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15
maggio 2008
Chissà cosa si dice a Roma degli artisti scelti per rappresentare Dubai alla Fondazione Volume! Il punto di partenza sembra un po’ viziato, o molto avveniristico. Innanzitutto perché Dubai non esaurisce il piccolo emirato del Golfo, anche se nell’immaginario collettivo si identifica con esso. Ma soprattutto perché, nonostante gli scettici non manchino, ci sono parecchi giovani artisti locali che potrebbero egregiamente rappresentare il Paese.
Invece, sono stati selezionati quattro artisti –Michael Bray, Iman Al Sayed, Sarah Lahti e Amira Mehrez– residenti a Dubai, ma nessuno dei quali dotato di passaporto UAE. Se l’intento era quello di riflettere la variegata società di Dubai, allora sarebbe stato meglio dichiararlo. Anche perché questo stesso presupposto sarà apertamente contraddetto nella seconda parte del progetto, che prevede uno scambio di artisti degli Emirati Arabi (con tanto di passaporto, questa volta) e tedeschi (il titolo scelto per la seconda puntata è Fusion e si terrà in giugno sempre presso il Tashkeel Arts Center).
Ma veniamo ai quattro artisti italiani in mostra a Dubai. La richiesta curatoriale è assai ambiziosa, quanto meno nelle dichiarazioni della co-curatrice Emanuela Nobile Mino, codirettore artistico della Fondazione Volume!. Se l’effetto, la ricaduta dell’arte sul mondo rimane la domanda aperta cui trovare risposta, gli artisti si trovano a dover dialogare con l’ambiente, con il contesto della residenza, con l’obiettivo di portare alla luce nuovi interrogativi piuttosto che proporre risposte puntuali.
La poetica degli artisti italiani è variegata e non sembra facilmente riconducibile a un minimo comun denominatore. Ivan Civic ed Eugenio Percossi optano per una lettura esteriore dello spazio, sottolineando quella caratterizzazione pubblicistica della società che per breve tempo li ha ospitati, apparentemente senza discuterne i fondamenti, senza metterne in questione le premesse, accogliendo il cliché. Più introspettiva, in un tentativo di insinuarsi sotto la pelle della città e di portarne in superficie la linfa, l’opera di Marina Paris annulla le distanze, le differenze, fumigando la realtà e, in tal modo, assolutizzandola. E tuttavia, non sono tanto le analogie a emergere, se ad analogia attribuiamo il senso di affinità, di tratto che avvicina due elementi di comparazione; è piuttosto la mancanza di caratterizzazione che accomuna, la perdita identitaria dello spazio urbano.
Valentino Diego soltanto sembra riuscire a esporre una ferita viva, non anestetizzata, facendo uso di una sottile e quasi impercettibile ironia. La sua installazione simula l’impegno, la finalizzazione della materia, in un gioco di specchi che incanta lo spettatore, disorientandolo. La ricerca di senso scaturisce dalla consapevolezza di essere preda di una macchinazione; se gli oggetti con cui ci rapportiamo quotidianamente hanno un senso, quel senso sembra celato dall’evidenza della loro funzione, e bisogna andare oltre, smantellarne la sequenzialità per scoprirne l’identità nascosta. Forme di spiritismo moderno, elegia della materia.
Invece, sono stati selezionati quattro artisti –Michael Bray, Iman Al Sayed, Sarah Lahti e Amira Mehrez– residenti a Dubai, ma nessuno dei quali dotato di passaporto UAE. Se l’intento era quello di riflettere la variegata società di Dubai, allora sarebbe stato meglio dichiararlo. Anche perché questo stesso presupposto sarà apertamente contraddetto nella seconda parte del progetto, che prevede uno scambio di artisti degli Emirati Arabi (con tanto di passaporto, questa volta) e tedeschi (il titolo scelto per la seconda puntata è Fusion e si terrà in giugno sempre presso il Tashkeel Arts Center).
Ma veniamo ai quattro artisti italiani in mostra a Dubai. La richiesta curatoriale è assai ambiziosa, quanto meno nelle dichiarazioni della co-curatrice Emanuela Nobile Mino, codirettore artistico della Fondazione Volume!. Se l’effetto, la ricaduta dell’arte sul mondo rimane la domanda aperta cui trovare risposta, gli artisti si trovano a dover dialogare con l’ambiente, con il contesto della residenza, con l’obiettivo di portare alla luce nuovi interrogativi piuttosto che proporre risposte puntuali.
La poetica degli artisti italiani è variegata e non sembra facilmente riconducibile a un minimo comun denominatore. Ivan Civic ed Eugenio Percossi optano per una lettura esteriore dello spazio, sottolineando quella caratterizzazione pubblicistica della società che per breve tempo li ha ospitati, apparentemente senza discuterne i fondamenti, senza metterne in questione le premesse, accogliendo il cliché. Più introspettiva, in un tentativo di insinuarsi sotto la pelle della città e di portarne in superficie la linfa, l’opera di Marina Paris annulla le distanze, le differenze, fumigando la realtà e, in tal modo, assolutizzandola. E tuttavia, non sono tanto le analogie a emergere, se ad analogia attribuiamo il senso di affinità, di tratto che avvicina due elementi di comparazione; è piuttosto la mancanza di caratterizzazione che accomuna, la perdita identitaria dello spazio urbano.
Valentino Diego soltanto sembra riuscire a esporre una ferita viva, non anestetizzata, facendo uso di una sottile e quasi impercettibile ironia. La sua installazione simula l’impegno, la finalizzazione della materia, in un gioco di specchi che incanta lo spettatore, disorientandolo. La ricerca di senso scaturisce dalla consapevolezza di essere preda di una macchinazione; se gli oggetti con cui ci rapportiamo quotidianamente hanno un senso, quel senso sembra celato dall’evidenza della loro funzione, e bisogna andare oltre, smantellarne la sequenzialità per scoprirne l’identità nascosta. Forme di spiritismo moderno, elegia della materia.
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SpaceTacular
a cura di Sam Bardaouil e Emanuela Nobile Mino
Tashkeel Arts Center
Nad al Sheba 1 – Dubai
Orario: tutti i giorni ore 10-22
Ingresso libero
Info: tel. +971 43363313; fax +971 43361606; www.tashkeel.org
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