24 settembre 2007

fino al 4.XI.2007 Istanbul Bazar Istanbul, Sedi varie

 
Giovane, immensa e veloce. Critica politico-sociale alla pianificazione urbanistica e alla globalizzazione. Grandi idee e fallimenti. Chi va a Istanbul in questi giorni può ritrovarsi in un grande caos di punti interrogativi ed esclamativi che riguardano il destino delle città. E dei loro abitanti…

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Dopo una ventennale e movimentata storia, la Biennale di Istanbul è arrivata alla decima edizione, curata dal cinese Hou Hanru. Una Biennale nota per proporre nuovi luoghi espositivi, unici per la storia e l’architettura ed esemplari dello sviluppo politico, economico e sociale della metropoli. Anche quest’anno, sotto il titolo Not only possible. But also necessary: Optimism in the age of global war, sorprendono i siti “irregolari” e inaspettati, in cui sono dislocati 96 artisti di 35 paesi.
Uno dei luoghi inediti è l’Atatürk Kültür Merkezi (AKM) -un esempio di modernismo in Turchia- su cui si è aperta una discussione sulla demolizione. Il centro culturale si trova al Taksim, la piazza principale della vita urbana, al centro della speculazione immobiliare. Burn it or not riprende nel titolo della mostra tale destino incerto, e più volte i quattordici artisti invitati ritornano sul tema delle scelte urbanistiche e dei loro riflessi sociali.
Tra le contraddizioni legate al titolo, si rivela spesso discutibile la presentazione critica delle opere attraverso didascalie (metodo usato nell’intera Biennale) in cui vengono ripetutamente illustrati intenti e motivazioni politico-sociali che impediscono una visione autonoma del lavoro, limitando e allo stesso tempo insinuando letture forzate in senso politico delle opere (oltre a quelle fin troppo evidenti).
Nina Fischer & Maroan el Sani
Vicino all’entrata, l’installazione Les Illusions Perdues di Didier Fuiza Faustino, figlio di portoghesi emigrati in Francia: “AVRUPA”, è la costruzione della Comunità Europea, traballante e storta, un gran castello di carte costruito di pannelli truciolati. Tra visione e delirio è la scultura surreale e immensa di Lee Bul: la coreana erige la sua utopia negativa su un’impalcatura metallica, una zolla di mondo rovesciato, con strade che girano intorno a sé stesse per finire in nessun luogo. Le riprese suggestive del video di Nina Fischer e Maroan el Sami presentano sale e scaffali svuotati della Bibliothèque Nationale di Parigi, uno scenario post-apocalittico del vuoto immenso lasciato da una memoria distrutta. Vahram Aghasyan fa emergere nelle sue foto una città fantasma: nudi prefabbricati di cemento sbucano dell’acqua come tracce di possibile futuro e contemporaneamente come luoghi abbandonati che sembrano residui del diluvio universale. L’installazione sonora The silent walls di Erdem Helvacioğlu riempie il foyer con rumori, suoni, voci che fanno parte della storia e della vita passata dell’AKM. Rievocano i tempi andati mentre dalla vetrata gigantesca del palazzo si vede il traffico irrequieto e l’andirivieni reale del Taxsim, fondendo l’insieme in un momento sospeso che unisce passato e presente.
Altro esempio di architettura moderna a Istanbul è la seconda tappa espositiva: l’Istanbul Manifaturacilar Çarşisi (IMÇ), un centro tessile degli anni Sessanta che include negozi, laboratori e manifatture. World factory è il titolo sotto il quale si riuniscono gli artisti, di cui tanti -come nel caso dell’AKM- hanno sviluppato qui progetti site-specific. La parola d’ordine è sviluppo economico internazionale e globalizzazione. È un’esperienza labirintica trovare i luoghi espositivi dispersi fra i mille negozi sui 3 piani e i 6 blocchi dell’ICM. L’invasione dei visitatori un po’ disorientati per scale, corridoi e terrazze viene osservata dagli autoctoni con curiosità e divertimento. L’effetto “torre di Babele” si fa evidente quando si chiede a qualcuno come arrivare al blocco 1: qui l’inglese “globale” non funziona e la comunicazione è problematica per chi non parla il turco. Questa esperienza è comunque voluta da parte di una Biennale che continuamente si infiltra in tutta la città e manda il suo pubblico a mescolarsi con luoghi di vita quotidiana cercando il contatto-attrito con le problematiche urbane. Nell’installazione fittissima di opere si rispecchia in effetti il caos del bazar, lo slogan sembra davvero melius abundare quam deficere (come spiegare altrimenti 5 lunghi video proiettati in sequenza sulla stessa parete?). Ma chi cerca trova.
Chen Chieh-Jen
I video di Chen Chieh-Jen colpiscono per l’equilibrio fra la poesia delle immagini e le valenze politiche legate alla lotta degli operai in Taiwan, testimonianza di un mondo trasformato dalla globalizzazione. Accanto il nonsense di Julien Prévieux che rovescia il concetto della domanda di lavoro: come se gli annunci fossero indirizzati direttamente a lui, risponde nelle Non-Motivation letters alle aziende spiegando perché non gli interessano i lavori offerti (stipendi bassi, condizioni miserabili). Più avanti il video di Ömer Ali Kazma guarda a diverse professioni del quotidiano senza nasconderne banalità, ripetizione, fatica, noia o violenza (come nei gesti del macellaio che scuoia l’animale).
L’Antrepo No. 3, un ex-deposito e terza sede espositiva, unisce due mostre: Entre-polis, dove si va a tratti al di là delle tematiche strettamente politico-sociali, che si confondono con le opere di Dreamhouse, un campo da gioco per l’esperienza con l’arte. Il video di Atom Egoyan e Kutluğ Ataman Testimony è una lezione su tempo e memoria: quando l’artista va cercare nel 2006 la sua ex-bambinaia di cui solo dopo l’infanzia scopre la vera identità di armena perseguitata e vuole sondare il suo e anche il proprio passato. Ma è troppo tardi: la donna che incontra è ormai vecchia e confusa e non si ricorda più niente. Inquietanti le sculture composte da lunghi coltelli di Adel Abdessemed e il video di Fikret Atay che racconta come la forza dell’arte possa cambiare la vita: un adolescente improvvisa una batteria di lattine e bidoni dell’immondizia su una spoglia collina della periferia urbana riuscendo a far “risuonare” di rabbia, passione e vita i rifiuti metallici e trasformando per un attimo la città nel suo palcoscenico, prima di fermarsi all’improvviso, e con un calcio distruggere tutto.
Democracia
Un minareto metallico inclinato come un missile terra-aria, di cui si intravede solo la punta dietro il recinto di un cantiere è l’installazione Construction site di Huang Yong Ping. È una copia in alluminio di uno dei quattro minareti della Hagia Sofia che insieme agli otto calligrammi con il nome di Allah e la rimozione della croce, bastarono a trasformare la Hagia Sofia, che fu per 916 anni una chiesa, in una moschea. Il cane del video Unity of all religions del taiwanese Peng Hung-Chih scrive con la lingua-pennello delle massime Zen sulla parete e nell’installazione interattiva di Porntaweesak Rimsakul degli elmetti su 4 ruote fanno una colorata guerra da tavolo. Sparsi per l’Antrepo si trovano i vari This is not a bomb di David Ter-Oganyan che aggiunge a oggetti quotidiani un orologio, cavi e scotch per dar loro l’aspetto (comico e orribile) di bombe (false). Una riflessione sulla (im)possibile armonia fra gli esseri umani è l’installazione We della siriana Buthayna Ali: file ordinate di altalene pendono dal soffitto, ognuna sotto una luce fioca. Dice l’artista “Ognuno sceglie la propria altalena ma è qualcun altro che tira le corde – la spinta più grande deve ancora arrivare – Guerra contro pace- Amore contro odio – Siamo qui e là, vivi – Siamo umani”. Le costruzioni di Justin Bennett intitolate The Well sono una fonte di relax nella giungla espositiva. Strutture geometriche utilizzabili come poltrone, dotate di cuffie invitano a fermarsi per immergersi accompagnati da suoni rarefatti nella vista del Bosforo oltre la grande vetrata.
Si fa sera. Nightcomers, il programma notturno distribuisce in luoghi diversi della città proiezioni video e fa debordare la Biennale su tutto il territorio della città, avvicinandosi a un pubblico che di solito non viene coinvolto da eventi di arte contemporanea. Uno dei pregi di questa Biennale è indubbiamente la massiccia presenza di talenti sconosciuti, e la dislocazione inaspettata delle opere attraverso una città sempre vitale, che obbliga a esplorare e forse anche a perdersi tra le vie del vero e dell’immaginario. Una caccia al tesoro che sembra non finire mai, in una metropoli ancora sospesa tra passato e presente, tra tentazioni europeiste e rigurgiti integralisti, che sembra comunque aver continua voglia di rinnovamento. Istanbul never sleeps…

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*foto in alto: un’opera di Tadej Pogacar presentata alla Biennale di Istanbul


dall’8 settembre al 4 novembre 2007
10th International Istanbul Biennial
Not only possible. But also necessary: Optimism in the age of global war
a cura di Hou Hanru
AKM Atatürk Kültür Merkezi – IMÇ Istanbul Manifaturacilar Çarşisi – Antrepo No. 3 – Santralistanbul – KAHEM Kadiköy Halk Eğitim Merkezi
Orario: da martedì a domenica ore 10-19; chiuso lunedì
Info: tel. +90 212 3340700; www.iksv.org

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