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18
febbraio 2008
libri_design Capire il design (giunti 2007)
Libri ed editoria
Un po’ manuale, un po’ libro illustrato. Sotto la sapiente regia di Andrea Branzi, un volume che si pone come obiettivo “capire il design”. Una buona introduzione. Per poi partire alla volta di viaggi più esotici. Magari alla ricerca dei funzionoidi...
Si pone su un confine multiplo il volume curato da Andrea Branzi -già in forza ad Archizoom, fondatore della Domus Academy e curatore del Museo del Design alla Triennale di Milano- tra il manuale universitario, il libro illustrato e l’antologia di saggi. Saggi firmati dagli appartenenti al gruppo di ricerca Lab.i.r.int., nato in seno alla Falcotà del Design del Politecnico meneghino, dove insegna lo stesso Branzi.
Resta però saldamente nelle mani di quest’ultimo lo sviluppo della tesi centrale, esposta in particolare nei capitoli di apertura e chiusura, intitolati rispettivamente ed eloquentemente Gli oggetti non sono oggetti e L’eclisse degli oggetti. Secondo Branzi, l’“antologia critica” offerta al lettore sopperisce almeno in parte alla tendenza, insita negli storici del design, a intendere quest’ultimo nella ristretta accezione industrial, con la conseguenza di obliterare tremila anni di storia. Una storia di enorme importanza e interesse, anche e soprattutto perché priva della S maiuscola (il riferimento va agli “Annales” e a “Jack [sic] Le Goff”).
D’altronde, sugli oggetti e sulla loro pelle si è giocata la (analisi della) società contemporanea, dal Sistema degli oggetti di Baudrillard a La forma del futuro di Bruce Sterling. Nella maggior parte dei casi, si è trattato di discorsi elaborati a partire dal design anonimo, al quale il libro dedica un capitolo e sul quale si è soffermato recentemente anche Alberto Bassi. E se Branzi propone l’interessante connessione fra anonimato del disegno e pratica del ready made, fa riflettere pure la strategia adottata da Muji, la catena fondata nel 1980 da Ikko Tanaka e Kazuko Koike, che -seppur per la serie Muji World abbia chiamato designer come Grcic e Jasper Morrison a progettare pezzi d’arredo- tiene fede alla scelta dell’anonimato del progettista del singolo prodotto. Muji si distingue altresì per la riduzione all’osso del packaging, tanto importante per la warholiana Brillo Box quanto, di questi tempi, per la riconoscibilità di un sito internet.
Tornando agli oggetti, Branzi ritiene che fungano da “liquido lubrificante” per una città contemporanea che abbisogna di continue rifunzionalizzazioni interne. “Quella del XXI secolo è dunque complessivamente una società ‘oggettuale’”, dove la strategia architettonica è sostituita dalla tattica del progetto domestico, su scala ridotta e connotato da “un livello endemico di anarchia, di improvvisazione e di approssimazione”. Senza cedere ad alcun campanilismo, va ricordato che tale passaggio epocale è stato magistralmente interpretato e talora anticipato proprio dal design italiano, dalla “grande stagione” capitanata da Sottsass, Zanuso, Bellini, Magistretti e dai fratelli Castiglioni, per passare al design radical degli anni ’60, senza sottovalutare gli interior designer come Mendini, De Lucchi e Novembre.
Il delta in cui sfocia questa nuova configurazione sociale è attraversato non più da oggetti nel senso classico della parola, ma da “funzionoidi” sempre più performanti e, proprio per questo, sempre più opachi nei confronti del fruitore. Parallelamente, al product design si va sostituendo il buzz design, e alla figura classica del designer, sia esso inteso come artigiano o industrial designer, si vanno avvicendando figure tentacolari e sfuggenti. Per usare due icone: da Donald Judd a Philippe Starck.
Branzi non giudica e si espone il meno possibile. Al lettore, e al consumatore, sta il fondamentale passo successivo.
Resta però saldamente nelle mani di quest’ultimo lo sviluppo della tesi centrale, esposta in particolare nei capitoli di apertura e chiusura, intitolati rispettivamente ed eloquentemente Gli oggetti non sono oggetti e L’eclisse degli oggetti. Secondo Branzi, l’“antologia critica” offerta al lettore sopperisce almeno in parte alla tendenza, insita negli storici del design, a intendere quest’ultimo nella ristretta accezione industrial, con la conseguenza di obliterare tremila anni di storia. Una storia di enorme importanza e interesse, anche e soprattutto perché priva della S maiuscola (il riferimento va agli “Annales” e a “Jack [sic] Le Goff”).
D’altronde, sugli oggetti e sulla loro pelle si è giocata la (analisi della) società contemporanea, dal Sistema degli oggetti di Baudrillard a La forma del futuro di Bruce Sterling. Nella maggior parte dei casi, si è trattato di discorsi elaborati a partire dal design anonimo, al quale il libro dedica un capitolo e sul quale si è soffermato recentemente anche Alberto Bassi. E se Branzi propone l’interessante connessione fra anonimato del disegno e pratica del ready made, fa riflettere pure la strategia adottata da Muji, la catena fondata nel 1980 da Ikko Tanaka e Kazuko Koike, che -seppur per la serie Muji World abbia chiamato designer come Grcic e Jasper Morrison a progettare pezzi d’arredo- tiene fede alla scelta dell’anonimato del progettista del singolo prodotto. Muji si distingue altresì per la riduzione all’osso del packaging, tanto importante per la warholiana Brillo Box quanto, di questi tempi, per la riconoscibilità di un sito internet.
Tornando agli oggetti, Branzi ritiene che fungano da “liquido lubrificante” per una città contemporanea che abbisogna di continue rifunzionalizzazioni interne. “Quella del XXI secolo è dunque complessivamente una società ‘oggettuale’”, dove la strategia architettonica è sostituita dalla tattica del progetto domestico, su scala ridotta e connotato da “un livello endemico di anarchia, di improvvisazione e di approssimazione”. Senza cedere ad alcun campanilismo, va ricordato che tale passaggio epocale è stato magistralmente interpretato e talora anticipato proprio dal design italiano, dalla “grande stagione” capitanata da Sottsass, Zanuso, Bellini, Magistretti e dai fratelli Castiglioni, per passare al design radical degli anni ’60, senza sottovalutare gli interior designer come Mendini, De Lucchi e Novembre.
Il delta in cui sfocia questa nuova configurazione sociale è attraversato non più da oggetti nel senso classico della parola, ma da “funzionoidi” sempre più performanti e, proprio per questo, sempre più opachi nei confronti del fruitore. Parallelamente, al product design si va sostituendo il buzz design, e alla figura classica del designer, sia esso inteso come artigiano o industrial designer, si vanno avvicendando figure tentacolari e sfuggenti. Per usare due icone: da Donald Judd a Philippe Starck.
Branzi non giudica e si espone il meno possibile. Al lettore, e al consumatore, sta il fondamentale passo successivo.
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marco enrico giacomelli
*articolo pubblicato su Exibart.onpaper n. 47. Te l’eri perso? Abbonati!
Andrea Branzi (a cura di) – Capire il design
Giunti, Firenze-Milano 2007
Pagg. 288, € 28
ISBN 9788809054974
Info: la scheda dell’editore
[exibart]
Complimenti!
Hai fatto colpo sulla più bella e sensibile tra le tante ..
ma rimane mia
Cara/o l,
sei stata/o un tantino criptica/o…
brutta cosa l’ossessione
e per una dark lady poi,
quasi banale direi
Cara Elisa,
secondo me è l’invidia che parla…
Non è criptato il messaggio,
penso che abbia letto tutti i tuoi articoli..
ti ammira
e non è poco