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07
novembre 2007
fino al 13.XI.2007 Dubravka Vidovic Milano, Artopia
milano
Il mare trasloca in scatole di cartone. La galleria è invasa di contenitori né da svuotare né da riempire. Un’installazione dell’artista croata, che usa l’acqua per legare i riti della mancanza ai vuoti esistenziali. Una personale dai toni nostalgici. E dai risvolti imprevedibilmente femminili...
di Ginevra Bria
Secondo la clinica lacaniana, l’opera d’arte non è altro che organizzazione del vuoto. L’arte è un’esperienza irriducibile. Un gesto estraneo tanto all’evitare il vuoto quanto al tentativo di chiusura e saldatura dello stesso. In verità, l’arte non evita né ottura. L’espressione poetica della materia orla e circoscrive il vuoto centrale delle cose. Ed è proprio nell’opera d’arte che l’estetica si confronta, in una relazione decisiva col reale della Cosa. Solo per questo motivo l’estetica del vuoto si traduce sempre in un’estetica del reale. Una poetica che però non deve scadere mai in un culto realistico della Cosa, in una divinizzazione della prassi, come invece avviene in gran parte dell’arte contemporanea.
Un buon esempio di simbolizzazione, di significazione del vuoto, è visibile nell’ultimo lavoro di Dubravka Vidovic (Zadar, Croazia, 1970). A Milano, l’artista torna con una personale difficile da racchiudere in interni. Un’esposizione che parla di altrove e altrove porta chi vuole lasciarsi portare. Dunque quello che conta, per dare il giusto risalto a una mostra di questo genere, non è tanto la disponibilità degli spazi quanto, piuttosto, la cura particolare con la quale si distribuisce, sulle installazioni, l’elemento-luce.
Entrando, nella sala principale si apre di fronte a chi arriva uno scenario straniante. Una cinquantina di scaltole di cartone, aperte, lascia vedere al proprio interno diversi livelli d’acqua. La resina blu, sparsa sul fondo e sulle pareti delle scatole, impermeabilizza e contiene il liquido. Il contrasto tra la superficie lucida dell’acqua e quella ruvida del cartone è un effetto materico forte. La luce soffusa dei faretti allunga le ombre e mette in evidenza la portata poetica di quest’idea. Dubravka Vidovic inscatola il mare e lo porta in città; quello stesso mare blu della sua terra, quel mare che ha fatto la guerra e che ora è meta turistica. “Ricordo che, durante la guerra, rimanevamo per giorni senz’acqua. Per le strade c’erano file di gente con in mano qualsiasi contenitore si riuscisse a trovare. Ancora ricordo il rumore dell’acqua, versata e razionata, prima nei secchielli e poi nelle ciotole. Ricordo soprattutto l’ossessione di restarne senza”. L’artista immerge gli occhi dell’osservatore in pezzi lucidi di ricordi, un insegnamento per chi ancora crede che la fragilità di una scatola non riesca a battere la forza capillare dell’acqua. La forza capillare dell’inizio, del principio portato alla sorgente della vita.
Alle pareti, per completare una personale incentrata sul tema dell’acqua, sono appese quattro fotografie. Le immagini sono state scattate durante un viaggio in Pakistan e Rajasthan. Su un arbusto, cresciuto secco, fra le dune del deserto, sventolano appesi decine di secchielli e altri contenitori colorati. In un vecchio rudere costruito sulla sabbia, con le pubblicità cancellate dal vento, sono state appoggiate bottiglie blu, ciotole rosa, secchi color pistacchio e altri vasetti per portare acqua. “Abbiamo attraversato il deserto sui dromedari, eravamo gli unici, al bazar, a comprare così tanti contenitori, e a portarli sul dorso degli animali, nel bel mezzo del deserto”, ricorda ridendo l’artista.
In conclusione, una personale che, nonostante annoveri pochissimi attraversamenti estetici e rimandi citazionali, si distingue per delicatezza e grande ricchezza simbolica.
Un buon esempio di simbolizzazione, di significazione del vuoto, è visibile nell’ultimo lavoro di Dubravka Vidovic (Zadar, Croazia, 1970). A Milano, l’artista torna con una personale difficile da racchiudere in interni. Un’esposizione che parla di altrove e altrove porta chi vuole lasciarsi portare. Dunque quello che conta, per dare il giusto risalto a una mostra di questo genere, non è tanto la disponibilità degli spazi quanto, piuttosto, la cura particolare con la quale si distribuisce, sulle installazioni, l’elemento-luce.
Entrando, nella sala principale si apre di fronte a chi arriva uno scenario straniante. Una cinquantina di scaltole di cartone, aperte, lascia vedere al proprio interno diversi livelli d’acqua. La resina blu, sparsa sul fondo e sulle pareti delle scatole, impermeabilizza e contiene il liquido. Il contrasto tra la superficie lucida dell’acqua e quella ruvida del cartone è un effetto materico forte. La luce soffusa dei faretti allunga le ombre e mette in evidenza la portata poetica di quest’idea. Dubravka Vidovic inscatola il mare e lo porta in città; quello stesso mare blu della sua terra, quel mare che ha fatto la guerra e che ora è meta turistica. “Ricordo che, durante la guerra, rimanevamo per giorni senz’acqua. Per le strade c’erano file di gente con in mano qualsiasi contenitore si riuscisse a trovare. Ancora ricordo il rumore dell’acqua, versata e razionata, prima nei secchielli e poi nelle ciotole. Ricordo soprattutto l’ossessione di restarne senza”. L’artista immerge gli occhi dell’osservatore in pezzi lucidi di ricordi, un insegnamento per chi ancora crede che la fragilità di una scatola non riesca a battere la forza capillare dell’acqua. La forza capillare dell’inizio, del principio portato alla sorgente della vita.
Alle pareti, per completare una personale incentrata sul tema dell’acqua, sono appese quattro fotografie. Le immagini sono state scattate durante un viaggio in Pakistan e Rajasthan. Su un arbusto, cresciuto secco, fra le dune del deserto, sventolano appesi decine di secchielli e altri contenitori colorati. In un vecchio rudere costruito sulla sabbia, con le pubblicità cancellate dal vento, sono state appoggiate bottiglie blu, ciotole rosa, secchi color pistacchio e altri vasetti per portare acqua. “Abbiamo attraversato il deserto sui dromedari, eravamo gli unici, al bazar, a comprare così tanti contenitori, e a portarli sul dorso degli animali, nel bel mezzo del deserto”, ricorda ridendo l’artista.
In conclusione, una personale che, nonostante annoveri pochissimi attraversamenti estetici e rimandi citazionali, si distingue per delicatezza e grande ricchezza simbolica.
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Via Lazzaro Papi, 2 (zona corso Lodi) – 20135 Milano
Orario: dal martedì al venerdì ore 15.30-19.30
Ingresso libero
Info: tel. +39 025460582; ritaurso@tiscalinet.it; www.artopiagallery.it
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