Create an account
Welcome! Register for an account
La password verrà inviata via email.
Recupero della password
Recupera la tua password
La password verrà inviata via email.
-
- container colonna1
- Categorie
- #iorestoacasa
- Agenda
- Archeologia
- Architettura
- Arte antica
- Arte contemporanea
- Arte moderna
- Arti performative
- Attualità
- Bandi e concorsi
- Beni culturali
- Cinema
- Contest
- Danza
- Design
- Diritto
- Eventi
- Fiere e manifestazioni
- Film e serie tv
- Formazione
- Fotografia
- Libri ed editoria
- Mercato
- MIC Ministero della Cultura
- Moda
- Musei
- Musica
- Opening
- Personaggi
- Politica e opinioni
- Street Art
- Teatro
- Viaggi
- Categorie
- container colonna2
- container colonna1
10
dicembre 2007
libri_monografie Olafur Eliasson (postmediabooks 2007)
Libri ed editoria
L’ideatore del “Sole in interno” racconta, o almeno ci prova, il proprio progetto. Coadiuvato dagli interventi critici di Obrist & Co. La domanda è sempre la medesima: l’artista deve proprio spiegarsi?...
Diciamo la verità: ce lo aspettavamo. O quantomeno non ci sorprende che la lettura di questo volumetto -il florilegio di Olafur Eliasson, ché i saggi accompagnatòri sono altra cosa- ci lasci insoddisfatti. Un’insoddisfazione costruttiva, chiariamo subito: la stessa che proveremmo leggendo, per dire, Roger Waters che scrive di Shine On You Crazy Diamond. Ci sono momenti di grazia che sfuggono alla disciplina degli stessi creatori, che fanno tesoro d’influenze ambientali, contingenze sociali, insondabili influssi auratici. E che proprio per questo è difficile sostenere con una griglia teorica, o anche narrativa.
Uno di questi -attorno al quale s’impernia la più parte di questi contributi dell’artista- è The Weather Project, la grande installazione realizzata nel 2003 nella Turbine Hall della Tate Modern. Portentosa riproduzione del sole in interno grazie a centinaia di lampade in monofrequenza, con l’atmosfera pervasa da una fine e inquietante foschia. Un lavoro che instaura uno standard emozionale elevatissimo, che l’artista islandese ha saputo metabolizzare negli sviluppi della sua opera. Ma che nel pubblico induce -è un prezzo da mettere in conto- aspettative sempre elevate, che non è scontato soddisfare con uno scritto.
Gli spunti affascinanti certo sono molti, con le continue digressioni sui temi dell’esperienza, della mediazione e della rappresentazione. “Il lavoro di Olafur Eliasson”, scrive Hans Ulrich Obrist nel saggio che apre il volume, “è un laboratorio dentro un laboratorio più grande, e seguirlo per dieci anni mostra dopo mostra, da una città all’altra, è esattamente quella nuova ‘vie de laboratoire’, come diceva Bruno Latour, che procede da un tavolo all’altro in un laboratorio in cui si realizzano regolarmente i più interessanti esperimenti con le emozioni, la politica, le utopie e la vita”. Un laboratorio dal quale escono anche questa sorta di effemeridi, che il razionalista Eliasson tende a strutturare, nell’approccio alle problematiche, con continue contrapposizioni schematiche, tesi-antitesi, interiore-esteriore, teoria-esperienza, coscienza-corpo, natura-paesaggio.
Brani di conversazioni, interviste, testi per cataloghi, nei quali si scopre che il relativismo può allignare anche nella nostra percezione dei colori (“Gli eschimesi hanno una sola parola per definire il rosso, ma ne hanno trenta per il bianco”) o nel concetto di visione, in una stordente riflessione fra vetri, specchi e messa a fuoco. E nei quali con poche battute sconfigge sul nascere il serpeggiante pensiero omologante, quello che potrebbe accostare la sua empatia per luce e colore con certa tradizione romantica-turneriana: “Credo che la costante convinzione che la sensibilità nordica sia particolarmente melanconica o sentimentale sia il lascito di una tradizione naif della storia dell’arte che tenta di connettere l’arte nordica attuale con quella di un secolo fa”.
E poi, variazioni fra tempo atmosferico e tempo fisico, fra oggettività e soggettività della visione, sulla socialità dell’arte pubblica e la manipolazione dell’esperienza individuale. Fino a domandarsi: “Come posso realizzare un esperimento che faccia interagire delle persone con il mio lavoro senza formalizzare il processo, senza dir loro come farne esperienza?”. Non ci provare Olafur, il tuo capolavoro non accetta gabbie terrene.
Uno di questi -attorno al quale s’impernia la più parte di questi contributi dell’artista- è The Weather Project, la grande installazione realizzata nel 2003 nella Turbine Hall della Tate Modern. Portentosa riproduzione del sole in interno grazie a centinaia di lampade in monofrequenza, con l’atmosfera pervasa da una fine e inquietante foschia. Un lavoro che instaura uno standard emozionale elevatissimo, che l’artista islandese ha saputo metabolizzare negli sviluppi della sua opera. Ma che nel pubblico induce -è un prezzo da mettere in conto- aspettative sempre elevate, che non è scontato soddisfare con uno scritto.
Gli spunti affascinanti certo sono molti, con le continue digressioni sui temi dell’esperienza, della mediazione e della rappresentazione. “Il lavoro di Olafur Eliasson”, scrive Hans Ulrich Obrist nel saggio che apre il volume, “è un laboratorio dentro un laboratorio più grande, e seguirlo per dieci anni mostra dopo mostra, da una città all’altra, è esattamente quella nuova ‘vie de laboratoire’, come diceva Bruno Latour, che procede da un tavolo all’altro in un laboratorio in cui si realizzano regolarmente i più interessanti esperimenti con le emozioni, la politica, le utopie e la vita”. Un laboratorio dal quale escono anche questa sorta di effemeridi, che il razionalista Eliasson tende a strutturare, nell’approccio alle problematiche, con continue contrapposizioni schematiche, tesi-antitesi, interiore-esteriore, teoria-esperienza, coscienza-corpo, natura-paesaggio.
Brani di conversazioni, interviste, testi per cataloghi, nei quali si scopre che il relativismo può allignare anche nella nostra percezione dei colori (“Gli eschimesi hanno una sola parola per definire il rosso, ma ne hanno trenta per il bianco”) o nel concetto di visione, in una stordente riflessione fra vetri, specchi e messa a fuoco. E nei quali con poche battute sconfigge sul nascere il serpeggiante pensiero omologante, quello che potrebbe accostare la sua empatia per luce e colore con certa tradizione romantica-turneriana: “Credo che la costante convinzione che la sensibilità nordica sia particolarmente melanconica o sentimentale sia il lascito di una tradizione naif della storia dell’arte che tenta di connettere l’arte nordica attuale con quella di un secolo fa”.
E poi, variazioni fra tempo atmosferico e tempo fisico, fra oggettività e soggettività della visione, sulla socialità dell’arte pubblica e la manipolazione dell’esperienza individuale. Fino a domandarsi: “Come posso realizzare un esperimento che faccia interagire delle persone con il mio lavoro senza formalizzare il processo, senza dir loro come farne esperienza?”. Non ci provare Olafur, il tuo capolavoro non accetta gabbie terrene.
articoli correlati
Eliasson per il Serpentine Pavilion 2007
The Weather Project
massimo mattioli
la rubrica libri è diretta da marco enrico giacomelli
*articolo pubblicato su Exibart.onpaper n. 44. Te l’eri perso? Abbonati!
Aa.Vv. – Olafur Eliasson. La memoria del colore e altre ombre informali
Postmediabooks, Milano 2007
Pagg. 96, € 18,60
ISBN 9788874900341
Info: la scheda dell’editore
[exibart]