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31
gennaio 2008
AMAZE!
Progetti e iniziative
di helga marsala
Un’avventura lunga dieci anni. Festeggiata con un indimenticabile party. È la storia di due amici che poi diventano soci. E che costruiscono un piccolo impero. Tra passione per l’arte contemporanea, musica e vita notturna, nasce da Torino il fenomeno Maze. Una galleria, una serie di club e ristoranti, e poi...
Un’avventura lunga dieci anni. Festeggiata con un indimenticabile party. È la storia di due amici che poi diventano soci. E che costruiscono un piccolo impero. Tra passione per l’arte contemporanea, musica e vita notturna, nasce da Torino il fenomeno Maze. Una galleria, una serie di club e ristoranti, e poi...
Due galleristi con l’anima da collezionisti. Opere d’arte, certo, ma non solo. La passione di Luca Conzato e Riccardo Ronchi sono i locali. Ristoranti, bar, club, gelaterie. Ne hanno messo su una sfilza. Otto per la precisione, nel giro di dieci anni. Da Torino a Roma, da Bologna a Parigi. Tutti di qualità, s’intende. Mica roba dozzinale come ce n’è a bizzeffe nelle città.
Tra arte contemporanea ed entertainment, il gap si fa sempre più sottile, e i due direttori della galleria torinese Maze sono testimoni esemplari di una significativa evoluzione culturale e di costume. Il concetto di public art si allarga, assume risvolti nuovi. Non solo strade e piazze ma anche hotel, caffetterie, giardini, stazioni, boutique, aeroporti, ospedali: l’arte contemporanea scalpita, scivola fuori dai contesti ad hoc e “contamina” il quotidiano. Un’operazione accurata che non chiede alle opere di adeguarsi ad ambienti impropri, ma che piuttosto riprogetta gli spazi sociali in funzione di eventi e interventi artistici.Intanto, un nuovo modo di fare intrattenimento prende piede. Ed è subito trend: locali con atmosfere intime e casual, design style con personalità, target di nicchia ma non troppo, stimoli creativi e prezzi facili. Bando agli spazi generalisti, dunque, ma anche a quelli patinati. Ecco allora che un ristorante o un cocktail-bar possono trasformarsi in ottimi contenitori per opere di artisti affermati, mantenendo un’atmosfera “easy and cheap”.
Ed è proprio quanto i due bravi galleristi stanno mettendo in pratica da anni, guadagnando straordinari successi. Quello di Conzato e Ronchi è ormai un marchio di fabbrica, la concretizzazione -riuscitissima- di uno stile, di un concept, di una maniera di intendere la cultura del time off.
Ma come vive la gente queste operazioni di sconfinamento? “Reazioni positive, senz’altro. Credo che l’idea di portare l’arte all’interno dei nostri locali sia stata ben recepita, proprio perché ogni spazio viene pensato come un’installazione, come parte di un progetto coerente. Questo fa la differenza”. A parlare è Riccardo Ronchi, intervistato da Exibart: “Non si tratta semplicemente di appendere dei lavori alle pareti. Le opere sono collegate tra loro e con l’ambiente, si cerca di intessere un discorso, di creare situazioni organiche”. Già, la differenza sta proprio qua. Non un fatto di arredo, ma di progetto. Non l’accessorio sexy, ma l’opera come componente attiva di un contesto.
L’avventura inizia nel 1997, con il battesimo della torinese Société Lutèce, in origine il negozio di un gommista. Location centrale ma abbastanza appartata, dentro l’antico ghetto ebraico. Nel nome c’è già un’inconfondibile air de Paris, quel gusto romantico, rétro e un po’ dimesso delle tradizionali brasserie d’oltralpe. Cucina semplice e ricercata e un’ottima carta dei vini, in linea col mood francese del locale. Gli arredi sono semplicissimi, zero griffe e molta creatività. Le luci, per esempio, sono fatte artigianalmente coi tubi di una vecchia grondaia. E poi c’è l’arte contemporanea, fiore all’occhiello della premiata ditta Conzato-Ronchi; pochi pezzi, discreti ma incisivi: una palma di Piero Golia, un multiplo del Puppy di Jeff Koons, una foto di Jessica Matin, disegni di Tere Recarens e Donald Urquhart.
Ma qual è il cuore del progetto Société Lutèce? Ce lo racconta Luca Conzato: “Il concetto che lega i nostri locali è sempre lo stesso. È come realizzare delle case dove ricevere gli amici, per proporgli le cose che ti piacciono, farli stare bene, condividere emozioni… E allora trovi la cucina francese, l’arte, un’atmosfera calda e rilassata”. Gli avventori sono studenti, giornalisti, professionisti, artisti, musicisti. Tra gli habitué c’è anche qualche vip, ma loro, i proprietari, non ci tengono a sbandierarlo: “Mah, qualche volta alla Lutèce ci puoi beccare i Subsonica per esempio, o qualche attore; ma questo accade perché è un luogo appartato, tranquillo, dove non ti rompe la scatole nessuno. È normale che ci passi il personaggio noto, ma non ci si fa caso. Anni fa Silvo Orlando era a Torino per girare un film con Margherita Buy, veniva a mangiare ogni giorno qui e nessuno gli si è mai avvicinato! L’assalto al vip è fuori registro, per fortuna”.
Capita così, a volte, che dei piccoli live set nascano spontaneamente: qualcuno improvvisa agli strumenti, qualcun altro tira fuori i dischi e comincia ad armeggiare sui flight case; le serate decollano con naturalezza, il tempo scivola via euforico e rilassato, come in un party casalingo. Ricetta vincente, che resiste negli anni. Il quindici ottobre scorso la Société Lutèce ha celebrato il suo primo decennale, stesso smalto degli esordi, stessa energia. Una nottata elettrizzante, sul filo dei ricordi e di nuovi entusiasmi. Alla soundtrack della festa hanno contribuito alcuni amici di sempre, da Samuel (Subsonica) e Pisti aka Krakatoa, al dj marocchino Rashid, fino a Paolo Parpaglione dei Blue Beaters.
La fissazione per il binomio arte-movida arriva da lontano, quasi un fatto di karma o di dna. Nei primissimi ‘90 Luca era un giovane art director, impegnato ad animare le notti dello Studio Due di via Nizza, storico locale di Torino ormai scomparso: “Organizzavo serate universitarie per le facoltà di giurisprudenza e architettura, mentre il venerdì lo facevano Mixo e Amendolia, personaggi mitologici della scena rock torinese”. Fragorosi anni di sperimentazioni underground, tra hardcore, crossover, rock, punk, house, acid jazz: “Ricordo concerti dei Fuzztones, Jesus & Mary Chain, Urban Dance Squad, Henry Rollins, Galliano… Il sabato era ‘Pop Planet’ con Alberto Spallacci e Lorenzo LSP… Insomma roba tosta!”. Trapelano note di nostalgico entusiasmo nel balzo amarcord di Luca. L’arte contemporanea, già allora, era un ingrediente strategico. Viaggiando all’indietro Conzato estrapola un frammento affettuoso, sepolto tra quindici anni di memorie: “Allo Studio Due ogni martedì avevo in scaletta una serata/performance, in collaborazione con Guido Carbone e gli artisti della sua galleria. Si chiamava ‘Società per i viaggi nello spazio’”. Il sound delle notti torinesi si lasciava sedurre dal gioco dell’arte, e i nomi erano quelli di Pierluigi Pusole, Monica Carocci, Bruno Zanichelli…
Riccardo invece è un commercialista, che l’arte però l’ha respirata fin da bambino. La madre negli anni ‘70 aveva una piccola e vivace galleria a Santa Margherita Ligure. “Ci sono cresciuto in mezzo all’arte… La galleria era al mare, dove mamma gestiva anche un albergo. Gli artisti venivano ad esporre e si facevano pure la vacanza. Una bella situazione”. Determinanti sono gli anni passati a Londra e Parigi, allora luoghi decisivi per la club culture e le new wave artistiche e musicali. Poi, nel ’94, l’incontro con Luca. È l’inizio di un’amicizia, ma anche l’avvio di una straordinaria scalata professionale.
Torniamo così a quel 1997, anno assai prolifico e non solo per i successi della Lutèce. I due amici-soci fondano l’associazione culturale Maze, che significa “labirinto”. Un nome un destino, viene da pensare, visto il dedalo di attività che i due avrebbero intrapreso da lì a poco, nel segno della contaminazione. È il periodo della gavetta, dell’innamoramento per l’arte contemporanea, dello scouting zelante e cosmopolita: girano per le scuole e le accademie di Spagna, Inghilterra, Germania, Italia. Qua nascono le collaborazioni con Golia e Flavio Favelli per esempio, allora giovani di belle speranze. Il fiuto c’è, la voglia di mettersi in gioco è forte.
Poi, per Luca, l’esperienza in America: “Passo un periodo a New York, dove studio tanto e mi immergo nell’art system che conta. Nyc era il centro del mondo. È al ritorno da quel viaggio che nasce Maze, la nostra Galleria”.
L’ex fabbrica di flipper, in pieno centro storico, diventa una delle gallerie di punta della scena sabauda. I neo-direttori mettono in piedi una scuderia importante, con nomi internazionali di tutto rispetto. Comincia il business dell’arte, mentre arrivano le lodi di pubblico e critica. A questo punto, anziché decidere una volta per tutte cosa fare da grandi, i due rilanciano con convinzione, puntando ancora sul mix arte e mondanità.
Un’ex drogheria torinese degli anni ’40 diventa, nel 2002, la Drogheria: “È il nostro secondo figlio. Qui abbiamo sviluppato una specie di concetto d’appartamento”, spiega Conzato. “Oltre al bar -gestito da tre ragazze, due architetti torinesi e una designer svedese che usano la mansarda come studio- c’è un tavolone conviviale dove si pranza tutti insieme, poi la cucina, un salotto col camino, una sala tv…”. Il principio della home sweet home è perseguito con costanza, immaginando una casa intimamente connessa all’arte. Flavio Favelli ha progettato un’opera-bancone, tra gli arredi ci sono molti pezzi vintage degli anni ‘60 e ‘70 e in giro altre immancabili preziosità: un inquietante specchio di Henrik Plenge Jakobsen, una mappa di Piero Golia, dei disegni su piattini di carta di Juan Céspedes. È questa una delle sedi di Club To Club, Festival Internazionale di Musiche e Arti Elettroniche, mentre a breve partirà un divertente progetto di diretta radio-tv, musica e chiacchiere on air dai locali della Drogheria. Top secret, per il momento, il nome dell’emittente.
Dopo una sfilza di goal messi a segno, una nuova scommessa. Perché non tentare l’approdo capitolino? Nel 2004 apre a Roma la sorella della Société Lutèce, identiche la formula e l’appeal parigino. La situazione qui è più notturna: aperto dall’after hour fino alle due di notte, il locale è vicinissimo a Piazza Navona ma abbastanza imboscato per stare al riparo dal più molesto chiasso mondan-turistico. Atmosfera raccolta, mai troppo ingessata. Qui, tra un lightbox di Daniel Pflumm, un collage di Pablo Vargas Lugo o una fotografia di Giuseppe Pietroniro, si gustano couscous di verdure e salse allo yogurt. Menu light ed esotico, da consumare dentro un’installazione: il bar e l’area aperitivo sono affidati di nuovo a Favelli, mentre gli arredi, un po’ spartani, evocano i classici bistrot francesi, chic ma senza pretese. I clienti? Appena più agé e tranquilli dell’omonimo spazio torinese, sono prevalentemente professionisti, intellettuali. Ma si tratta comunque di target eterogenei, mai troppo esclusivi. “Un punto di forza dei nostri locali è la varietà del pubblico”, ci spiega Luca. “Puoi trovarci il ragazzino coi cani che si beve una birra sul muretto di fronte, ma anche il regista cinquantenne…”. Bando allo snobismo, per carità.
L’esperienza romana si rivela vincente e nel 2005 è la volta di un nuovo opening. A Trastevere, a due passi da piazza Trilussa, dove un tempo c’era un’officina meccanica nasce Freni e Frizioni. L’insegna originale dell’officina è ancora lì, in bella vista sopra il bancone, mischiata ai lampadari e alle specchiere di Favelli, a una bandiera del Brasile di Costa Vece, a una foto del Tupack di Herford di Paolo Chiasera, al poliziotto-terrorista di Scott King e al ritratto di calzini Nike di Piero Golia. I giovani branché, alla moda e un po’ alternativi -molti romani, ma soprattutto stranieri- si affezionano subito all’atmosfera di questo posto affascinante. Freni e Frizioni crea una vera e propria piazza dal nulla, laddove prima c’era uno squallido parcheggio. Anche qui spazio al vintage: il bancone bar è composto in parte dal mobile a cassetti di una farmacia austriaca dell’800, in parte da vecchie librerie dismesse; il solito maxi-tavolo sociale, lungo cinque metri, è rielaborato con luci da biblioteca in ottone, mentre in giro sono sparsi divani anni ’70 e qualche classico pezzo Kartell. Lo stile informale si veste di eleganza, mentre l’arte del riciclo conferisce una nota ricercata. E gli eventi artistici? Pochissimi, tranne qualche eccezione del tutto casuale. Come quando Stefania Galegati propose di organizzare una serata per il progetto Adotta un artista: “Era un’iniziativa divertente, così accettai. Ma di solito evito di mischiare i progetti artistici coi locali, non voglio sovrapposizioni col lavoro della galleria”, puntualizza Conzato. Certo che l’arte, però, resta uno dei punti di forza di questi spazi. “È vero, ma per me inserire delle opere è una cosa naturale, è come se fossi a casa mia, dove metto roba che mi piace; cerco di trasmettere un gusto, una passione; e poi magari c’è la presunzione di rendere l’arte più vicina alla gente, toglierla da un luogo istituzionale come una galleria e farne materia del quotidiano”.
Sono opere di artisti della loro scuderia, ma non solo. “Non usiamo i locali come vetrine per promuovere i nostri artisti”, sottolinea Riccardo. “Il principio è un altro, ossia coltivare la sorpresa, la meraviglia, creare atmosfere. Alcuni lavori sono di artisti che non lavorano con noi, li compriamo perché funzionano nel contesto”.
Al Diamond invece, aperto nel 2006 a Torino, le attività creative sono frequenti. Dopo la mostra/evento A-more e dopo l’Aperfilm (cinema all’ora dell’aperitivo), a ottobre parte un “project restaurant”: “Dalle otto a mezzanotte serviamo il cibo dentro dei bicchieri”, racconta Conzato. “Lo abbiamo chiamato Soul Food, un po’ perché accompagnato da musica dal vivo, un po’ perché il piatto nel bicchiere viene destrutturato, lo vedi a strati, ne scorgi l’anima”. Ed è proprio la musica l’anima di questo locale pre-party, arredato in stile anni ’80 e immerso in atmosfere notturne. “Il Diamond è un club sotterraneo, si sviluppa lungo un corridoio seminterrato di mattoni, con volte molto alte. Erano delle cantine un tempo, ma qualcuno sostiene che prima ci fosse un monastero, poi bombardato durante la seconda Guerra Mondiale. Io direi che assomiglia più a un rifugio antiaereo”. La musica, dicevamo. Negli anni ’70 qua si suonava il jazz dal vivo, regolarmente. E oggi, il Diamond resta fedele a questa tradizione sonora, proponendo una programmazione serrata di live set electro con dj resident e musicisti. Nel buio avvolgente della Dark Room o della Sala Rossa capita poi di inciampare in una foto retroilluminata di Elisa Sighicelli, nelle polaroid di Bianco-Valente, in un autoscatto di Patrick Tuttofuoco alla chitarra o in un Mercedes ring di Piero Golia.
Del 2007 sono gli ultimi due nati di casa Maze. Il ristorante-caffetteria del Mambo di Bologna è un ex-forno del pane, con orari propri e gestione indipendente. Qui campeggiano, tra le altre, una fotografia di Pietroniro del Museo, la foto di un fachiro di Sadrine Nicoletta e una piccola canzone attaccata la muro di Saâdane Afif, opera che ha involontariamente dato il nome al locale: un po’ per gioco, un po’ per caso il Mambo restaurant è divenuto il Bar des Héros. D’obbligo, in una sede come questa, la chicca artistica, il pezzo da novanta. È già pronto, ma non ancora installato, un lavoro della star belga pluripremiata Francis Alÿs. Semplice e multimediale, il progetto ha tutti i numeri per diventare l’attrazione del Mambo caffè: “Una telecamera verrà piazzata in un luogo di lavoro, la cucina per esempio, ma starà dietro un acquario”, spiega Conzato. “Le immagini verranno quindi trasmesse in diretta da un monitor collocato nel locale”. Il risultato? “Sarà come spiare una cucina subacquea dove si aggirano pesci e cuochi…”. Geniale.
E per non farsi mancare nulla, dopo l’esperienza col Museo, ecco il progetto con un importante club sportivo di Torino. L’Esperia nasce nel suggestivo spazio del Circolo Canottieri, in un palazzo storico affacciato sul fiume. Conzato e Ronchi gestiscono il ristorante e il gigantesco salone, affittato per eventi svariati, tipo matrimoni, campagne elettorali, cene aziendali. Il tocco artistico dei due è inconfondibile: “Abbiamo giocato con la tradizione inglese del canottaggio”, racconta Luca, “scegliendo per la sala una carta da parati anni ’30 di William Morris, a cui si lega l’intervento sul bordo della piscina realizzato dal londinese Richard Woods, fedele all’eredità del movimento Art and Crafts”. Monumentale e ironico lo scheletro di balena preistorica di Céspedes, sorta di kit di montaggio in scala uno a uno: quindici metri di fantastico divertissement sul tema del mare e dei suoi misteri. Il design? A tema, tra classico e contemporaneo, senza dimenticare il pallino per il riciclo. Pezzo forte, il bar self-made ottenuto recuperando due vecchie barche.
Ma l’ultima tappa, a sorpresa, è in Francia, antica passione geografica dei due galleristi. Nell’incantevole quartiere parigino del Marais, la gelateria Pozzetto porta la loro inconfondibile firma. Qua si vende la qualità della tradizione dolciaria piemontese, dal gelato, al cioccolato fino al caffé. E l’arte? Immancabile, ça va sens dire. Giochi di contrasto a effetto, per un ambiente raccolto e molto cool. Calpestando il pavimento bianco e nero di Woods, ci si serve al minimalissimo bancone-bar di Favelli, in mezzo ai wall painting colorati di Golia e Olivier Babin.
L’impressione è che la storia non finisca qua. Fenomeno ormai più che rodato, quella dei due galleristi torinesi è una vicenda che continua a sedurre, opening dopo opening. E in effetti qualcosa bolle in pentola, sia sul versante galleria che su quello accoglienza e intrattenimento. Conzato e Ronchi restano due outsider, due che amano il rischio e la sperimentazione. Innanzitutto è Maze a cambiare pelle. “Le gallerie prima degli anni Novanta erano luoghi d’incontro, di scambio, di divertimento. Tutto questo è cambiato con ‘90 concetto di ‘white cube’”, ammette Ronchi. “Ora sono diventate vetrine asettiche, respingenti, vuote, che vivono solo il giorno dell’inaugurazione”. Niente di più vero. E allora? “Vogliamo svoltare il concetto di galleria tradizionale verso un nuovo concetto di produzione”, continua. “Creare un organismo flessibile, aperto, itinerante, che funzioni anche come supporto per gli artisti, per altre gallerie, per i curatori”.
Un luogo di progetto insomma, creatura plastica organizzata per hub e per link. “Da un lato coinvolgeremo spazi in altre città, per eventi out door, dall’altro useremo la galleria come contenitore per iniziative coinvolgenti, interessanti. Penso ad esempio alla possibilità di accogliere per un periodo una giovane galleria newyorchese”, conclude, “diventando la sua base temporanea”. Un po’ incubatore, un po’ casa di produzione, un po’ network dai confini duttili.
E i locali? “Continueremo a muoverci in questa direzione, ma stavolta abbiamo un progetto un po’ diverso. È già definito, aspettiamo solo di trovare lo spazio, o meglio che lo spazio trovi noi, come è sempre è stato…”. Riccardo non nasconde l’entusiasmo, sostenuto da una salda determinazione. “Apriremo un art-hotel. A Roma. Sarà un posto informale, curioso, stimolante, in linea col nostro stile”.
Inutile perdersi in previsioni. Il programma per i prossimi anni è ardito, ma le carte sono tutte in regola. Il segreto di tanto successo? Un frullato di carattere, creatività, intraprendenza. Senza dimenticare il motto chiave del Maze-pensiero: “La nostra filosofia? Take it easy, semplicemente”. Relax e intimità. Quello che ci vuole per sorseggiare un drink, ma anche per godersi un’opera d’arte.
Tra arte contemporanea ed entertainment, il gap si fa sempre più sottile, e i due direttori della galleria torinese Maze sono testimoni esemplari di una significativa evoluzione culturale e di costume. Il concetto di public art si allarga, assume risvolti nuovi. Non solo strade e piazze ma anche hotel, caffetterie, giardini, stazioni, boutique, aeroporti, ospedali: l’arte contemporanea scalpita, scivola fuori dai contesti ad hoc e “contamina” il quotidiano. Un’operazione accurata che non chiede alle opere di adeguarsi ad ambienti impropri, ma che piuttosto riprogetta gli spazi sociali in funzione di eventi e interventi artistici.Intanto, un nuovo modo di fare intrattenimento prende piede. Ed è subito trend: locali con atmosfere intime e casual, design style con personalità, target di nicchia ma non troppo, stimoli creativi e prezzi facili. Bando agli spazi generalisti, dunque, ma anche a quelli patinati. Ecco allora che un ristorante o un cocktail-bar possono trasformarsi in ottimi contenitori per opere di artisti affermati, mantenendo un’atmosfera “easy and cheap”.
Ed è proprio quanto i due bravi galleristi stanno mettendo in pratica da anni, guadagnando straordinari successi. Quello di Conzato e Ronchi è ormai un marchio di fabbrica, la concretizzazione -riuscitissima- di uno stile, di un concept, di una maniera di intendere la cultura del time off.
Ma come vive la gente queste operazioni di sconfinamento? “Reazioni positive, senz’altro. Credo che l’idea di portare l’arte all’interno dei nostri locali sia stata ben recepita, proprio perché ogni spazio viene pensato come un’installazione, come parte di un progetto coerente. Questo fa la differenza”. A parlare è Riccardo Ronchi, intervistato da Exibart: “Non si tratta semplicemente di appendere dei lavori alle pareti. Le opere sono collegate tra loro e con l’ambiente, si cerca di intessere un discorso, di creare situazioni organiche”. Già, la differenza sta proprio qua. Non un fatto di arredo, ma di progetto. Non l’accessorio sexy, ma l’opera come componente attiva di un contesto.
L’avventura inizia nel 1997, con il battesimo della torinese Société Lutèce, in origine il negozio di un gommista. Location centrale ma abbastanza appartata, dentro l’antico ghetto ebraico. Nel nome c’è già un’inconfondibile air de Paris, quel gusto romantico, rétro e un po’ dimesso delle tradizionali brasserie d’oltralpe. Cucina semplice e ricercata e un’ottima carta dei vini, in linea col mood francese del locale. Gli arredi sono semplicissimi, zero griffe e molta creatività. Le luci, per esempio, sono fatte artigianalmente coi tubi di una vecchia grondaia. E poi c’è l’arte contemporanea, fiore all’occhiello della premiata ditta Conzato-Ronchi; pochi pezzi, discreti ma incisivi: una palma di Piero Golia, un multiplo del Puppy di Jeff Koons, una foto di Jessica Matin, disegni di Tere Recarens e Donald Urquhart.
Ma qual è il cuore del progetto Société Lutèce? Ce lo racconta Luca Conzato: “Il concetto che lega i nostri locali è sempre lo stesso. È come realizzare delle case dove ricevere gli amici, per proporgli le cose che ti piacciono, farli stare bene, condividere emozioni… E allora trovi la cucina francese, l’arte, un’atmosfera calda e rilassata”. Gli avventori sono studenti, giornalisti, professionisti, artisti, musicisti. Tra gli habitué c’è anche qualche vip, ma loro, i proprietari, non ci tengono a sbandierarlo: “Mah, qualche volta alla Lutèce ci puoi beccare i Subsonica per esempio, o qualche attore; ma questo accade perché è un luogo appartato, tranquillo, dove non ti rompe la scatole nessuno. È normale che ci passi il personaggio noto, ma non ci si fa caso. Anni fa Silvo Orlando era a Torino per girare un film con Margherita Buy, veniva a mangiare ogni giorno qui e nessuno gli si è mai avvicinato! L’assalto al vip è fuori registro, per fortuna”.
Capita così, a volte, che dei piccoli live set nascano spontaneamente: qualcuno improvvisa agli strumenti, qualcun altro tira fuori i dischi e comincia ad armeggiare sui flight case; le serate decollano con naturalezza, il tempo scivola via euforico e rilassato, come in un party casalingo. Ricetta vincente, che resiste negli anni. Il quindici ottobre scorso la Société Lutèce ha celebrato il suo primo decennale, stesso smalto degli esordi, stessa energia. Una nottata elettrizzante, sul filo dei ricordi e di nuovi entusiasmi. Alla soundtrack della festa hanno contribuito alcuni amici di sempre, da Samuel (Subsonica) e Pisti aka Krakatoa, al dj marocchino Rashid, fino a Paolo Parpaglione dei Blue Beaters.
La fissazione per il binomio arte-movida arriva da lontano, quasi un fatto di karma o di dna. Nei primissimi ‘90 Luca era un giovane art director, impegnato ad animare le notti dello Studio Due di via Nizza, storico locale di Torino ormai scomparso: “Organizzavo serate universitarie per le facoltà di giurisprudenza e architettura, mentre il venerdì lo facevano Mixo e Amendolia, personaggi mitologici della scena rock torinese”. Fragorosi anni di sperimentazioni underground, tra hardcore, crossover, rock, punk, house, acid jazz: “Ricordo concerti dei Fuzztones, Jesus & Mary Chain, Urban Dance Squad, Henry Rollins, Galliano… Il sabato era ‘Pop Planet’ con Alberto Spallacci e Lorenzo LSP… Insomma roba tosta!”. Trapelano note di nostalgico entusiasmo nel balzo amarcord di Luca. L’arte contemporanea, già allora, era un ingrediente strategico. Viaggiando all’indietro Conzato estrapola un frammento affettuoso, sepolto tra quindici anni di memorie: “Allo Studio Due ogni martedì avevo in scaletta una serata/performance, in collaborazione con Guido Carbone e gli artisti della sua galleria. Si chiamava ‘Società per i viaggi nello spazio’”. Il sound delle notti torinesi si lasciava sedurre dal gioco dell’arte, e i nomi erano quelli di Pierluigi Pusole, Monica Carocci, Bruno Zanichelli…
Riccardo invece è un commercialista, che l’arte però l’ha respirata fin da bambino. La madre negli anni ‘70 aveva una piccola e vivace galleria a Santa Margherita Ligure. “Ci sono cresciuto in mezzo all’arte… La galleria era al mare, dove mamma gestiva anche un albergo. Gli artisti venivano ad esporre e si facevano pure la vacanza. Una bella situazione”. Determinanti sono gli anni passati a Londra e Parigi, allora luoghi decisivi per la club culture e le new wave artistiche e musicali. Poi, nel ’94, l’incontro con Luca. È l’inizio di un’amicizia, ma anche l’avvio di una straordinaria scalata professionale.
Torniamo così a quel 1997, anno assai prolifico e non solo per i successi della Lutèce. I due amici-soci fondano l’associazione culturale Maze, che significa “labirinto”. Un nome un destino, viene da pensare, visto il dedalo di attività che i due avrebbero intrapreso da lì a poco, nel segno della contaminazione. È il periodo della gavetta, dell’innamoramento per l’arte contemporanea, dello scouting zelante e cosmopolita: girano per le scuole e le accademie di Spagna, Inghilterra, Germania, Italia. Qua nascono le collaborazioni con Golia e Flavio Favelli per esempio, allora giovani di belle speranze. Il fiuto c’è, la voglia di mettersi in gioco è forte.
Poi, per Luca, l’esperienza in America: “Passo un periodo a New York, dove studio tanto e mi immergo nell’art system che conta. Nyc era il centro del mondo. È al ritorno da quel viaggio che nasce Maze, la nostra Galleria”.
L’ex fabbrica di flipper, in pieno centro storico, diventa una delle gallerie di punta della scena sabauda. I neo-direttori mettono in piedi una scuderia importante, con nomi internazionali di tutto rispetto. Comincia il business dell’arte, mentre arrivano le lodi di pubblico e critica. A questo punto, anziché decidere una volta per tutte cosa fare da grandi, i due rilanciano con convinzione, puntando ancora sul mix arte e mondanità.
Un’ex drogheria torinese degli anni ’40 diventa, nel 2002, la Drogheria: “È il nostro secondo figlio. Qui abbiamo sviluppato una specie di concetto d’appartamento”, spiega Conzato. “Oltre al bar -gestito da tre ragazze, due architetti torinesi e una designer svedese che usano la mansarda come studio- c’è un tavolone conviviale dove si pranza tutti insieme, poi la cucina, un salotto col camino, una sala tv…”. Il principio della home sweet home è perseguito con costanza, immaginando una casa intimamente connessa all’arte. Flavio Favelli ha progettato un’opera-bancone, tra gli arredi ci sono molti pezzi vintage degli anni ‘60 e ‘70 e in giro altre immancabili preziosità: un inquietante specchio di Henrik Plenge Jakobsen, una mappa di Piero Golia, dei disegni su piattini di carta di Juan Céspedes. È questa una delle sedi di Club To Club, Festival Internazionale di Musiche e Arti Elettroniche, mentre a breve partirà un divertente progetto di diretta radio-tv, musica e chiacchiere on air dai locali della Drogheria. Top secret, per il momento, il nome dell’emittente.
Dopo una sfilza di goal messi a segno, una nuova scommessa. Perché non tentare l’approdo capitolino? Nel 2004 apre a Roma la sorella della Société Lutèce, identiche la formula e l’appeal parigino. La situazione qui è più notturna: aperto dall’after hour fino alle due di notte, il locale è vicinissimo a Piazza Navona ma abbastanza imboscato per stare al riparo dal più molesto chiasso mondan-turistico. Atmosfera raccolta, mai troppo ingessata. Qui, tra un lightbox di Daniel Pflumm, un collage di Pablo Vargas Lugo o una fotografia di Giuseppe Pietroniro, si gustano couscous di verdure e salse allo yogurt. Menu light ed esotico, da consumare dentro un’installazione: il bar e l’area aperitivo sono affidati di nuovo a Favelli, mentre gli arredi, un po’ spartani, evocano i classici bistrot francesi, chic ma senza pretese. I clienti? Appena più agé e tranquilli dell’omonimo spazio torinese, sono prevalentemente professionisti, intellettuali. Ma si tratta comunque di target eterogenei, mai troppo esclusivi. “Un punto di forza dei nostri locali è la varietà del pubblico”, ci spiega Luca. “Puoi trovarci il ragazzino coi cani che si beve una birra sul muretto di fronte, ma anche il regista cinquantenne…”. Bando allo snobismo, per carità.
L’esperienza romana si rivela vincente e nel 2005 è la volta di un nuovo opening. A Trastevere, a due passi da piazza Trilussa, dove un tempo c’era un’officina meccanica nasce Freni e Frizioni. L’insegna originale dell’officina è ancora lì, in bella vista sopra il bancone, mischiata ai lampadari e alle specchiere di Favelli, a una bandiera del Brasile di Costa Vece, a una foto del Tupack di Herford di Paolo Chiasera, al poliziotto-terrorista di Scott King e al ritratto di calzini Nike di Piero Golia. I giovani branché, alla moda e un po’ alternativi -molti romani, ma soprattutto stranieri- si affezionano subito all’atmosfera di questo posto affascinante. Freni e Frizioni crea una vera e propria piazza dal nulla, laddove prima c’era uno squallido parcheggio. Anche qui spazio al vintage: il bancone bar è composto in parte dal mobile a cassetti di una farmacia austriaca dell’800, in parte da vecchie librerie dismesse; il solito maxi-tavolo sociale, lungo cinque metri, è rielaborato con luci da biblioteca in ottone, mentre in giro sono sparsi divani anni ’70 e qualche classico pezzo Kartell. Lo stile informale si veste di eleganza, mentre l’arte del riciclo conferisce una nota ricercata. E gli eventi artistici? Pochissimi, tranne qualche eccezione del tutto casuale. Come quando Stefania Galegati propose di organizzare una serata per il progetto Adotta un artista: “Era un’iniziativa divertente, così accettai. Ma di solito evito di mischiare i progetti artistici coi locali, non voglio sovrapposizioni col lavoro della galleria”, puntualizza Conzato. Certo che l’arte, però, resta uno dei punti di forza di questi spazi. “È vero, ma per me inserire delle opere è una cosa naturale, è come se fossi a casa mia, dove metto roba che mi piace; cerco di trasmettere un gusto, una passione; e poi magari c’è la presunzione di rendere l’arte più vicina alla gente, toglierla da un luogo istituzionale come una galleria e farne materia del quotidiano”.
Sono opere di artisti della loro scuderia, ma non solo. “Non usiamo i locali come vetrine per promuovere i nostri artisti”, sottolinea Riccardo. “Il principio è un altro, ossia coltivare la sorpresa, la meraviglia, creare atmosfere. Alcuni lavori sono di artisti che non lavorano con noi, li compriamo perché funzionano nel contesto”.
Al Diamond invece, aperto nel 2006 a Torino, le attività creative sono frequenti. Dopo la mostra/evento A-more e dopo l’Aperfilm (cinema all’ora dell’aperitivo), a ottobre parte un “project restaurant”: “Dalle otto a mezzanotte serviamo il cibo dentro dei bicchieri”, racconta Conzato. “Lo abbiamo chiamato Soul Food, un po’ perché accompagnato da musica dal vivo, un po’ perché il piatto nel bicchiere viene destrutturato, lo vedi a strati, ne scorgi l’anima”. Ed è proprio la musica l’anima di questo locale pre-party, arredato in stile anni ’80 e immerso in atmosfere notturne. “Il Diamond è un club sotterraneo, si sviluppa lungo un corridoio seminterrato di mattoni, con volte molto alte. Erano delle cantine un tempo, ma qualcuno sostiene che prima ci fosse un monastero, poi bombardato durante la seconda Guerra Mondiale. Io direi che assomiglia più a un rifugio antiaereo”. La musica, dicevamo. Negli anni ’70 qua si suonava il jazz dal vivo, regolarmente. E oggi, il Diamond resta fedele a questa tradizione sonora, proponendo una programmazione serrata di live set electro con dj resident e musicisti. Nel buio avvolgente della Dark Room o della Sala Rossa capita poi di inciampare in una foto retroilluminata di Elisa Sighicelli, nelle polaroid di Bianco-Valente, in un autoscatto di Patrick Tuttofuoco alla chitarra o in un Mercedes ring di Piero Golia.
Del 2007 sono gli ultimi due nati di casa Maze. Il ristorante-caffetteria del Mambo di Bologna è un ex-forno del pane, con orari propri e gestione indipendente. Qui campeggiano, tra le altre, una fotografia di Pietroniro del Museo, la foto di un fachiro di Sadrine Nicoletta e una piccola canzone attaccata la muro di Saâdane Afif, opera che ha involontariamente dato il nome al locale: un po’ per gioco, un po’ per caso il Mambo restaurant è divenuto il Bar des Héros. D’obbligo, in una sede come questa, la chicca artistica, il pezzo da novanta. È già pronto, ma non ancora installato, un lavoro della star belga pluripremiata Francis Alÿs. Semplice e multimediale, il progetto ha tutti i numeri per diventare l’attrazione del Mambo caffè: “Una telecamera verrà piazzata in un luogo di lavoro, la cucina per esempio, ma starà dietro un acquario”, spiega Conzato. “Le immagini verranno quindi trasmesse in diretta da un monitor collocato nel locale”. Il risultato? “Sarà come spiare una cucina subacquea dove si aggirano pesci e cuochi…”. Geniale.
E per non farsi mancare nulla, dopo l’esperienza col Museo, ecco il progetto con un importante club sportivo di Torino. L’Esperia nasce nel suggestivo spazio del Circolo Canottieri, in un palazzo storico affacciato sul fiume. Conzato e Ronchi gestiscono il ristorante e il gigantesco salone, affittato per eventi svariati, tipo matrimoni, campagne elettorali, cene aziendali. Il tocco artistico dei due è inconfondibile: “Abbiamo giocato con la tradizione inglese del canottaggio”, racconta Luca, “scegliendo per la sala una carta da parati anni ’30 di William Morris, a cui si lega l’intervento sul bordo della piscina realizzato dal londinese Richard Woods, fedele all’eredità del movimento Art and Crafts”. Monumentale e ironico lo scheletro di balena preistorica di Céspedes, sorta di kit di montaggio in scala uno a uno: quindici metri di fantastico divertissement sul tema del mare e dei suoi misteri. Il design? A tema, tra classico e contemporaneo, senza dimenticare il pallino per il riciclo. Pezzo forte, il bar self-made ottenuto recuperando due vecchie barche.
Ma l’ultima tappa, a sorpresa, è in Francia, antica passione geografica dei due galleristi. Nell’incantevole quartiere parigino del Marais, la gelateria Pozzetto porta la loro inconfondibile firma. Qua si vende la qualità della tradizione dolciaria piemontese, dal gelato, al cioccolato fino al caffé. E l’arte? Immancabile, ça va sens dire. Giochi di contrasto a effetto, per un ambiente raccolto e molto cool. Calpestando il pavimento bianco e nero di Woods, ci si serve al minimalissimo bancone-bar di Favelli, in mezzo ai wall painting colorati di Golia e Olivier Babin.
L’impressione è che la storia non finisca qua. Fenomeno ormai più che rodato, quella dei due galleristi torinesi è una vicenda che continua a sedurre, opening dopo opening. E in effetti qualcosa bolle in pentola, sia sul versante galleria che su quello accoglienza e intrattenimento. Conzato e Ronchi restano due outsider, due che amano il rischio e la sperimentazione. Innanzitutto è Maze a cambiare pelle. “Le gallerie prima degli anni Novanta erano luoghi d’incontro, di scambio, di divertimento. Tutto questo è cambiato con ‘90 concetto di ‘white cube’”, ammette Ronchi. “Ora sono diventate vetrine asettiche, respingenti, vuote, che vivono solo il giorno dell’inaugurazione”. Niente di più vero. E allora? “Vogliamo svoltare il concetto di galleria tradizionale verso un nuovo concetto di produzione”, continua. “Creare un organismo flessibile, aperto, itinerante, che funzioni anche come supporto per gli artisti, per altre gallerie, per i curatori”.
Un luogo di progetto insomma, creatura plastica organizzata per hub e per link. “Da un lato coinvolgeremo spazi in altre città, per eventi out door, dall’altro useremo la galleria come contenitore per iniziative coinvolgenti, interessanti. Penso ad esempio alla possibilità di accogliere per un periodo una giovane galleria newyorchese”, conclude, “diventando la sua base temporanea”. Un po’ incubatore, un po’ casa di produzione, un po’ network dai confini duttili.
E i locali? “Continueremo a muoverci in questa direzione, ma stavolta abbiamo un progetto un po’ diverso. È già definito, aspettiamo solo di trovare lo spazio, o meglio che lo spazio trovi noi, come è sempre è stato…”. Riccardo non nasconde l’entusiasmo, sostenuto da una salda determinazione. “Apriremo un art-hotel. A Roma. Sarà un posto informale, curioso, stimolante, in linea col nostro stile”.
Inutile perdersi in previsioni. Il programma per i prossimi anni è ardito, ma le carte sono tutte in regola. Il segreto di tanto successo? Un frullato di carattere, creatività, intraprendenza. Senza dimenticare il motto chiave del Maze-pensiero: “La nostra filosofia? Take it easy, semplicemente”. Relax e intimità. Quello che ci vuole per sorseggiare un drink, ma anche per godersi un’opera d’arte.
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helga marsala
*articolo pubblicato su Exibart.onpaper n. 44. Te l’eri perso? Abbonati!
[exibart]
Bell’articolo, ma francamente un po’ troppo celebrativo…ad esempio a Torino i pionieri, già negli anni ’80, nel rapporto tra nightclubbing ed arte contemporanea sono stati altri