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libri_manuali Arte contemporanea cinese (electa 2006)
Libri ed editoria
Il “manuale” di Electa rivolto a Occidente e curato da Poli (Arte Contemporanea) non vi ha soddisfatto appieno? Vi potete lautamente rifare col volume dedicato alla Cina. Il primo del genere. In Italia e non solo. Questo sì che andrebbe adottato da Accademie e dipartimenti di Storia dell’arte…
Con un approccio storico e al contempo tematico, tre autori ripercorrono la parabola dell’arte cinese, a partire dal Settecento fino alle partecipazioni alla Biennale veneziana del 2005. In queste poche parole –e nelle oltre 200 pagine accuratamente illustrate ed editate– è racchiuso l’auspicato successo di questo volume introduttivo all’arte contemporanea cinese.
Dalu Jones rammenta come l’interscambio fra Cina e Occidente risalga all’VIII secolo, benché assuma proporzioni notevoli nel XVIII. Per chiarire l’evoluzione e le alterne vicende di questo contatto, l’autrice ha scelto di concentrarsi sulla pittura a olio, medium che meglio di altri incarna le bidirezionalità degli apporti. Così, se essa è importata in Cina dai gesuiti, d’altro canto il Settecento è pure il secolo dell’impazzare delle chinoiseries, incarnazione di un Oriente utopico “alla cui diffusione contribuirono gli illuministi, primo tra tutti Voltaire”, ma anche i lavori di un Masson o di un Nicola de Maria, che “non [sono] il risultato di una vera conoscenza e assimilazione dell’arte e della cultura cinese antica e moderna”. Al contempo, il fenomeno si ripropone in Cina, con una visione estetizzata dell’Occidente. Ma è a metà Ottocento che, con l’avvento della fotografia, all’arte cinese si pone la questione dell’identità di contro alle influenze occidentali e giapponesi. E quale miglior modo se non trasferirsi, magari temporaneamente, proprio in Giappone o in Europa, per comprendere appieno lo sviluppo che l’arte ha seguito colà? È il caso di artisti come il sublime Sanyu, mentre non si assiste a un flusso uguale e contrario (bisognerà attendere il 1993, con la visita orientale di Gilbert & George). La spinta a confrontarsi con modelli “occidentali” subisce una battuta d’arresto dopo il 1949, quando la Repubblica Popolare adotta il realismo come stile ufficiale. Ma anche in una simile gabbia stilistica, gli artisti cinesi hanno saputo muoversi e trovare motivi di stimolo, ricorrendo ad esempio a un “esotismo interno”, rinvenuto nella maggior parte dei casi nel “romantico” Tibet.
Si riparte da Mao col saggio di Salviati. Anzi, da quella Nascita della nazione (1953) di Dong Xiwen che, nella sua travagliata storia – la versione attuale è l’ottava! – testimonia delle alterne fasi attraversate dalla Repubblica Popolare. Le sue pagine permettono di sfatare alcuni miti e preconcetti -recentemente rinverditi anche sulle pagine del Sole 24 Ore. Per esempio, con la politica dei “Cento fiori” (1956) il peculiare socialismo cinese non rigettò l’arte tradizionale, bensì tentò di sussumere la secolare storia artistica agendo sulla “duttilità” dei simboli. Situazione che cambiò radicalmente negli anni della Rivoluzione culturale, quando il totalitarismo assunse il suo volto più truce. Con un’ulteriore scansione decennale, il 1976 rappresenta l’inizio di una nuova fase in Cina, con la morte di Mao e la chiusura dell’epoca delle Guardie rosse. Sono sufficienti pochi anni affinché risorga lo sperimentalismo artistico, con intenti più o meno velati di critica antisistemica, in primo luogo col Gruppo Star e, a metà del decennio successivo, col sodalizio della Nuova corrente artistica del 1985. Apertura che subisce una drammatica battuta d’arresto nel 1989, con la famigerata repressione pechinese, ma in realtà è più che altro il proverbiale colpo di coda. Nel 1992 s’inaugura politica di economia statale di mercato con Deng Xiaoping e l’“arte sperimentale” inizia quel corso nel cui letto scorre ancora oggi.
Naturalmente la questione principale che, in un modo o nell’altro, informa tutta l’arte contemporanea cinese è il confronto con una doppia tradizione, quella millenaria e imperiale da un lato, quella maoista e più recente dall’altro. Simbolo della doppia tradizione con la quale devono fare i conti gli artisti contemporanei cinesi è l’arte calligrafica e più in generale il tema della scrittura. In ciò sono stati capostipiti Gu Wenda e Xu Bing -senza dimenticare l’imponente lavoro di copiatura realizzato nel 1992-95 da Qiu Zhijie e il senso d’astrazione alla Kline ispirato dalle opere di Qin Feng-, che nell’atto di reinventare la scrittura e i suoi ideogrammi, hanno parassitato uno dei pilastri più importanti dell’edificio culturale cinese. Ma per ovvie ragioni di comunicazione interculturale, ciò che innanzitutto ha varcato le soglie della Cina verso l’Occidente è stata la vague di rivisitazioni neopop dell’immagine del Grande timoniere (Zhang Hongtu in primis), nonché la “critica alla società dei consumi” che intercetta la doppia tradizione di cui sopra (si pensi all’anfora col logo della Coca-Cola di Ai Weiwei e ai maoisti griffati Chanel di Wang Guangyi). D’altro canto, alcuni artisti si sono fatti latori della reinterpretazione di quei generi classici e tradizionali come la pittura di paesaggio, talora sfruttando le potenzialità della fotografia (magari digitale) come nel caso di Hong Lei; oppure, rammenta Salviati, sfruttando la tradizione “sul campo”, innazitutto la Grande Muraglia, che diviene palcoscenico di spettacolari esplosioni (Cai Guo-Qiang) o è percorsa in solitudine e nudità (Ma Liuming).
L’ultima parte del volume, affidato alla giovane Mariagrazia Costantino, indaga la xin meiti yishu, la “new media art”, con un impianto teorico esplicitamente debitore del critico Zhu Qi, il quale ha fra l’altro sottolineato come i concetti di sperimentazione e avanguardia siano applicabili al contesto cinese solo con una forzatura eurocentrica. Prendendo in considerazione gli artisti -ma anche i fotografi e i cineasti- della Cina -con Hong Kong e Taiwan-, emergono alcuni caratteri che vanno aldilà del mero esame dell’operato di ogni singolo autore, come il gusto per il dettaglio e la tassonomia che caratterizza la videoarte per l’appunto “analitica” (esemplarizzata da 30×30 (1988) di Zhang Peili). Così, nell’ambito fotografico emerge un passaggio piuttosto palese dall’intento documentario a quello concettuale e ritorno, mentre d’altro canto si assite a uno smarcamento dalla mera documentazione di performance e installazioni per giungere all’estremo della “metafotografia” di un Geng Jianyi e Zhang Peili. Altro ambito indagato da Costantino, quello della videoarte, ad esempio l’opera di Cao Fei, il cui sviluppo è stato caratterizzato dal sistema politico monolitico anche nei media, cosicché il punto di partenza è assai diverso da quello occidentale. Il versante tematico indaga invece alcuni topoi che anche in Europa hanno avuto modo di esplicitarsi, come l’“estetica della rovina”, che rammenta certa letteratura tedesca del secondo dopoguerra, oppure l’“estotismo interno” accennato in precedenza, fino a una perspicua Public Art incarnata per esempio dalle iniziative della Long March Foundation.
Il volume vanta un taglio al contempo accademico e divulgativo, ed è corredato da una diffusa bibliografia e da un utilissimo indice dei nomi. E per chi ancora fosse convinto che l’arte cinese è una moda passeggera, ricordiamo insieme a Dalu Jones che il più antico museo britannico, l’Ashmolean di Oxford, ora ha una sezione permanente dedicata all’arte contemporanea cinese. Dando la schiena all’onda, il rischio di annegare aumenta.
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marco enrico giacomelli
Arte contemporanea cinese – a cura di Dalu Jones e Filippo Salviati
Saggi dei curatori e di Mariagrazia Costantino
Electa, Milano 2006
ISBN 88-3703-332-X, pp. 208, € 39, illustrazioni a colori
Info: la scheda dell’editore
[exibart]
PERCHE’ NON SONO STATI RICORDATI I GRANDI ARTISTI CONTEMPORANEI CINESI (ANNI 2000) CHE STANNO SPOPOLANDO NELLE GRANDI ASTE ???
perché in genere si scrive per fornire nuove informazioni ai lettori, non per riproporne di note
infatti, mica dobbiamo fare lo spot a marella…
ieri sera in un programma televisivo dicevano che gli artisti contemporanei cinesi rielaborano le proprie ricerche in base al mercato occidentale (un poco come i ristoranti cinesi in occidente), sinceramente un’idea non me la sono ancora fatta, ma in ogni caso, noi italiani non facciamo opere che possono piacere piú o meno a tutti?
Da tre anni colleziono artisti cinesi, dalla mostra bolognese presso la C.Risparmio.
devo dire che immediatamente ho avuto delle soddisfazioni, riuscendo (a Shanghai o da Marella ) a trovare anche tre pezzi riportati sul catalogo. Da Parigi Bernamu non mi volle dare il quarto….
Ora non si riesce più, i prezzi sino aumentati 4 volte.
Poi mi sono dedicato alla fotografia, ed anche lì ci’ che costava 2.000 $ dopo tre mesi costava $ 8.000 (Xiang Liqing).
Il problema non è che gli italiani possano fare buone cose, ma la potente leva prodotto da un paese immenso che inizia a muoversi.
Con un solo Zhou Tiehai o Zheng Hao da Sotheby’s potrei rifarmi di quanto speso finora.