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Uriel Orlow – Plant Echoes
Laveronica Arte Contemporanea presenta la mostra personale di Uriel Orlow intitolata Plant Echoes. Uno dei temi più significativi affrontati da Uriel Orlow nel suo lavoro è la sfida ai metodi di cancellazione.
Comunicato stampa
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Laveronica Arte Contemporanea è lieta di presentare la mostra personale di Uriel Orlow intitolata Plant Echoes.
Uno dei temi più significativi affrontati da Uriel Orlow nel suo lavoro è la sfida ai metodi di cancellazione.
Sia che analizzi l’eredità lasciata dal colonialismo e dal post-colonialismo in Africa e nel Caucaso o nel Medio Oriente, il silenzioso e meticoloso lavoro multimediale di Orlow ripopola storie ormai dimenticate e restituisce nuovi modi di concepire gli interstizi socio-politici trascurati o eccessivamente mediati nel corso della storia.
In questa mostra, l’interesse di Orlow su come le categorie colonialiste sopprimano la cultura e il senso d’appartenenza indigeni lo ha portato in Sudafrica. Qui ha scoperto che non solo gli inglesi e gli olandesi hanno rinominato le piante locali e hanno tentato di sradicare l’uso tradizionale di erbe medicinali additandolo come pericoloso, ma che hanno anche introdotto 9000 differenti specie di piante esotiche, molte delle quali hanno infestato e soppiantato la flora locale. Il nuovo corpus di opere di Orlow sfrutta le piante come potente lente d’ingrandimento attraverso la quale esplorare le ramificazioni socio-politiche, economiche e spirituali della colonizzazione. Orlow si focalizza sull’importante ruolo giocato dalle erbe medicinali (o muthi) nella cultura sudafricana, visto che il 60% della popolazione locale si rivolge a guaritori che possono scegliere tra più di 3000 specie vegetali. Con le aziende farmaceutiche europee che sfruttano il mercato delle “cure naturali”, si è aperto un nuovo fronte nella gara a chi possiede il diritto di sfruttare ciò che cresce ed è sempre cresciuto dalla terra. In What Plants Were Called Before They Had A Name (opera in corso dal 2015), voci maschili, femminili e collettive recitano i nomi delle piante autoctone in dieci diverse lingue africane, dall’isiZulu e dal SePedi all’isiXhosa e al Khoi, nomi privi di alcun riconoscimento nella tassonomia linneana. «Il linguaggio è legato alla politica» dice Orlow «e la classificazione delle piante può essere considerata una forma di violenza epistemica». In questo senso, il pezzo audio in surround funge da dizionario orale, commovente e riparatore.
Echoes (2017) è una serie di foto di macchie scure lasciate dalla linfa seccata sulla carta protettiva proveniente dagli erbari sudafricani che risalgono all’epoca dell’esplorazione coloniale. Le sagome lasciate dalla linfa non ci dicono nulla dei nomi tradizionali o degli usi che di quelle piante si facevano, piuttosto evidenziano l’imposizione di un sistema di classificazione mono-dimensionale, che era ineguagliabile e venerato come unico obiettivo. È difficile posare la vista su questi fragili residui in netto contrasto con la premurosa delicatezza dei botanici che lavoravano nel mezzo della crudele e selvaggia ferocia dell’apartheid e, prima ancora, del colonialismo.
The Fairest Heritage (2016-17) intercetta in modo caustico una versione della storia. Durante le sue ricerche, Orlow ha scovato una pellicola girata nel 1963 per celebrare il cinquantesimo anniversario del Kistenbosch, il giardino botanico nazionale sudafricano. Soltanto tre anni dopo il massacro di Sharpeville e un anno prima dell’incarcerazione a vita a Robben Island di Mandela, cinquanta botanici provenienti da vari paesi fecero un tour per il Sudafrica, in una sorta di festa in giardino per soli bianchi. Orlow ha invitato quindi un’attrice africana, Lindiwe Matshikiza, a interagire con le immagini, imponendo un’elegante e silenziosa aggiunta al passato, quando il commercio di fiori esotici eludeva il boicottaggio delle merci sudafricane (lo ha eluso fino alla fine degli anni ’80). In questa mostra, Orlow continua a portare avanti e sviluppa la sua sensibile e accurata rielaborazione di storie, rappresentando vecchi documenti riproposti nel contesto di nuove messe in scena, dando voce a quelli che sono stati messi a tacere per ripensare come l’impulso morale possa prendere forza dall’arte.
Uno dei temi più significativi affrontati da Uriel Orlow nel suo lavoro è la sfida ai metodi di cancellazione.
Sia che analizzi l’eredità lasciata dal colonialismo e dal post-colonialismo in Africa e nel Caucaso o nel Medio Oriente, il silenzioso e meticoloso lavoro multimediale di Orlow ripopola storie ormai dimenticate e restituisce nuovi modi di concepire gli interstizi socio-politici trascurati o eccessivamente mediati nel corso della storia.
In questa mostra, l’interesse di Orlow su come le categorie colonialiste sopprimano la cultura e il senso d’appartenenza indigeni lo ha portato in Sudafrica. Qui ha scoperto che non solo gli inglesi e gli olandesi hanno rinominato le piante locali e hanno tentato di sradicare l’uso tradizionale di erbe medicinali additandolo come pericoloso, ma che hanno anche introdotto 9000 differenti specie di piante esotiche, molte delle quali hanno infestato e soppiantato la flora locale. Il nuovo corpus di opere di Orlow sfrutta le piante come potente lente d’ingrandimento attraverso la quale esplorare le ramificazioni socio-politiche, economiche e spirituali della colonizzazione. Orlow si focalizza sull’importante ruolo giocato dalle erbe medicinali (o muthi) nella cultura sudafricana, visto che il 60% della popolazione locale si rivolge a guaritori che possono scegliere tra più di 3000 specie vegetali. Con le aziende farmaceutiche europee che sfruttano il mercato delle “cure naturali”, si è aperto un nuovo fronte nella gara a chi possiede il diritto di sfruttare ciò che cresce ed è sempre cresciuto dalla terra. In What Plants Were Called Before They Had A Name (opera in corso dal 2015), voci maschili, femminili e collettive recitano i nomi delle piante autoctone in dieci diverse lingue africane, dall’isiZulu e dal SePedi all’isiXhosa e al Khoi, nomi privi di alcun riconoscimento nella tassonomia linneana. «Il linguaggio è legato alla politica» dice Orlow «e la classificazione delle piante può essere considerata una forma di violenza epistemica». In questo senso, il pezzo audio in surround funge da dizionario orale, commovente e riparatore.
Echoes (2017) è una serie di foto di macchie scure lasciate dalla linfa seccata sulla carta protettiva proveniente dagli erbari sudafricani che risalgono all’epoca dell’esplorazione coloniale. Le sagome lasciate dalla linfa non ci dicono nulla dei nomi tradizionali o degli usi che di quelle piante si facevano, piuttosto evidenziano l’imposizione di un sistema di classificazione mono-dimensionale, che era ineguagliabile e venerato come unico obiettivo. È difficile posare la vista su questi fragili residui in netto contrasto con la premurosa delicatezza dei botanici che lavoravano nel mezzo della crudele e selvaggia ferocia dell’apartheid e, prima ancora, del colonialismo.
The Fairest Heritage (2016-17) intercetta in modo caustico una versione della storia. Durante le sue ricerche, Orlow ha scovato una pellicola girata nel 1963 per celebrare il cinquantesimo anniversario del Kistenbosch, il giardino botanico nazionale sudafricano. Soltanto tre anni dopo il massacro di Sharpeville e un anno prima dell’incarcerazione a vita a Robben Island di Mandela, cinquanta botanici provenienti da vari paesi fecero un tour per il Sudafrica, in una sorta di festa in giardino per soli bianchi. Orlow ha invitato quindi un’attrice africana, Lindiwe Matshikiza, a interagire con le immagini, imponendo un’elegante e silenziosa aggiunta al passato, quando il commercio di fiori esotici eludeva il boicottaggio delle merci sudafricane (lo ha eluso fino alla fine degli anni ’80). In questa mostra, Orlow continua a portare avanti e sviluppa la sua sensibile e accurata rielaborazione di storie, rappresentando vecchi documenti riproposti nel contesto di nuove messe in scena, dando voce a quelli che sono stati messi a tacere per ripensare come l’impulso morale possa prendere forza dall’arte.
31
marzo 2018
Uriel Orlow – Plant Echoes
Dal 31 marzo al 15 luglio 2018
arte contemporanea
Location
LAVERONICA ARTE CONTEMPORANEA
Modica, Via Clemente Grimaldi, 93, (Ragusa)
Modica, Via Clemente Grimaldi, 93, (Ragusa)
Orario di apertura
da martedì a sabato ore 10-13 e 16-19
Vernissage
31 Marzo 2018, ore 19
Autore