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13
marzo 2008
architettura_opinioni Spazi d’arte
Architettura
Una cavalcata lungo il crinale che unisce e divide architettura e arte. Cominciando dalla scultura di Eduardo Chillida, passando per la casa-museo e la galleria progettata da John Soane. Per arrivare al prolifico e “stereometrico” David Adjaye...
di Diego Terna
1. IL PORTIERE DELLA REAL SOCIEDAD, L’ARCHITETTO DELLA BANK OF ENGLAND
Lo profundo es el aire (1998). Eduardo Chillida realizza una scultura in pietra granitica che potrebbe essere una maquette di architettura. Esternamente rozza, non lavorata, all’interno levigata, preziosa. Una massa che racchiude spazi di rara potenza. L’architettura insita in questa scultura è un’architettura primaria, fatta di tagli brutali, volumi netti; vi si insinuano ombre dure, paesaggi quasi metafisici. Sono spazi inumani, ma proprio per questo seducenti, di un fascino malinconico.
Chillida ci ha insegnato qual è il debito che l’architettura contemporanea ha nei confronti della scultura: le volumetrie esageratamente pure, geometriche, gli spazi che mozzano il fiato per il loro inumano fascino, la luce dura, che entra senza compromessi all’interno. Le sue sculture ci parlano di una semplicità che non è mai banale e non arriva mai all’insensibilità.
Un discorso meno essenziale, ma più articolato, si attua nelle architetture di John Soane, in particolare nella sua casa-museo, a Lincoln’s Inn Field, e nella Dulwich Picture Gallery, entrambe a Londra.
La casa-museo è un’architettura estrema, l’apice di una ricerca di complessità, che qui si rende visibile con un semplice principio di addizione, che contraddistingue la crescita negli anni del museo e che ha come risultato un’esplosione di spazi, oggetti, forme.
Non esiste riposo a Lincoln’s Inn Field, non esiste un momento di contemplazione; anche gli spazi più intimi della casa, come la stanza della colazione, sono racchiusi da un’architettura parlante che non cessa il suo colloquio con il visitatore.
Gli spazi della casa sono incredibilmente compressi: bassi, bui, quasi claustrofobici. A volte si aprono in improvvisi squarci, con doppie altezze, cupole, lucernari. Eppure si ha sempre la sensazione che queste viste ampie non facciano altro che aggiungere complessità, senza respiro, come nelle visioni piranesiane, nelle quali lo sguardo è sempre interrotto da una somma continua di architetture.
L’esterno della casa non denuncia in alcun modo l’impeto che sconvolge gli spazi interni: dal parco si osserva una tranquilla schiera di case. È un gioco di volumi che sporgono e rientrano a segnalare l’eccezionalità dello spazio, sono sottili modanature degli archi, cambiamenti di materiali nel gioco tra sfondo e primo piano.
La Dulwich Gallery, il cui edificio è stato inaugurato nel 1817, è la prima galleria d’arte pubblica in Inghilterra. In questo caso Soane si è fatto più lieve, meno impetuoso. La galleria è uno spazio di tranquillità assoluta. All’interno i muri sembrano appoggiarsi al terreno quasi temporaneamente, come se da un momento all’altro potessero essere smantellati e poi rimontati in altro luogo. L’esterno, al contrario, si esibisce nelle sue forti murature di mattoni, scandite da archi scavati l’uno nell’altro, a rompere la monotonia delle superfici.
L’unica zona di discontinuità è il tetto piano della galleria, pieno di grandi lucernari, che costruiscono un mondo a se stante nel quale si esibisce all’esterno la levità dell’interno.
Anche in questa specie di oasi, però, è possibile scoprire un luogo di dirompente spazialità: il mausoleo che contiene le tombe dei fondatori della Dulwich.
È un mondo indipendente, a partire dalla luce, che qui entra colorata, arancione, come i vetri che chiudono la lanterna sovrastante. Si entra in un incavo circolare, assolutamente inimmaginabile dall’esterno dove è l’angolo retto a comandare; in una luminosità calda, ma allo stesso tempo limitata, rarefatta, si osservano delle lucide colonne di pietra nera: cingono lo spazio circolare, introducendo l’improvvisa dilatazione che segue, nella quale si scopre la lanterna, e il gioco di luce e colori che sembravano provenire dal nulla.
Le architetture di Soane ci parlano di molteplicità e lo fanno attraverso mezzi e forme limitati: archi a tutto sesto, semplici lucernari, specchi e vetri colorati.
2. INSTALLAZIONI ARCHITETTONICHE E ARCHITETTURE PER L’ARTE
A partire dal 2002, David Adjaye ha iniziato a realizzare una serie di installazioni in parallelo alla costruzione di alcuni spazi per l’arte, tutti inaugurati nel 2007.
The Upper Room, alla Victoria Miro Gallery a Londra, nel 2002, Asymmetric Chamber alla Bohen Foundation a New York e Length x Width x Height a Rivington Place a Londra nel 2004, T-B A21 Art Pavillon sull’isola di Lopud in Croazia e Horizon alla Albion Gallery di Londra nel 2007.
Potrebbero essere viste come declinazioni di uno stesso progetto, un progetto che contempla sempre un percorso ben delimitato, alla fine del quale un’opera d’arte conclude l’esperienza.
Nel padiglione croato, presentato anche alla Biennale di Venezia, e nell’installazione a Rivington Place è possibile riconoscere gli elementi di maggiore interesse.
Il padiglione propone un’esperienza di completo straniamento spaziale, grazie alla costruzione di una grande stanza completamente buia, nella quale è impossibile riconoscere il limite murario. Una sottile linea colorata, Your black horizon, di Olafur Eliasson, taglia il buio all’altezza dell’orizzonte visivo dello spettatore.
L’installazione londinese è ancor più scarna, componendosi di un solo percorso rettilineo, stretto, nel quale musica e voci accompagnano lo spettatore nella sua breve passeggiata.
La riduzione spaziale estrema è la cifra distintiva delle installazioni, il limite a zero dell’architettura, ridotta alle sue tre dimensioni spaziali, la lunghezza, la larghezza e la profondità, che costruiscono il mondo tridimensionale nel quale lo spazio può definirsi. È uno spazio asciutto, agghiacciante e attraente nella sua semplificazione.
Una semplificazione che è possibile osservare anche nelle opere più propriamente architettoniche di Adjaye e che risulta fortemente ricercata, come si evince da un’intervista con Courtney J. Martin (Horizon: between the Real and the Ideal, apparsa su “A+U” del novembre 2007): “In my buildings there is always a four-sided strategy operating so they become pavilion-like, in the sense that they have more than two sides of traditional architecture. In traditional architecture there is a front and a back, and the sides are really thin. My work is always about the idea of four equal sides, not two. There is, then, a certain kind of quality to a building that can be read as pavilion-like, or object-like, or sculptural”.
Un’affermazione di questo tipo rimanda indietro nel tempo, fino ai primi anni del Novecento, con la nascita del cubismo, la rottura della visione prospettica, l’invenzione, o, meglio, la scoperta della quarta dimensione, il tempo, che indica che l’edificio debba essere osservato attraverso il movimento, per poter essere compreso nella sua totalità.
Il movimento implicava ricchezza, significava che a ogni passo l’architettura osservata dovesse cambiare, mutare, essere in un certo modo viva. Decadevano quindi le vecchie definizioni di fronte e retro, ma ampliando all’infinito le possibilità di configurazioni della scatola che racchiudeva lo spazio.
Adjaye attua invece una riduzione di quest’idea a una configurazione volumetrica elementare, perfettamente comprensibile a una semplice occhiata. Tale risulta l’approccio anche nei confronti di edifici che non sono opere d’arte in senso stretto, ma che invece ospitano arte, come la galleria Rivington Place, il centro d’arte Bernie Grant, entrambi a Londra e il nuovo museo di arte contemporanea a Denver.
In tutti questi edifici è possibile notare una forte tendenza alla stereometria, una ricerca verso forme geometriche pure, immediatamente riconoscibili. Il museo di Denver è emblematico: a un volume di vetro che poggia a terra, Adjaye sovrappone un parallelepipedo di legno, a sbalzo. Non sembra che una regola precisa abbia portato il volume in quella posizione, se non un rapporto di equilibri per lo più visivo.
Pare che l’intento dell’architetto sia di sincopare i movimenti, di trasformarli in manovre a scatto, che conducano rapidamente verso punti di vista privilegiati. L’edificio non è più visto come un continuum spaziale e temporale, ma come un oggetto con un numero limitato di scenari, di luoghi nel quale afferrare la sua essenza.
Gli edifici di Adjaye divengono così assolutamente fotogenici, riconoscibili, ma soprattutto appetibili da un punto di vista di marketing. Sembrano cioè costruiti per una nicchia di persone particolarmente interessate a una certa avvenenza architettonica. Il mondo progettato da Adjaye è un mondo da esteta, ritratto da immagini meravigliose, perfette, alle quali non si può togliere o aggiungere nulla. È un mondo costruito con pochissimi elementi, che però lavorano su emozioni statiche, da fotografia. È una bellezza pericolosa, in quanto tende con forza verso quella figura da cui si rifugge, un’architettura composta da un fronte e un retro.
Questa tendenza, però, ci racconta anche la forza con cui Adjaye è emerso negli ultimi anni nel panorama internazionale: la sua architettura appare come una risposta alla complessità del mondo contemporaneo, con gli edifici che divengono rifugi di semplicità quasi ascetica, momenti di rilassamento visivo, nei quali lo spettatore decide di fermarsi e appagare la sguardo.
È quindi abbastanza logico che nel momento in cui molti edifici, e in particolare i musei, cercano di essere i nuovi Guggenheim, di proporsi cioè come oggetti di interesse artistico, alcuni critici (Tom Dyckhoff, David is becoming a Goliath. David Adjaye has come a long way, but his architecture is still evolving, “The Times”, 17 gennaio 2007) ritengano che i musei di Adjaye siano una risposta alla necessità di architetture più sobrie, che funzionino da sfondo neutro alle vere opere artistiche in mostra. Come a dire che, in un mondo di stimoli eccessivi, è necessario che l’architettura si faccia da parte per creare un fondale più silenzioso sul quale la vita può scorrere senza ostacoli.
Lo profundo es el aire (1998). Eduardo Chillida realizza una scultura in pietra granitica che potrebbe essere una maquette di architettura. Esternamente rozza, non lavorata, all’interno levigata, preziosa. Una massa che racchiude spazi di rara potenza. L’architettura insita in questa scultura è un’architettura primaria, fatta di tagli brutali, volumi netti; vi si insinuano ombre dure, paesaggi quasi metafisici. Sono spazi inumani, ma proprio per questo seducenti, di un fascino malinconico.
Chillida ci ha insegnato qual è il debito che l’architettura contemporanea ha nei confronti della scultura: le volumetrie esageratamente pure, geometriche, gli spazi che mozzano il fiato per il loro inumano fascino, la luce dura, che entra senza compromessi all’interno. Le sue sculture ci parlano di una semplicità che non è mai banale e non arriva mai all’insensibilità.
Un discorso meno essenziale, ma più articolato, si attua nelle architetture di John Soane, in particolare nella sua casa-museo, a Lincoln’s Inn Field, e nella Dulwich Picture Gallery, entrambe a Londra.
La casa-museo è un’architettura estrema, l’apice di una ricerca di complessità, che qui si rende visibile con un semplice principio di addizione, che contraddistingue la crescita negli anni del museo e che ha come risultato un’esplosione di spazi, oggetti, forme.
Non esiste riposo a Lincoln’s Inn Field, non esiste un momento di contemplazione; anche gli spazi più intimi della casa, come la stanza della colazione, sono racchiusi da un’architettura parlante che non cessa il suo colloquio con il visitatore.
Gli spazi della casa sono incredibilmente compressi: bassi, bui, quasi claustrofobici. A volte si aprono in improvvisi squarci, con doppie altezze, cupole, lucernari. Eppure si ha sempre la sensazione che queste viste ampie non facciano altro che aggiungere complessità, senza respiro, come nelle visioni piranesiane, nelle quali lo sguardo è sempre interrotto da una somma continua di architetture.
L’esterno della casa non denuncia in alcun modo l’impeto che sconvolge gli spazi interni: dal parco si osserva una tranquilla schiera di case. È un gioco di volumi che sporgono e rientrano a segnalare l’eccezionalità dello spazio, sono sottili modanature degli archi, cambiamenti di materiali nel gioco tra sfondo e primo piano.
La Dulwich Gallery, il cui edificio è stato inaugurato nel 1817, è la prima galleria d’arte pubblica in Inghilterra. In questo caso Soane si è fatto più lieve, meno impetuoso. La galleria è uno spazio di tranquillità assoluta. All’interno i muri sembrano appoggiarsi al terreno quasi temporaneamente, come se da un momento all’altro potessero essere smantellati e poi rimontati in altro luogo. L’esterno, al contrario, si esibisce nelle sue forti murature di mattoni, scandite da archi scavati l’uno nell’altro, a rompere la monotonia delle superfici.
L’unica zona di discontinuità è il tetto piano della galleria, pieno di grandi lucernari, che costruiscono un mondo a se stante nel quale si esibisce all’esterno la levità dell’interno.
Anche in questa specie di oasi, però, è possibile scoprire un luogo di dirompente spazialità: il mausoleo che contiene le tombe dei fondatori della Dulwich.
È un mondo indipendente, a partire dalla luce, che qui entra colorata, arancione, come i vetri che chiudono la lanterna sovrastante. Si entra in un incavo circolare, assolutamente inimmaginabile dall’esterno dove è l’angolo retto a comandare; in una luminosità calda, ma allo stesso tempo limitata, rarefatta, si osservano delle lucide colonne di pietra nera: cingono lo spazio circolare, introducendo l’improvvisa dilatazione che segue, nella quale si scopre la lanterna, e il gioco di luce e colori che sembravano provenire dal nulla.
Le architetture di Soane ci parlano di molteplicità e lo fanno attraverso mezzi e forme limitati: archi a tutto sesto, semplici lucernari, specchi e vetri colorati.
2. INSTALLAZIONI ARCHITETTONICHE E ARCHITETTURE PER L’ARTE
A partire dal 2002, David Adjaye ha iniziato a realizzare una serie di installazioni in parallelo alla costruzione di alcuni spazi per l’arte, tutti inaugurati nel 2007.
The Upper Room, alla Victoria Miro Gallery a Londra, nel 2002, Asymmetric Chamber alla Bohen Foundation a New York e Length x Width x Height a Rivington Place a Londra nel 2004, T-B A21 Art Pavillon sull’isola di Lopud in Croazia e Horizon alla Albion Gallery di Londra nel 2007.
Potrebbero essere viste come declinazioni di uno stesso progetto, un progetto che contempla sempre un percorso ben delimitato, alla fine del quale un’opera d’arte conclude l’esperienza.
Nel padiglione croato, presentato anche alla Biennale di Venezia, e nell’installazione a Rivington Place è possibile riconoscere gli elementi di maggiore interesse.
Il padiglione propone un’esperienza di completo straniamento spaziale, grazie alla costruzione di una grande stanza completamente buia, nella quale è impossibile riconoscere il limite murario. Una sottile linea colorata, Your black horizon, di Olafur Eliasson, taglia il buio all’altezza dell’orizzonte visivo dello spettatore.
L’installazione londinese è ancor più scarna, componendosi di un solo percorso rettilineo, stretto, nel quale musica e voci accompagnano lo spettatore nella sua breve passeggiata.
La riduzione spaziale estrema è la cifra distintiva delle installazioni, il limite a zero dell’architettura, ridotta alle sue tre dimensioni spaziali, la lunghezza, la larghezza e la profondità, che costruiscono il mondo tridimensionale nel quale lo spazio può definirsi. È uno spazio asciutto, agghiacciante e attraente nella sua semplificazione.
Una semplificazione che è possibile osservare anche nelle opere più propriamente architettoniche di Adjaye e che risulta fortemente ricercata, come si evince da un’intervista con Courtney J. Martin (Horizon: between the Real and the Ideal, apparsa su “A+U” del novembre 2007): “In my buildings there is always a four-sided strategy operating so they become pavilion-like, in the sense that they have more than two sides of traditional architecture. In traditional architecture there is a front and a back, and the sides are really thin. My work is always about the idea of four equal sides, not two. There is, then, a certain kind of quality to a building that can be read as pavilion-like, or object-like, or sculptural”.
Un’affermazione di questo tipo rimanda indietro nel tempo, fino ai primi anni del Novecento, con la nascita del cubismo, la rottura della visione prospettica, l’invenzione, o, meglio, la scoperta della quarta dimensione, il tempo, che indica che l’edificio debba essere osservato attraverso il movimento, per poter essere compreso nella sua totalità.
Il movimento implicava ricchezza, significava che a ogni passo l’architettura osservata dovesse cambiare, mutare, essere in un certo modo viva. Decadevano quindi le vecchie definizioni di fronte e retro, ma ampliando all’infinito le possibilità di configurazioni della scatola che racchiudeva lo spazio.
Adjaye attua invece una riduzione di quest’idea a una configurazione volumetrica elementare, perfettamente comprensibile a una semplice occhiata. Tale risulta l’approccio anche nei confronti di edifici che non sono opere d’arte in senso stretto, ma che invece ospitano arte, come la galleria Rivington Place, il centro d’arte Bernie Grant, entrambi a Londra e il nuovo museo di arte contemporanea a Denver.
In tutti questi edifici è possibile notare una forte tendenza alla stereometria, una ricerca verso forme geometriche pure, immediatamente riconoscibili. Il museo di Denver è emblematico: a un volume di vetro che poggia a terra, Adjaye sovrappone un parallelepipedo di legno, a sbalzo. Non sembra che una regola precisa abbia portato il volume in quella posizione, se non un rapporto di equilibri per lo più visivo.
Pare che l’intento dell’architetto sia di sincopare i movimenti, di trasformarli in manovre a scatto, che conducano rapidamente verso punti di vista privilegiati. L’edificio non è più visto come un continuum spaziale e temporale, ma come un oggetto con un numero limitato di scenari, di luoghi nel quale afferrare la sua essenza.
Gli edifici di Adjaye divengono così assolutamente fotogenici, riconoscibili, ma soprattutto appetibili da un punto di vista di marketing. Sembrano cioè costruiti per una nicchia di persone particolarmente interessate a una certa avvenenza architettonica. Il mondo progettato da Adjaye è un mondo da esteta, ritratto da immagini meravigliose, perfette, alle quali non si può togliere o aggiungere nulla. È un mondo costruito con pochissimi elementi, che però lavorano su emozioni statiche, da fotografia. È una bellezza pericolosa, in quanto tende con forza verso quella figura da cui si rifugge, un’architettura composta da un fronte e un retro.
Questa tendenza, però, ci racconta anche la forza con cui Adjaye è emerso negli ultimi anni nel panorama internazionale: la sua architettura appare come una risposta alla complessità del mondo contemporaneo, con gli edifici che divengono rifugi di semplicità quasi ascetica, momenti di rilassamento visivo, nei quali lo spettatore decide di fermarsi e appagare la sguardo.
È quindi abbastanza logico che nel momento in cui molti edifici, e in particolare i musei, cercano di essere i nuovi Guggenheim, di proporsi cioè come oggetti di interesse artistico, alcuni critici (Tom Dyckhoff, David is becoming a Goliath. David Adjaye has come a long way, but his architecture is still evolving, “The Times”, 17 gennaio 2007) ritengano che i musei di Adjaye siano una risposta alla necessità di architetture più sobrie, che funzionino da sfondo neutro alle vere opere artistiche in mostra. Come a dire che, in un mondo di stimoli eccessivi, è necessario che l’architettura si faccia da parte per creare un fondale più silenzioso sul quale la vita può scorrere senza ostacoli.
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