di avere il massimo controllo su un prodotto che vuole dimostrare l’impossibilità di controllare la realtà…
Il mio metodo consiste nello stabilire relazioni tra le cose. Banale, se vogliamo. Cerco ispirazione dalla mia visione della realtà, dai rapporti che posso scorgere, per cercare un’interpretazione. I rapporti tra le cose spesso non sono né semplici né evidenti: così è la maniera di pensare dell’essere umano. Nel lavoro dell’artista si dice spesso che le cose devono essere semplici o efficaci, ma penso che sia un falso problema, perché l’essere umano ha mille idee alla volta, pensa una cosa e subito dopo ne comprende un’altra. C’è una moltitudine di cammini possibili in un unico contesto.
Infatti i suoi video sono caratterizzati da una narrazione non lineare: non c’è una differenza precisa di tempo, le parole, le immagini e la musica non sono allineati…
Il cervello percepisce così la realtà. Non si può separare le memorie del passato, la percezione del presente e i desideri proiettati nel futuro. In tutte le realtà che vediamo ci sono delle cose che riconosciamo perché le abbiamo già viste e possiamo immaginare la loro evoluzione nel futuro. Tutto si mescola.
Uno dei suoi temi è l’infanzia: non i bambini, ma lo stato mentale in cui il mondo viene visto come qualcosa privo di ordine, dove le cose hanno un potere particolare…
Sì, piuttosto che l’infanzia, direi la percezione che la caratterizza: si può chiamare animismo, o assenza della comprensione della relazione tra verità e finzione. Osservo molta gente considerata “malata d’infanzia”: non sono nostalgici, ma amano molto stabilire delle connessioni tra l’immaginario e la realtà. E questa è una malattia infantile, molto pericolosa quando si è adulti.
Lei crea un ambiente che produce reazioni intense e che porta il pubblico a fare un viaggio non solo mentale, un percorso. Da dove parte per creare questo mondo?
Quello che m’interessa è la maniera di percepire dello spettatore, che ancora una volta è un po’ come nella vita: non si può analizzare la situazione se non dopo che è stata prodotta. La si analizza successivamente a quelli che io chiamo i microerrori storici. Ci si ricorda, ma non si conosce… tanto più che le installazioni sono effimere, dunque non si può rivedere la cosa per verificare, possiamo solo vedere dei documenti, delle foto. E’ una microvisione del mondo, della storia del mondo. Le mie installazioni sono piene di percorsi, quasi dei rituali iniziatici per gli spettatori, che si inoltrano per un cammino, che devono fare qualcosa per avere accesso all’opera, spesso piena di ostacoli.
Qual è il ruolo dello spettatore?
Cerco di vedere dove si può arrivare con la “messa nello spazio” dello spettatore: portarlo da qualche parte, materialmente. Per me è, ancora una volta, una grande metafora del mondo. E quando parlo della libertà di scelta, in realtà parlo di una scelta limitata: puoi scegliere di andare a destra o sinistra, ma non dappertutto. E’ come la nostra società: la democrazia stessa è una sorta di libertà di scelta ridotta. E’ una libertà strana, inquietante…
A proposito di società, nell’installazione Black Sky, trattava il tema della guerra e del terrorismo, e sembrava che lasciasse una questione aperta: la paura viene fomentata dai governi. Qui ci si trova ancora di fronte ad adulti che credono a delle storie…
Sì, sono adulti malati di una malattia pericolosissima, a volte mortale: sono malati d’infanzia!
Ma può essere che si ammali tutta una nazione?
Certo! Non solo una nazione: tutto il mondo è malato! Non solo gli Stati Uniti, ma anche l’Italia, la Francia, la Spagna… Quando a un bambino si dice di non avere paura, è rassicurante, ma allo stesso tempo vuol dire che c’è qualcosa di cui avere paura… Se non ci fosse pericolo, non si direbbe di non avere paura! Allo stesso modo nella società contemporanea, in cui la paura ha preso piede.
Lei ha parlato del video come un’arma: qualcosa che è nato come supporto bellico e che si è sviluppato come un potente mezzo sociale…
Penso che i mezzi audiovisivi non siano né onesti né reali e che siano veramente un’arma molto potente, soprattutto per quelli che li controllano. Gli artisti che utilizzano il video però non lavorano in questo senso. Il video è lo strumento con cui si può sperimentare in diverse maniere. Però appartiene alla famiglia dei media audiovisivi, e in quella famiglia c’è un grande fratello che è la televisione. E se mio fratello è così, io non sono affatto tranquillo!
a cura di monica ponzini
bio. Francisco Ruiz de Infante nasce a Vitoria-Gasteiz (Paesi Baschi) nel 1966 e studia pittura e arti visive all’Università di Bilbao. Nel 1991 si trasferisce in Francia, dove frequenta l’Ecole des Beaux Arts a Parigi e, successivamente, inizia la carriera accademica presso l’ESAD di Strasburgo. Ha realizzato installazioni, video e film, presentati nei musei di tutto il mondo, dal Museo di Arte contemporanea di Madrid al Palais Beaux-Arts di Parigi, dal MoMA di New York al museo dell’Immagine di San Paolo.
[exibart]