15 marzo 2007

Mario Salina da GiaMaArt studio a Vitulano

 

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[15|03|2007] |||arte contemporaneapersonale

Mario Salina da GiaMaArt studio a Vitulano
 

SOSTANZIALI APPARENZE

inaugurazione sabato 17 marzo 2007 | ore 18,30 | giamaart studio | vitulano (bn)

In principio era lo spazio. Spazio della vita domestica e spazio del mito; spazio della storia e spazio del sacro; spazio della individuazione e spazio della comunità (e poi urbs, e civitas). Spazio naturale, anche, su cui l’uomo proietta quel “finalismo disinteressato”, secondo la categoria introdotta da Kant nella Critica del giudizio – finalismo senza la rappresentazione di uno scopo – che è l’elemento genetico del “paesaggio”.
Attraverso questi semplici angoli prospettici potremmo osservare l’intera storia dell’uomo, e anzi persino la sua preistoria, che corre sul binario doppio della conquista di un’abilità nel facere (il che però poco lo distingue, nel piano dell’essere, dall’ingegnosità meramente animale: quel che si dice appunto un animale particolarmente evoluto) e la progressiva distillazione di uno spazio proprio, che è autentica creazione del luogo, dell’ ubi consistam (dal cerchio sacro all’ hortus conclusus alla domus) che non può se non seguire l’istante in cui Diogene posa soddisfatto la sua lanterna: ha finalmente trovato l’uomo.

[…] Che c’entra tutto questo con Salina? Non è un discorso – mi si passi lo scherzo apparente – “fuori luogo”? No, non lo è. Il primo motivo è, diciamo così, di superficie. Questi strani pensieri mi giungono infatti, come un’eco lontana, proprio dal titolo di una delle tele con cui Salina affronta questa mostra spinosa, come spinosa è la pittura che scuote dal torpore di una storia “agglutinata all’oggi” (splendida, spinosissima immagine di Eugenio Montale). Ce lo dicevamo con Mario salendo i gradini che portano al suo studio attuale (sembra che Salina abbia la predilezione, per me faticosissima, degli studi messi nei luoghi alti: prima quello milanese che quando ci arrivavo col fiato corto mi sentivo come se entrassi nel nido dell’aquila; adesso questo elevato, anche se più modestamente, sulla pianura lombarda; ho l’impressione che se abitasse un deserto, ci pianterebbe un menhir, per lavorarci sopra aggrappato nello spazio esiguo di uno stilita, e capisco che non è per caso: la sua pittura è un osservatorio che necessita di posizione elevata quel tanto che serve per distinguere, insieme alle trame, il disegno intero del tessuto dentro cui scorre la vita). Dall’ombra, uscivano fuori uno a uno questi quadri neonati, e fra essi, appunto, Spazio plumbeo.
Strano titolo, strano quadro. Strano perché di plumbeo, questa tela, non parrebbe aver nulla; strano spazio, che non sai se stia per trapassare nella figura di primo piano, per eroderla e inghiottirla lentamente dentro di sé, quasi per ineluttabile osmosi, o se al contrario questa non si stia a poco a poco materializzando fuori da quella forma, liberandosi di quel surplus di materia sorda come un prigione michelangiolesco. Non sono particolarmente amante della vita tranquilla, però ammetto che quel quadro mi è parso sfrontato, forse come sfrontato è Narciso con la sua arrogante bellezza: pericolosa per sé, certo, ma soprattutto per l’universo, che deve aver sospirato di sollievo quando il giovane precipitò nella sua liquida tomba. È vero, ha ragione, Salina: plumbeo, ancorché ammantato di cromatica levitas, è questo non-luogo in cui l’apparenza ha usurpato il luogo alla memoria, e dove l’immagine che matura ha il tempo della sua stessa impalpabilità, dove il tutto e il nulla spengono la loro sostanza nell’evento istantaneo, dove “l’eterno presente giganteggia”. Dove Eric e Alex consumano la loro assurda “visione prospettica” della vita, nel celebre film di Gus van Sant (Elephant), alla pari del trio anoressico Britanny-Jordan-Nichole: azioni, amori, pensieri “in nessun luogo”, dunque realmente inconsistenti e in fondo non precisamente misurabili («Mai ho avuto un giorno così brutto e così bello», dice Alex movendosi negli spazi della scuola con la formidabile determinazione di un terminator virtuale), anche se alla fine il prodotto è una strage.

Già: quale spazio? Ecco, questa è stata la miccia. Il resto sgorga da sé, e credo sia giusto lasciare che ciascuno possa godersi in pace la sua contemplazione, e farci i conti a tu per tu. Perché queste tele di Salina sono, ciascuna di esse lo è, centri gravitazionali intorno ai quali si ricostituisce (lentamente, e dolorosamente anche) un’unità che sentiamo perduta (del resto già Pierre Reverdy diceva: «L’uomo non si accontenta di ciò che ha, aspira a ciò di cui è privo. In arte il godimento estetico deriva da questa privazione della realtà di cui l’opera è soltanto un riflesso»). Forse, come si faceva con gli specchi nell’antica Persia, bisognerebbe tenerle coperte da un velo, perché guardate distrattamente non ci rubino l’anima per trascinarla al fondo di questa pittura, dove sommessamente riprendere carne e spazio. Come avviene in Saperi fittizi, dove l’anima di un presente dalle apparenze effimere e giocose si risostanzia nella forma della statuaria sacralità di un’atavica mater.

estratto dal testo di Andrea Beolchi


Mario Salina. Sostanziali Apparenze
Dal 17 marzo al 19 maggio 2007
Orari: dal martedì al sabato ore 17.00 – 20.00 e per appuntamento
Catalogo edizioni GiaMaArt studio
Testo in catalogo di Andrea Beolchi
Direzione Gianfranco Matarazzo
GiaMaArt studio
Via Iadonisi, 14 – 82038 Vitulano (BN)
Tel/Fax: 0824.878665 – 338.9565828
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