02 giugno 2006

Il retropensiero dell’arte contemporanea

 
di stefano castelli

Un piccolo saggio che potrà sembrare reazionario. Perché pone dubbi, e anche pesanti, sulla consistenza di molti artisti contemporanei. Lo spunto? Le mostre milanesi di Marina Abramovic e Tom Sachs. E allora interroghiamoci su alcune tendenze dell’arte attuale. Che galleggia su un retropensiero...

di

Il punto fondamentale è questo: non è affatto vero che “l’arte contemporanea non trasmette emozioni”; il problema è che tali emozioni si accompagnano sempre ad un retropensiero. Lo sviluppo del retropensiero (non sempre originale) dilaziona di qualche secondo l’arrivo allo spettatore delle emozioni.
Talvolta si tratta di collegare ciò che si vede ad un significato (useremo il termine messaggio se esso non fosse stato ripudiato dalla quasi totalità degli artisti contemporanei). Talvolta invece l’opera assume senso solo se ricondotta dallo spettatore alle opere viste precedentemente e, ci si augura, al discorso svolto sopra di esse.
Tale dinamica risulta certo macchinosa, ma probabilmente si tratta solo di un modo peculiare e prettamente postmoderno di relazionarsi con quell’oggetto sui generis che è l’opera d’arte (sui generis in quanto in bilico fra il diventare oggetto pop e resistere come elemento di una cultura alta che peraltro ormai non esiste più).
Diversi sono alcuni casi contingenti, in cui il carattere mediato delle emozioni in arte produce decadimenti di senso. Il caso principe è l’arte giovane italiana, quella, per intenderci, prodotta da artisti dai venti ai trentacinque anni. Escludendo il plotone pur consistente dei pittori, ci si trova di fronte ad un proliferare di artisti che ammucchiano, preferibilmente a terra, materiali inerti e disconnessi, dal lembo di panno grigio al pezzo di ferro deformato, dall’oggettino di recupero –che non è più né objet trouvé né riporto oggettivo popista- alla foto della finestra della casa dell’artista.
Tutto ciò rientra (di straforo, come si vedrà) in una tradizione strisciante dell’arte italiana, la tradizione del grigiore. Con ciò intendiamo un abituale uso di modalità espressive sommesse, richiuse su loro stesse, piccole, particulari e talvolta addirittura sciatte.
Una periferia di Mario Sironi
In pittura ciò si è tradotto in colori grigi, ocra, marroncini; nel cinema in film provincialisti, autocommiseratori, persino nelle ultracommerciali espressioni di Muccino &co e nelle ultrabanali realizzazioni di Moretti &co. Anche in letteratura il fenomeno del grigiore italiano è riconoscibile, spezzato solo dai vituperati Cannibali, da alcune espressioni di spaghetti-cyber, da Wu Ming e derivati, nonché da un recente gruppo di scrittori che ha in Giuseppe Genna il suo esponente maggiormente innovatore.
Eppure: quante e quali stagioni felici, anche nella tonalità del grigio; quali eccezionali espressioni in pittura, da Sironi a certi astrattisti e certi informali, fino ai benemeriti rivoluzionari del poverismo.
Quanti film d’autore splendidamente sommessi e grigi di un grigiore viscontiano (nel senso di Luchino); quanti romanzi fatti di ocra e grigi straordinariamente corposi e affascinanti, come nel caso di Sciascia.
I giovani artisti italiani di cui sopra, quelli degli stracci e dei pezzi di esistenza insignificanti, danno invece vita ad un retropensiero che sembra sterile. In ultimo, tale retropensiero trova un significato solo mnemonicistico e aneddotico: ci si ricorda che l’artista aveva esposto qualcosa di simile anche in precedenza, si impara a riconoscere l’artista nell’ambito di un processo in cui il corpus parla a sé stesso, ossia si parla addosso.
Una scena de L
Anche due grandi mostre (entrambe a Milano) come quella di Marina Abramovic all’Hangar Bicocca e quella di Tom Sachs alla Fondazione Prada lasciano lo spettatore dubbioso davanti alle opere: il problema è esattamente lo scarto temporale e di senso fra la visione dell’opera e l’azione del retropensiero che collega l’opera a qualcosa di più esteso.
Nel caso di Balkan Epic di Abramovic, gli intralci al passaggio dalla visione al ragionamento e quindi all’emozione mediata (al senso) sono costituiti dal fatto di dover leggere i pannelli esplicativi per cogliere la simbologia etnografica messa in atto dall’artista; e soprattutto dal fatto che tale simbologia proL duce una quantità non significativa di evocatività irrazionale, per la quale non servirebbe alcuna spiegazione. Le “stanze” che racchiudono le videoinstallazioni rimangono simulate da pannelli e non diventano stanze della mente del visitatore; gli oggetti topici della mostra –in primis i falli eretti dell’ultima installazione- non svettano sulla veduta d’insieme della mostra, e dunque non si affrancano dall’aneddoticità.
Anche nella mostra di Sachs accade qualcosa di simile. Si prenda ad esempio la gigantesca balena che ci si trova di fronte: essa non assurge allo status di totem, rimane un oggetto fra tanti all’interno della sala espositiva. Vista la sua imponenza materiale, questo effetto è un possibile indicatore di una mancanza di senso.
Entrambe le mostre, in buona sostanza, proponendo un discorso altamente elaborato ricadono paradossalmente nella didascalicità, seppur in diversa misura.
Non si tratta dunque di rifiutare le emozioni mediate che regala l’arte contemporanea; anzi tale mediazione diventa un collegamento verso orizzonti forse più ampi. La questione è invece stabilire quale sia il tempo esatto che deve trascorrere affinché il retropensiero innescato dall’opera in sé stessa produca effetto. In sostanza cogliere l’attimo postmoderno. Per fortuna quest’ultimo compito spetta, tuttora e per sempre, all’artista.

stefano castelli

[exibart]

8 Commenti

  1. com’è bello sparare nel mucchio. non salvare nessuno: fa sentire incredibilmente forti. riesce a sedare quel senso di inadeguatezza che si prova davanti a ciò che non si capisce: ti giudico, e infine, pur non capendoti, ti controllo. cosa sia la moretti&co per esempio, non è dato di sapere: visto che moretti le &co le ha sempre oculatamente evitate. ma si deve mostrare se stessi e la propria brillante intelligenza, non cercare di farsi capire attenendosi a qualche fatto, a qualche riscontro che il lettore possa condividere con chi scrive.
    vedi: non ho nulla in contrario verso la critica del contemporaneo, anzi ben venga. ma è totalmente inutile e infeconda quando si esprime per paratattiche affermazioni, senza un minimo di spiegazione. ed è ancor più inutile e infeconda quando non tradisce mai uno sforzo di capire quello che sta accadendo nel mondo della creatività. non ti sfiora il dubbio, ci sono un mucchio di certezze che servono solo a chi scrive, ma paiono desolatamente inutili a chi legge. come quelli che si chiedono davanti alla fontana di duchamps o alla merda d’artista di manzoni: ma questa è arte? implicitamente sostenendo che no, quella non è arte. visto che non la capiscono.

  2. oh como es tan banales y tan pobrecita esta producìon de critica poco contemporanea. Porquè non escibite de marrones, o de melocotones o de tortillas??? porque disturbarme con esta estupidez? Sangre, muerte y danacìon????

  3. Dear Mr. Castelli,
    what do you exactly think Postmodernism is? I’m sorry, but you’re not properly a scavenger, from my point of view.
    Good Night, and Good Luck.

    L.S.

  4. magari puoi fare vedere tu come SI FA arte contemporanea….
    le chiacchiere STANNO A ZERO dicono a roma…

    quanto a Genna lo trovo l’apice del trash

  5. Che bello…..leggere di un idea ..di un opinione frutto di un pensiero e non di una moda dilagante…quella del non pensiero….
    Quanta collera negli “artisti” dei commenti che si sentono tirati in ballo quasi come se il giornalista puntasse il dito contro la loro arte….
    Quando il saggio indica la luna lo stolto guarda il dito…ci vorrebbe meno collera e meno arroganza soprattutto da parte di chi fa arte…!

LASCIA UN COMMENTO

Per favore inserisci il tuo commento!
Per favore inserisci il tuo nome qui