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Subodh Gupta (Khagaul, 1964; vive a New Delhi) è figlio degli anni ’90; la sua generazione tende a fondere arte e vita, arte e realtà esistenziale. Anche per Gupta, l’oggetto quotidiano è oggetto d’esperienza, assimilato, denso di significato. La moltitudine è fatta di singoli oggetti, ed è una scrittura che descrive realtà locali e globali.
Gupta diluisce nei suoi insiemi di “vettovaglie” gli emblemi culturali del suo Paese. È l’India, infatti, il teschio gigante Very Hungry God (2006), apparso in Italia a Palazzo Grassi, simbolo della fame sorda di un Paese vasto come il fondo vuoto d’ogni pentola che lo compone. Ed è ancora un ritratto dell’India la “cascata di pentole”, che non può dissetare, 5 Offering For The Greedy Gods, l’enorme installazione montata sul palco della Galleria Continua, dove un gettito interrotto d’oggetti d’acciaio impilati è posto in un equilibrio tanto perfetto quanto precario e vertiginoso come certe sculture di Nancy Rubins.
La precarietà di Gupta codifica e analizza quella della realtà socio-economica di nazioni colonizzate, ex terzo mondo, spogliate e poi vittime della globalizzazione, che trasforma rapidamente i centri rurali in aree urbane senza adeguare le situazioni umane. “L’80% degli indiani si serve degli utensili da cucina di acciaio inossidabile”, afferma l’artista. “È un materiale paradossale: attira la luce, risplende, e tuttavia rimane profondamente associato alla cultura popolare. Gli utensili nel mio lavoro sono sempre vuoti, pieni solo di se stessi. Ci ricordano che molte persone sono ancora affamate”.
In galleria, luogo, tempi, realtà e oggetto si fondono in There is always cinema (I/X) (2008), in cui l’artista calca le antiche cineprese, i rotoli delle pellicole, le vecchie strumentazioni, i sanitari vetusti dell’ex cinema di paese e ne fa repliche d’ottone, sculture d’archeologia industriale che implicano e complicano le forme riflettenti di Jeff Koons. Gli oggetti di ieri si riappropriano del loro spazio, s’introducono nel sistema odierno e subito diventano merce preziosa: Still steal steel (2008).
I dipinti di Gupta sono invece interessati al movimento nell’accadere: in Untitled (2008), la sagoma in caduta di un utensile plumbeo attraversa l’immobile servizio da the dipinto in dettaglio fotografico sulla tavola. Sono tavoli o meglio banchi quelli di School (2008), sistemati in una porzione della platea della galleria: privi di scolari e avventori, delimitano un vuoto d’apprendimento e celebrazione, temi già affrontati in lavori come The way home (1998-99), l’installazione d’una tavola perfettamente circolare, apparecchiata sul pavimento con stoviglie e pistole, apparsa recentemente nella collettiva indiana all’Hangar Bicocca.
Chiude la mostra, lontano dai riflettori, nel silenzio dello spazio di via castello 17, Bhandarrghar (2007-08), l’intervento ambientale, più sacrale e introspettivo, di un enorme grappolo di giare nere (contenitori d’anime?), sospeso come un alveare con una tessitura di corde e nodi lungo la parete scavata.
Gupta diluisce nei suoi insiemi di “vettovaglie” gli emblemi culturali del suo Paese. È l’India, infatti, il teschio gigante Very Hungry God (2006), apparso in Italia a Palazzo Grassi, simbolo della fame sorda di un Paese vasto come il fondo vuoto d’ogni pentola che lo compone. Ed è ancora un ritratto dell’India la “cascata di pentole”, che non può dissetare, 5 Offering For The Greedy Gods, l’enorme installazione montata sul palco della Galleria Continua, dove un gettito interrotto d’oggetti d’acciaio impilati è posto in un equilibrio tanto perfetto quanto precario e vertiginoso come certe sculture di Nancy Rubins.
La precarietà di Gupta codifica e analizza quella della realtà socio-economica di nazioni colonizzate, ex terzo mondo, spogliate e poi vittime della globalizzazione, che trasforma rapidamente i centri rurali in aree urbane senza adeguare le situazioni umane. “L’80% degli indiani si serve degli utensili da cucina di acciaio inossidabile”, afferma l’artista. “È un materiale paradossale: attira la luce, risplende, e tuttavia rimane profondamente associato alla cultura popolare. Gli utensili nel mio lavoro sono sempre vuoti, pieni solo di se stessi. Ci ricordano che molte persone sono ancora affamate”.
In galleria, luogo, tempi, realtà e oggetto si fondono in There is always cinema (I/X) (2008), in cui l’artista calca le antiche cineprese, i rotoli delle pellicole, le vecchie strumentazioni, i sanitari vetusti dell’ex cinema di paese e ne fa repliche d’ottone, sculture d’archeologia industriale che implicano e complicano le forme riflettenti di Jeff Koons. Gli oggetti di ieri si riappropriano del loro spazio, s’introducono nel sistema odierno e subito diventano merce preziosa: Still steal steel (2008).
I dipinti di Gupta sono invece interessati al movimento nell’accadere: in Untitled (2008), la sagoma in caduta di un utensile plumbeo attraversa l’immobile servizio da the dipinto in dettaglio fotografico sulla tavola. Sono tavoli o meglio banchi quelli di School (2008), sistemati in una porzione della platea della galleria: privi di scolari e avventori, delimitano un vuoto d’apprendimento e celebrazione, temi già affrontati in lavori come The way home (1998-99), l’installazione d’una tavola perfettamente circolare, apparecchiata sul pavimento con stoviglie e pistole, apparsa recentemente nella collettiva indiana all’Hangar Bicocca.
Chiude la mostra, lontano dai riflettori, nel silenzio dello spazio di via castello 17, Bhandarrghar (2007-08), l’intervento ambientale, più sacrale e introspettivo, di un enorme grappolo di giare nere (contenitori d’anime?), sospeso come un alveare con una tessitura di corde e nodi lungo la parete scavata.
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gaia pasi
mostra visitata il 17 maggio 2008
dal 17 maggio al 30 agosto 2008
Subodh Gupta
Galleria Continua
Via del Castello, 11 – 53037 San Gimignano (SI)
Orario: da martedì a sabato ore 14-19
Ingresso libero
Info: tel. +39 0577943134; fax +39 0577940484; info@galleriacontinua.com; www.galleriacontinua.com
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