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12
ottobre 2008
fino al 22.III.2009 Italics Venezia, Palazzo Grassi
venezia
Italics, ovvero l’italianità a tutto tondo. Con la sua identità e la sua storia, Italics come concetto esteso. Italici e non italiani, per dar conto di uno scenario complesso e controverso, svincolato dagli stereotipi che ci siamo costruiti addosso nell’età attuale. E per spiegare quel ch’è accaduto nell’arte del nostro Paese negli ultimi quarant’anni...
Mai forse nella storia l’arte italiana ha avuto tanta scarsa considerazione nell’opinione pubblica mondiale. Quantomeno mai come oggi tanti Paesi ci sopravanzano in popolarità.
E allora cosa ha spinto, in una fase congiunturale così negativa, il proprietario di Christie’s a collocare ed esporre la sua ricca collezione a Venezia e oggi ad azzardare una grande mostra enciclopedica sull’arte italiana nel suo Palazzo Grassi? Avventuriero, illuminato o scaltro: quale aggettivo si adatta meglio a Monsieur Pinault? Fatti due conti, non sarebbe peregrino ritenere che il ritardo culturale e strutturale accumulato nel dopoguerra sul fronte della creatività nelle arti visive abbia fatto dell’Italia, nel pieno di quello che è stato definito il nuovo Rinascimento globale, una sorta di zona de-contemporaneizzata nel cuore dell’occidente industrializzato.
Dice bene Gabriella Belli (direttrice del Mart di Trento) del ritardo con cui va disegnandosi oggi la nostra geografia museale. Ritardo che è soprattutto nella diffusione di una cultura della contemporaneità che, dalle istituzioni al pubblico di massa, di fatto è ancora assente o almeno confusa. Questo fa del nostro Paese un territorio franco e di conquista, scarsamente competitivo e concorrenziale, bisognoso di punti di riferimento autorevoli. Avesse stabilito il suo avamposto a Londra, a New York o financo in Svizzera, François Pinault sarebbe stato uno fra tanti: impensabile ipotizzare una leadership culturale che qui, al contrario, è ancora possibile.
Così, dopo averci indicato la retta via (Where are we going?), dopo aver mostrato i muscoli con un grande evento nazionalpopolare su Picasso e a seguire la mostra sulla conquista da parte dei Barbari dell’Impero romano in disfacimento (sinistramente allusivo), ecco le Roi Soleil sventolare il vessillo dell’arte nazionale italica, nella città che l’aveva esiliata dalla sua Biennale. Il vernissage di Italics è stato l’apoteosi della retorica, con quel clima da ancien régime, tutti i piccoli e litigiosi feudatari del mercato italiano schierati, vecchi e giovani, finalmente riuniti e pacificati a corte. Indifferenti alle prevedibili levate di scudi dell’esterno.
È questo il contesto in cui si apre la mostra dedicata all’arte italiana degli ultimi quarant’anni curata da Francesco Bonami, che idealmente riparte da dove si era fermato Germano Celant con Italian Metamorphosis 1943-1968 presentata al Guggenheim nel ’94.
Qualcuno dirà che è stato Sgarbi (con Maurizio Sciaccaluga) a raccogliere il testimone per primo, con il progetto milanese Arte italiana 1968-2007. Ma se quella di Palazzo Reale è stata la mostra della resistenza ostinata, quella di Palazzo Grassi è l’evento delle responsabilità: responsabilità assunta dal curatore Francesco Bonami nelle scelte discusse, responsabilità del sistema italiano (pubblico e privato) per non aver saputo imporre i propri artisti sul piano internazionale, responsabilità del sistema internazionale per aver sottovalutato un tessuto culturale così articolato e vivace, nonostante tutto.
Messa da parte la sterile conta di chi c’è ma non doveva esserci e viceversa, Bonami è comunque riuscito a mettere in piedi un evento difficilmente ripetibile. Per farlo, ha dovuto apparentarsi con un mecenate straniero. E se il progetto sarà esportato, merito sarà dello stesso Bonami, che ha aperto le porte del MoCA di Chicago, ovvero il posto di lavoro che si è conquistato con le proprie forze all’estero.
106 artisti per oltre 250 opere, tante e forse troppe (in una sola delle sale del Palazzo, non proprio ampie, può capitare di contare venti pezzi e più), l’allestimento non è perfetto e la regola non cronologica indulge in un formalismo esasperato che rischia di diventare banale (qui le opere geometriche, là la sala con i lavori ispirati alla geografia, e poi i pezzi instabili, quelli colorati, le dominanti monocrome ecc.). L’illuminazione talvolta è difettosa o non centrata, la disposizione a tratti claustrofobica penalizza alcuni lavori. Insomma, i punti deboli non mancano. Ma ci sono anche molti lavori di grande qualità e si riscattano nomi ingiustamente trascurati (come Emilio Prini, Nanni Balestrini, Tano Festa e la fotografia degli anni ’70).
No, non ci credo. Non credo a Bonami quando afferma che questa è solo la sua visione dell’arte degli ultimi quarant’anni, nonostante l’ostinazione di alcune scelte personali bizzarre: di Ferroni, Annigoni, Ariatti, Clerici hanno detto tutti ma anche de Chirico e Vedova nella loro fase decadente appaiono poco coerenti, così come Fontana, che nel ’68 notizia la fa per la sua morte. Credo invece che il pedaggio sia stato pagato fino in fondo, al sistema milanese giù giù fino al fiorente mercato minore che alimenta un collezionismo provinciale arroccato su posizioni reazionarie.
Ma chi potrebbe negare che questa sia esattamente la fotografia della composita scena artistica italiana, che ora cerca di allinearsi alla maniera internazionale, ora premia il riverberarsi del proprio passato, salvo rialzare la testa quando meno te lo aspetti? Sarà un caso ma dallo Spazialismo all’Arte Povera, dalla Transavanguardia fino a Cattelan e Beecroft sembra quasi che l’Italia riscuota la sua quota parte a cadenze pressoché regolari nel mercato internazionale, come se questo non potesse fare a meno, in fondo, del suo pizzico d’italianità. Un’anomalia che invece rivela una tipicità italiana, quella di sedersi sugli allori, lasciandosi portare da un’onda lunga e sicura, fino a che questa non si sia esaurita fino all’ultima goccia e anche più. Una pigrizia e un’insicurezza di fondo che lasciano spazio a una reazione solo quando questa diventa improcrastinabile, pena l’affondamento.
La mostra non è perfetta (ma quale mostra lo è?). Eppure ciascuno dei visitatori vi troverà, chi più chi meno, qualcosa da condividere. Persino l’eccessiva quantità di opere (quasi nessuna, eccetto forse le salme di Cattelan, può esser vista senza averne nel campo visivo un’altra o più) restituisce un senso da cabinet de curiosités da esplorare. Alla ricerca della sorpresa nascosta.
Sullo sfondo del progetto aleggia costante il clima conflittuale e sociale degli anni ’70, che ha prodotto dibattiti positivi ma anche violenze e scontri. Se ne rintracciano i prodromi negli artisti che li anticipano, si riverberano negli artisti della generazione successiva. Una specie di fil rouge che è la vera ossatura critica della mostra. È un punto di vista generazionale (la generazione di Bonami, appunto) assolutamente coerente ma anche ristretto e vincolante. Che finisce per includere anche le figure minori di questo contesto e mettere fuorigioco, per contro, tutto ciò che non appare aderente.
Insomma, pur nelle sua controverse manifestazioni, nonostante il fallimento conclamato, a dispetto del funerale già celebrato, gli anni ’70 rappresentano ancora un luogo critico rassicurante, che consente di affrontare senza troppe ansie intellettuali quest’epoca di “fine corsa” (per dirla alla Barilli). La cosa, ben inteso, non è una fissazione di Bonami, che invece anche su questo aspetto descrive perfettamente il biglietto da visita che tutto il sistema italico interfacciato sul fronte internazionale si ostina a rieditare.
Questa pratica di tendere come un elastico gli anni ’70 porta con sé almeno due ordini di rischio: da un lato quello di strappare l’elastico finendo per disancorare la ricerca artistica dalla realtà (poi non ci si lamenti se la cultura contemporanea finisce per risultare incomprensibile ed ermetica ai più), dall’altro di relegare in un cono d’ombra tutto ciò che da questo vincolo tenta (o ha tentato) di liberarsi, sfondando in avanti o sottraendosi all’indietro, esplorando le nuove vie della comunicazione aperte dalla tecnologia o assumendo atteggiamenti riflessivi, di ritorno sui propri passi per tentare lo scavallamento di slancio.
E allora cosa ha spinto, in una fase congiunturale così negativa, il proprietario di Christie’s a collocare ed esporre la sua ricca collezione a Venezia e oggi ad azzardare una grande mostra enciclopedica sull’arte italiana nel suo Palazzo Grassi? Avventuriero, illuminato o scaltro: quale aggettivo si adatta meglio a Monsieur Pinault? Fatti due conti, non sarebbe peregrino ritenere che il ritardo culturale e strutturale accumulato nel dopoguerra sul fronte della creatività nelle arti visive abbia fatto dell’Italia, nel pieno di quello che è stato definito il nuovo Rinascimento globale, una sorta di zona de-contemporaneizzata nel cuore dell’occidente industrializzato.
Dice bene Gabriella Belli (direttrice del Mart di Trento) del ritardo con cui va disegnandosi oggi la nostra geografia museale. Ritardo che è soprattutto nella diffusione di una cultura della contemporaneità che, dalle istituzioni al pubblico di massa, di fatto è ancora assente o almeno confusa. Questo fa del nostro Paese un territorio franco e di conquista, scarsamente competitivo e concorrenziale, bisognoso di punti di riferimento autorevoli. Avesse stabilito il suo avamposto a Londra, a New York o financo in Svizzera, François Pinault sarebbe stato uno fra tanti: impensabile ipotizzare una leadership culturale che qui, al contrario, è ancora possibile.
Così, dopo averci indicato la retta via (Where are we going?), dopo aver mostrato i muscoli con un grande evento nazionalpopolare su Picasso e a seguire la mostra sulla conquista da parte dei Barbari dell’Impero romano in disfacimento (sinistramente allusivo), ecco le Roi Soleil sventolare il vessillo dell’arte nazionale italica, nella città che l’aveva esiliata dalla sua Biennale. Il vernissage di Italics è stato l’apoteosi della retorica, con quel clima da ancien régime, tutti i piccoli e litigiosi feudatari del mercato italiano schierati, vecchi e giovani, finalmente riuniti e pacificati a corte. Indifferenti alle prevedibili levate di scudi dell’esterno.
È questo il contesto in cui si apre la mostra dedicata all’arte italiana degli ultimi quarant’anni curata da Francesco Bonami, che idealmente riparte da dove si era fermato Germano Celant con Italian Metamorphosis 1943-1968 presentata al Guggenheim nel ’94.
Qualcuno dirà che è stato Sgarbi (con Maurizio Sciaccaluga) a raccogliere il testimone per primo, con il progetto milanese Arte italiana 1968-2007. Ma se quella di Palazzo Reale è stata la mostra della resistenza ostinata, quella di Palazzo Grassi è l’evento delle responsabilità: responsabilità assunta dal curatore Francesco Bonami nelle scelte discusse, responsabilità del sistema italiano (pubblico e privato) per non aver saputo imporre i propri artisti sul piano internazionale, responsabilità del sistema internazionale per aver sottovalutato un tessuto culturale così articolato e vivace, nonostante tutto.
Messa da parte la sterile conta di chi c’è ma non doveva esserci e viceversa, Bonami è comunque riuscito a mettere in piedi un evento difficilmente ripetibile. Per farlo, ha dovuto apparentarsi con un mecenate straniero. E se il progetto sarà esportato, merito sarà dello stesso Bonami, che ha aperto le porte del MoCA di Chicago, ovvero il posto di lavoro che si è conquistato con le proprie forze all’estero.
106 artisti per oltre 250 opere, tante e forse troppe (in una sola delle sale del Palazzo, non proprio ampie, può capitare di contare venti pezzi e più), l’allestimento non è perfetto e la regola non cronologica indulge in un formalismo esasperato che rischia di diventare banale (qui le opere geometriche, là la sala con i lavori ispirati alla geografia, e poi i pezzi instabili, quelli colorati, le dominanti monocrome ecc.). L’illuminazione talvolta è difettosa o non centrata, la disposizione a tratti claustrofobica penalizza alcuni lavori. Insomma, i punti deboli non mancano. Ma ci sono anche molti lavori di grande qualità e si riscattano nomi ingiustamente trascurati (come Emilio Prini, Nanni Balestrini, Tano Festa e la fotografia degli anni ’70).
No, non ci credo. Non credo a Bonami quando afferma che questa è solo la sua visione dell’arte degli ultimi quarant’anni, nonostante l’ostinazione di alcune scelte personali bizzarre: di Ferroni, Annigoni, Ariatti, Clerici hanno detto tutti ma anche de Chirico e Vedova nella loro fase decadente appaiono poco coerenti, così come Fontana, che nel ’68 notizia la fa per la sua morte. Credo invece che il pedaggio sia stato pagato fino in fondo, al sistema milanese giù giù fino al fiorente mercato minore che alimenta un collezionismo provinciale arroccato su posizioni reazionarie.
Ma chi potrebbe negare che questa sia esattamente la fotografia della composita scena artistica italiana, che ora cerca di allinearsi alla maniera internazionale, ora premia il riverberarsi del proprio passato, salvo rialzare la testa quando meno te lo aspetti? Sarà un caso ma dallo Spazialismo all’Arte Povera, dalla Transavanguardia fino a Cattelan e Beecroft sembra quasi che l’Italia riscuota la sua quota parte a cadenze pressoché regolari nel mercato internazionale, come se questo non potesse fare a meno, in fondo, del suo pizzico d’italianità. Un’anomalia che invece rivela una tipicità italiana, quella di sedersi sugli allori, lasciandosi portare da un’onda lunga e sicura, fino a che questa non si sia esaurita fino all’ultima goccia e anche più. Una pigrizia e un’insicurezza di fondo che lasciano spazio a una reazione solo quando questa diventa improcrastinabile, pena l’affondamento.
La mostra non è perfetta (ma quale mostra lo è?). Eppure ciascuno dei visitatori vi troverà, chi più chi meno, qualcosa da condividere. Persino l’eccessiva quantità di opere (quasi nessuna, eccetto forse le salme di Cattelan, può esser vista senza averne nel campo visivo un’altra o più) restituisce un senso da cabinet de curiosités da esplorare. Alla ricerca della sorpresa nascosta.
Sullo sfondo del progetto aleggia costante il clima conflittuale e sociale degli anni ’70, che ha prodotto dibattiti positivi ma anche violenze e scontri. Se ne rintracciano i prodromi negli artisti che li anticipano, si riverberano negli artisti della generazione successiva. Una specie di fil rouge che è la vera ossatura critica della mostra. È un punto di vista generazionale (la generazione di Bonami, appunto) assolutamente coerente ma anche ristretto e vincolante. Che finisce per includere anche le figure minori di questo contesto e mettere fuorigioco, per contro, tutto ciò che non appare aderente.
Insomma, pur nelle sua controverse manifestazioni, nonostante il fallimento conclamato, a dispetto del funerale già celebrato, gli anni ’70 rappresentano ancora un luogo critico rassicurante, che consente di affrontare senza troppe ansie intellettuali quest’epoca di “fine corsa” (per dirla alla Barilli). La cosa, ben inteso, non è una fissazione di Bonami, che invece anche su questo aspetto descrive perfettamente il biglietto da visita che tutto il sistema italico interfacciato sul fronte internazionale si ostina a rieditare.
Questa pratica di tendere come un elastico gli anni ’70 porta con sé almeno due ordini di rischio: da un lato quello di strappare l’elastico finendo per disancorare la ricerca artistica dalla realtà (poi non ci si lamenti se la cultura contemporanea finisce per risultare incomprensibile ed ermetica ai più), dall’altro di relegare in un cono d’ombra tutto ciò che da questo vincolo tenta (o ha tentato) di liberarsi, sfondando in avanti o sottraendosi all’indietro, esplorando le nuove vie della comunicazione aperte dalla tecnologia o assumendo atteggiamenti riflessivi, di ritorno sui propri passi per tentare lo scavallamento di slancio.
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mostra visitata il 25 settembre 2008
dal 26 settembre 2008 al 22 marzo 2009
Italics. Arte italiana fra tradizione e rivoluzione 1968-2008
a cura di Francesco Bonami
Palazzo Grassi
Salizada San Samuele 3231 – 30124 Venezia
Orario: da mercoledì a lunedì ore 10-19 (ultimo ingresso ore 18); chiuso il 24, 25, 31 dicembre 2008 e il 1° gennaio 2009
Ingresso: intero € 10; ridotto € 8
Catalogo Electa, € 39
Info: tel. +39 0415231680; fax +39 0415286218; www.palazzograssi.it
[exibart]
Intervista a Bi, curatore di “Italo-disco-70” al Palazzone.
S: Come è nata l’idea della mostra?
Bi: Dalla mia passione per gli anni Settanta: lotta di popolo, assemblee, revolution-revolution. Io li ho visti nei film e le assicuro che sono stati una rivelazione. Allora gli italiani sapevano quello che volevano, invece oggi come oggi questo paese è un frullato che non sa di niente, tanto fumo e niente canne. Nei Settanta c’era un groove…50 euro.
S: Scatto alla risposta?
Bi?: Sì. 50 euro.
S: Accidenti! Beh, senta, tra i giovani mi pare ci siano tante idee già viste,
c’è chi impacca la casa come un Christo con la fregola, chi moltiplica le porte di Duchamp in un armadio IKEA, quell’altro cita Bacon facendo il pendolare tra Modica e Milano…forse per trovare il nuovo bisognava cercare in un’altra direzione, non tra i bisnipotini dei famosi bisnonni, fuori dalle strade già segnate, no?
Bi: No, ho scelto quelli giusti. Lei sbaglia a chiamarli copioni, è una questione di groove, e il miglior groove resta quello degli anni Settanta, faceva ballare la pista. Si ricorda le Sister Sledge? E Boninsegna? Eroi intramontabili. L’artista di cui lei parla non fa pacchi col fiocco, il suo video è come un raptus, una sveltina. Mi piaceva com’è pettinato. Sembra uno degli anni Settanta. Allora l’ho messo in pista, in mostra. 50 euro
A: Mi ha colpito la stanzetta piena zeppa dei lavori di quel signore che ha l’hobby dell’arte. Dove l’ha scovato?
Bi: Volevo esporre Melotti, ma era già prenotato da altri, allora ho cercato in giro un Melotti2 e ho trovato questo qui. 50 euro
A: Che mi dice di quell’installazione fatta di legnetti e pezzi di cartoncino, sulla quale sono inciampato (non mi ricordo se al primo o al secondo piano)?
Bi: Veda, quando mi sono trasferito in USA in cerca di fortuna con la valigia di cartone e i quadri di cartone come tutti gli italo-disco-emigranti, ho incontrato a Ellis Island un sacco di amici artisti. Ragazzi poveri, simpatici straccioni (com’ero anch’io) che si arrangiavano, cercavano di sfangarsela. Facevano installazioni da quattro soldi usando materiali di recupero. Creazioni che solo il critico, con la sua PAROLA può legittimare come opere d’arte nel sistema. M’interessa la PAROLA del critico come atto di redenzione. E’ così che si fa il groove. E se parlo di groove mi viene da ballare, già scodinzolo, mi si muove la coda, vorrei fare un can-can. Chiamiamo anche l’Oleg K? 50 euro.
A: La mostra si apre e si chiude con la stessa immagine. Corpi stecchiti spiaccicati sul bel pavimento marmoreo del Palazzone. Perché?
Bi: La sua domanda ne sottintende, in realtà, due. Una intelligente e una scema. Alla seconda rispondo subito. Mi piacciono i contrasti. Adoro mettere i cadaveri nel museo, fotografare un atto rivoluzionario, potenzialmente sovversivo, ma presentarlo chiuso in bacheca, mummificato, morente. Funziona per far ballare la pista.
Alla prima non rispondo. Lasciamola morire così, con un lenzuolino bianco sopra (50 euro).
A:Sì ma….
Bi: 50 euro.
A: ..
Bi: 50 euro
Grazie alla redazione di Exibart per aver proposto, nel numero di dicembre, la mia intervista a Bi! Segnalo a tutti i vosti lettori un nuovo progetto, le SCENE DALLA BOH!HEMM..: canovaccio un po’ Bohème, un po’ Commedia Dell’Arte-contemporanea. la prima parte la trovate nel mio blog Cri-tic-ah!
D. Scarpa Kos