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24
ottobre 2007
fino al 3.XI.2007 Eleonora Chiesa Genova, Rebecca Container Gallery
genova
Tra romaticismo e fetish, minimalismo elettronico ed espressionismo vocale. A Genova è di scena il video della recente performance romana di Eleonora Chiesa. La numero 17. Ed è un paesaggio della mente provocante e provocatorio...
La diciassettesima performance di Eleonora Chiesa (Genova, 1979), che dal 2002 sonda le possibilità espressive dell’interazione tra corpo e ambiente con eventi progettati per estremizzare alcune sensazioni, è stata eseguita nel gennaio 2007 a Roma, negli spazi del Rialtosantambrogio. E ora viene esposta in anteprima video dalla galleria Rebecca Container, durante la popolosa festa organizzata per il locale Start della stagione espositiva delle gallerie private.
Sono circa 18 minuti in cui la performance rosa (dai neon che illuminano gli spazi bianchi) si sviluppa come un burlesque, recita la scritta al neon appesa alla finestra. Ovvero come uno spettacolo parodistico in maschera, sorto nell’Inghilterra vittoriana, esportato negli Stati Uniti e divenuto vaudeville: un insieme di circo, danza e mascheramenti, popolato da quelle che oggi definiremmo pin-up e icone del fetish. Chiesa si veste con tutù di piume, calze a rete e maschera antigas. Al suo fianco, i performer Viktorija Gadraityte e Penelope Please, vestiti in pelle nera e tulle secondo un immaginario romantico e dark. I tre, chiusi nella stanza immersa nel sound elettro-minimal un po’ sinistro del musicista e producer berlinese Dieb (in live set), accolgono cinque visitatori per volta, mentre gli altri osservano da dietro un vetro.
Il copione seguito dai tre è scritto su un canovaccio di Eleonora Chiesa e si nutre d’improvvisazione. L’artista mette in scena un paesaggio mentale dentro cui accogliere il pubblico, che viene destabilizzato, toccato, mascherato e provocato con lunghi sguardi fissi e silenti. L’eros a cui si allude è quasi una sofferenza, una lacerata pantomima in cui resta poco della passione che lo anima. L’aspetto interessante è la reazione spiazzata di alcuni ma anche la sicurezza con la quale altri accettano la sfida verso chi vuole per un momento annullarne le difese. Aleggia una sorta d’infantilismo consapevole, usato per far cadere il velo razionale. L’aspetto del gioco affiora in alcuni sorrisi, ma alla fine l’urlo munchiano di Chiesa prevale sulla sottile vena goliardica. È il definitivo strappo che giunge dopo tremori nervosi e carezze, quando la solitudine e l’incomunicabilità del personaggio dietro la maschera diventano disperazione.
I luoghi psichici provocatori di Chiesa, spesso protagonista e “vittima” delle proprie performance, sono un ricettacolo di allegorie viventi, che enunciano tramite il corpo e i suoi “costumi” (nel doppio senso della parola) un disagio provato di fronte a un mondo, quello reale, fondato sui valori dell’apparenza e sempre più burlesque. Come un anticorpo, anche la performance di Chiesa utilizza brani del medesimo dna del virus che vuole indebolire. Una dose omeopatica che volge il male in rimedio: la fiction del reale si trasforma in emozione vera, anche se prodotta ad arte.
Sono circa 18 minuti in cui la performance rosa (dai neon che illuminano gli spazi bianchi) si sviluppa come un burlesque, recita la scritta al neon appesa alla finestra. Ovvero come uno spettacolo parodistico in maschera, sorto nell’Inghilterra vittoriana, esportato negli Stati Uniti e divenuto vaudeville: un insieme di circo, danza e mascheramenti, popolato da quelle che oggi definiremmo pin-up e icone del fetish. Chiesa si veste con tutù di piume, calze a rete e maschera antigas. Al suo fianco, i performer Viktorija Gadraityte e Penelope Please, vestiti in pelle nera e tulle secondo un immaginario romantico e dark. I tre, chiusi nella stanza immersa nel sound elettro-minimal un po’ sinistro del musicista e producer berlinese Dieb (in live set), accolgono cinque visitatori per volta, mentre gli altri osservano da dietro un vetro.
Il copione seguito dai tre è scritto su un canovaccio di Eleonora Chiesa e si nutre d’improvvisazione. L’artista mette in scena un paesaggio mentale dentro cui accogliere il pubblico, che viene destabilizzato, toccato, mascherato e provocato con lunghi sguardi fissi e silenti. L’eros a cui si allude è quasi una sofferenza, una lacerata pantomima in cui resta poco della passione che lo anima. L’aspetto interessante è la reazione spiazzata di alcuni ma anche la sicurezza con la quale altri accettano la sfida verso chi vuole per un momento annullarne le difese. Aleggia una sorta d’infantilismo consapevole, usato per far cadere il velo razionale. L’aspetto del gioco affiora in alcuni sorrisi, ma alla fine l’urlo munchiano di Chiesa prevale sulla sottile vena goliardica. È il definitivo strappo che giunge dopo tremori nervosi e carezze, quando la solitudine e l’incomunicabilità del personaggio dietro la maschera diventano disperazione.
I luoghi psichici provocatori di Chiesa, spesso protagonista e “vittima” delle proprie performance, sono un ricettacolo di allegorie viventi, che enunciano tramite il corpo e i suoi “costumi” (nel doppio senso della parola) un disagio provato di fronte a un mondo, quello reale, fondato sui valori dell’apparenza e sempre più burlesque. Come un anticorpo, anche la performance di Chiesa utilizza brani del medesimo dna del virus che vuole indebolire. Una dose omeopatica che volge il male in rimedio: la fiction del reale si trasforma in emozione vera, anche se prodotta ad arte.
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Rebecca Container Gallery
Piazza Grillo Cattaneo, 2r (centro storico) – 16123 Genova
Orario: da martedì a sabato ore 16-19 o su appuntamento
Ingresso libero
Info: tel. +39 0102543584; fax +39 0102516819; info@rebeccacontainer.com; www.rebeccacontainer.com
[exibart]
mostra senza senso,eleonara chiesa non immagina che cosa vuol dire fare arte,e una distruttrice della nostra epoca,ridicola e insignificante,passa da noi cosi ne parliamo..
curioso commento e alquanto gratuito, “e una distruttrice della nostra epoca” E VEROOO!poi “passa da noi e ne parliamo”(sic), ancora peggio. Aggiungiamo poi che chi fa il commento è un gallerista, vuol dire che l’efetto che cercava eleonora ha proprio fatto centro.
Ancora complimenti a tuti e due. Lunga vita ai nuovi Cristofori Colomb(i).
A distruttrice aggiungerei anche PATENTATA.
Ele..Antonio..passate da me che ne parliamo!
io sono d’accordo con il dottor arevalo…
Beh, se qualcuno addirittura arriva al punto da postare un commento falsificando nome ed indirizzo [e firmandosi, tra l’altro, a nome di un nostro carissimo (ed ignaro) collega genovese] allora vuole dire che abbiamo proprio fatto centro!
Grazie anonimo “poster”, ci hai dato la conferma di aver fatto una bella mostra ed un bel vernissage…
Se passi dalla galleria riceverai in omaggio un’opera di Dana Wyse: la pillola “Be A Successful Artist – Instantly” [ed è la tua unica possibilità, dear mr.X…]
Leggo oggi il commento delirante che qualcuno si è permesso di postare a nostro nome.
Ovviamente non ci saremmmo mai permessi di scrivere qualcosa di così stupido. Personalmente stimo il lavoro di Eleonora Chiesa e di Rebecca Container. Mi fa pena invece una persona che si permette di scrivere commenti così miseri usando il nome di qualcun altro. Diffido chiunque ad usare il nome mio, della galleria, i nostri indirizzi e riferimenti, senza averne titolo. Spero che in futuro la redazione si attrezzi perché cose incresciose come questa non possano più accadere. Chico Schoen
Desidero aggiungere un breve commento a questa vicenda che ben poco ha a che vedere con l’arte, sperando svanisca al più presto da queste pagine.
Ogni critica è benvenuta, qualunque sia il tono usato;
firmare con nome di altre persone invece, oltre ad essere poco onesto, mette in difficoltà non tanto noi o l’artista, quanto le persone di cui si è utilizzato indebitamente l’indirizzo.
Se Rebecca ed Eleonora Chiesa ringraziano per l’ottima pubblicità, sono personalmente dispiaciuto per un amico, oltre che stimato collega, trovatosi in serio imbarazzo nell’apprendere la cosa. A lui va tutta la mia solidarietà per il torto subito, confidando in una maggiore attenzione, in futuro, da parte della Redazione del sito che gentilmente ci ospita.
TUTTO BENE QUEL CHE FINISCE BENE, dicono.