Create an account
Welcome! Register for an account
La password verrà inviata via email.
Recupero della password
Recupera la tua password
La password verrà inviata via email.
-
- container colonna1
- Categorie
- #iorestoacasa
- Agenda
- Archeologia
- Architettura
- Arte antica
- Arte contemporanea
- Arte moderna
- Arti performative
- Attualità
- Bandi e concorsi
- Beni culturali
- Cinema
- Contest
- Danza
- Design
- Diritto
- Eventi
- Fiere e manifestazioni
- Film e serie tv
- Formazione
- Fotografia
- Libri ed editoria
- Mercato
- MIC Ministero della Cultura
- Moda
- Musei
- Musica
- Opening
- Personaggi
- Politica e opinioni
- Street Art
- Teatro
- Viaggi
- Categorie
- container colonna2
- container colonna1
Aurelio Amendola – Dell’arte e degli artefici
La mostra ripercorre in sintesi la lunga carriera di Aurelio Amendola, fotografo d’arte e degli artisti. E’ l’arte che dialoga, l’arte che parla di arte, connubio indissolubile tra testimonianza e creatività.
Comunicato stampa
Segnala l'evento
In poche occasioni, anzi mai, riusciamo ad entrare contemporaneamente negli studi d'arte dei più grandi artisti contemporanei. Aurelio Amendola ci permette di farlo, quasi furtivamente, con i suoi occhi di artista fotografo. E li vediamo, Vedova, Marino Marini, Andy Warhol, Carla Accardi, Giorgio De Chirico, Burri e tanti altri mentre lavorano o mentre passeggiano o ancora mentre compiaciuti del loro lavoro ci guardano davanti alle loro ultime creazioni. Uno spaccato di storia nella storia dell'arte contemporanea.
Dell’arte e degli artefici
Siliano Simoncini
Aurelio Amendola, fotografo riconosciuto tra i più importanti a livello internazionale, ha iniziato l’indagine sull’arte e i suoi artefici nel 1966, quando conobbe lo storico dell’arte Gianlorenzo Mellini e lo scultore concittadino Marino Marini. Grazie all’esortazione del primo, realizzò l’esemplare studio sui risultati plastici ed espressivi, prodotti dalla luce naturale che illumina il pulpito di Giovanni Pisano nella chiesa di Sant’Andrea a Pistoia. Con Marino, in virtù di un’empatia che s’instaurò subito tra i due, prese vita la sua prima esperienza del “confronto/sfida” tra fotografo e artista. Il successo degli esiti fu tale che per i meriti di quella mirabile nascita, Aurelio è diventato il fotografo che ha immortalato i maggiori artisti della nostra epoca.
Ugualmente, dopo aver celebrato l’arte del trecento, ha portato all’eccellenza l’approfondimento “scientifico/poetico” della luce sulle opere del Rinascimento di Iacopo della Quercia, Donatello, Michelangelo. Del Buonarroti ha realizzato un’esemplare testimonianza - “dell’anima” direi - fotografando, con uno studio della luce del tutto innovativo, le celebri sculture presenti nella cappella medicea in San Lorenzo a Firenze, così da esaltarne i volumi plastici e l’enigmaticità sovrumana del Giorno, della Notte, del Crepuscolo e dell’Aurora. Di Donato di Niccolò di Betto Bardi, Amendola si è confrontato con i due pulpiti - della Passione e della Resurrezione, anch’essi presenti in San Lorenzo - riuscendo a restituire la “realistica” intensità espressiva dei personaggi, peculiare dello scultore ormai settantenne, in maniera del tutto interpretativa seppure altamente professionale e, al contempo, - supportando la nuova interpretazione critica - partecipare, con il suo magnifico libro Donatello in San Lorenzo uscito nel 1995, alla rivalutazione di un’opera considerata secondaria per gli apporti dei collaboratori. Dello scultore senese invece ha restituito, del Monumento funebre di Ilaria del Carretto presente nel Duomo di Lucca, un “resoconto” visivo di elegante leggerezza, al punto che l’illuminazione scelta di volta in volta, sembra trasformare il marmo in opalescente alabastro e così, suggerire l’emanazione di energie metafisiche provenienti dalla bellissima figura di giovinetta. Un esempio di come si possa interpretare l’atto creativo di uno scultore, senza alterarne minimamente le caratteristiche.
Da quel lontano 1966 Amendola ha percorso da protagonista l’impervio tragitto di chi sa fissare nell’immagine fotografica e con un linguaggio indipendente, il passaggio dall’anonimo al rilevante, dando così vita a delle vere e proprie icone del mondo dell’arte e degli artisti: il suo ambito d’ispirazione privilegiato.
Ben cinquantuno anni di attività! Una carriera professionale creativa, che lo pone nel paradigma dei fotografi che maggiormente hanno dato testimonianza dei frutti del nostro tempo, nel bene e nel male e Aurelio, per vocazione, si è fatto interprete del prodotto della bellezza ma non per questo, il suo lavoro - ideologicamente - è meno significativo di quello di un collega che invece ha fotografato la guerra, le condizioni sociali drammatiche, l’istantaneità delle manifestazioni, la quotidianità e via dicendo.
Testimoniare della bellezza, concettualmente, è un’aspirazione umana imprescindibile e fotografare quella presente nell’arte quanto coloro che la realizzano, a mio avviso, rientra proprio in quell’ottica ideologica.
Adesso è necessario fare una distinzione - non un confronto - tra il lavoro di Amendola e quello di Ugo Mulas. Come ben sappiamo quest’ultimo, dagli inizi degli anni ’60, precisamente con la mostra Sculture in città, inizia il suo reportage dedicato alla scena artistica italiana e internazionale, culminata, dopo aver visitato la Biennale del 1964 (che vide il trionfo della Pop Art) con l’exploit della pubblicazione New York: arte e persone, 1967, frutto del lavoro fatto negli Stati Uniti fotografando i protagonisti del movimento. Grazie a questo libro, sicuramente il più noto dei suoi, ottenne un successo clamoroso e di prestigio internazionale. Tutti conoscono l’importanza del contributo di Mulas, la sua duttilità nell’affrontare temi diversi e, negli anni della malattia che lo condusse alla morte, gli esiti imprevedibili del suo sperimentalismo fotografico: mi riferisco all’opera Omaggio a Niepce. Ebbene il mondo culturale che Amendola ha frequentato è stato più “intimo”: infatti, mentre Mulas frequentava il “mitico” Bar Jamaica, l’entourage milanese del regista Strehler e osservava gli esiti della Dolce vita come conseguenza dell’industrializzazione, Aurelio invece, vivendo in provincia ha vissuto, come dicevo, un entourage meno eclatante ma fondato sui valori profondi dell’amicizia, del desiderio di “farsi strada” riscattando condizioni sociali modeste e più, vivendo le esperienze di vita senza paludamenti di sorta, in maniera schietta e spontanea. Chi lo conosce e lo apprezza, è proprio perché gli riconosce queste qualità umane. Che cosa intendo dire e provare con ciò: l’ambiente contribuisce a “costruire” un personale modo di guardare il mondo e la società, in conseguenza, quando si cerchi di rappresentarne la sostanza, il “nocciolo”, con la fotografia o altro linguaggio tecnico, gli esiti non possono essere che diversi, seppure in sintonia. In poche parole: Ugo Mulas ha un approccio creativo da intellettuale, mentre il nostro, attinge di più alla spontaneità “irrazionale”.
Prima di illustrare le opere di Amendola presenti in mostra alla Galleria del Leoncino, ho ritenuto necessario anteporre le precedenti considerazioni per puntualizzare come il risultato delle due poetiche fotografiche, abbiano condotto a interpretazioni del mondo artistico, ognuna singolare, ma non sovrapponibile.
1968, Jorio Vivarelli -
Dopo l’esperienza del Pulpito di Sant’Andrea e le numerose fotografie scattate a Marino Marini, oggi tra le più diffuse del suo repertorio, per tutte basti pensare al personaggio sulla spiaggia insieme al cavallo, Aurelio inizia a rapportarsi con altri artisti e tra i primi non poteva che essere l’amico scultore e concittadino Jorio Vivarelli. Di questa immagine, nel canonico bianco e nero, attrae il fumigare della cera che al calore della fiaccola si espande dal modello, mentre Jorio è intento alla difficile esecuzione del ritocco. La fluidità formale dei vari livelli e la luce che cadenza i piani illuminando l’artista, alla stregua di quella “miracolosa” presente nelle incisioni di Rembrandt, restituiscono l’immagine di una fonderia come luogo di Vulcano, un mondo altro dove si creano manufatti per gli dei. Con questa fotografia, Aurelio ha già espresso quale sarà il futuro della sua poetica: realtà, simbolo, evocazione.
1976, Alberto Burri -
Con Alberto Burri, Aurelio ebbe un rapporto di amicizia particolare: stima e affetto reciproci, certo non mancarono tanto che l’artista gli concesse il privilegio di fotografarlo mentre realizzava le sue famose Combustioni plastiche. Pensate, l’esecuzione di opere come queste, in cui il tempo disponibile per fermare l’azione del fuoco è brevissima, richiede una tale concentrazione che l’artista non deve avere alcuna distrazione o disturbo; la presenza di Aurelio fu sicuramente “felpata” e quasi assente, altrimenti gli esiti dell’opera non sarebbero stati quelli voluti. Il divenire della magia, dovuta al rincorrersi della fiamma e il suo essere spenta mentre sta creando la “forma” sul diaframma trasparente, non poteva che essere fissata in una sequenza e infatti la foto in mostra è uno dei momenti. La luce tenue e diffusa predisposta opportunamente per l’occasione, rende evidente il materiale con le sue increspature riflettenti, quanto l’apparizione dell’artefice; luce necessaria che non configge con quella dovuta al fuoco il quale è in “attesa” che la mano di Burri ne arresti l’avanzata. Quante difficoltà sono richieste per fissare un attimo così importante! Aurelio le ha superate tutte.
1977, Roy Lichtenstein -
La qualità più evidente della fotografia è la struttura della configurazione; infatti, a un’osservazione attenta possiamo notare come la postura dell’artista risulti parallela all’andamento del soffitto e alla collocazione del quadro. Questo fa sì che si venga a creare un vettore direzionale, in fuga verso sinistra; intuizione felice di un taglio fotografico capace di “trasportarci” fuori dall’istante. Lo spazio/tempo, assente nell’opera di Lichtenstein - fissa nella rappresentazione iconica che esalta il momento ripetitivo della comunicazione consumistica - è suggerito con efficacia dal vettore visivo, forzato intenzionalmente per farci vivere in modo dinamico il momento dell’azione.
1984, Carla Accardi -
Davvero singolare ma efficace, che Aurelio abbia fotografato l’artista mentre ci osserva dal soppalco della sua camera. Ma a pensarci bene, così ci ha restituito l’immagine femminile, deliziosa e sorridente, di un’amichevole accoglienza nel privato quotidiano; in tal modo, l’Accardi ci appare come una di “famiglia” e soltanto il dipinto a capoletto ci informa della sua attività. La luce naturale pervade l’ambiente e l’insieme suggerisce un’atmosfera da “giorno di festa”, sereno e felice; non c’è nessuna convenzionalità formale lei è libera nel suo spazio e altrettanto lo siamo noi nell’ammirarla. Chi sa cogliere questi attimi, come segni vitali - quanto vitale è la pittura segnica dell’artista - della nostra presenza nel mondo, può dirsi davvero un poeta della fotografia.
1998, Basilica di San Pietro -
Da dove veniamo, chi siamo, dove andiamo? Parafrasando il titolo dell’opera di Paul Gauguin, trovandoci di fronte a questa “idealizzazione” della parte presbiterale della Basilica di San Pietro, non possiamo che rimanere sconcertati. Aurelio è stato capace di esprimere, con questa immagine, il senso più misterioso e profondo della religione cattolica, sollecitando al contempo stupore e timore in chi si trovi di fronte a un’ambientazione simbolica di tal genere, perché nessuno può rimanere indenne dal chiedersi, all’istante, in cosa consista il senso dell’esistenza.
1999, Luigi Mainolfi Donna di Leonardo, Montemarcello
La ruota del tempo che si ripete, i cirri mossi da vento che veloci viaggiano nel cielo, la donna nuda - misura dell’ordine estetico contemporaneo o capro espiatorio? - che mima la posizione dell’Uomo vitruviano di Leonardo, la natura rigogliosa intorno…..una combinazione scenica allestita da Luigi Mainolfi e che Aurelio ha interpretato come un evento “primordiale”. A guardare l’immagine, sembra che il tutto sia fissato per noi come una taumaturgica catarsi e la fotografia ne decanta l’asprezza del sacrificio. Gli umani sono pronti a questo? La risposta dell’oggi è drammatica.
2004, Aurora, Michelangelo -
Il significato che L’Aurora sia l’icona del nuovo che sta nascendo è più che implicito nell’opera del magistrale scultore e Aurelio, grazie a una felice scelta dell’illuminazione, ne ha colto proprio il momento della “perennità”, quando la luce del primo mattino, quasi indugiando, rischiara la forma della figura allegorica carezzandone la perfetta bellezza. Questa prova, segnala il valore autentico del linguaggio di Amendola e ne sublima l’espressività della poetica.
2012, Hermann Nitsch -
Chi conosce l’opera di questo interprete del dramma vissuto dai “capri espiatori” e della mostruosa malvagità umana, potrà comprendere al meglio l’assoluto espresso dall’immagine. La macchina fotografica è stata posta al centro così da presentare una prospettiva unidirezionale e ciò, intende obbligarci a guardare in quel fondo centrale dove tutto finisce nella vertigine di un flusso inarrestabile. L’artista sta compiendo un rito sacrificale ed è come uno sciamano che scaccia il male, con lo stesso “sangue” che i malefici spargono. Amendola ha interpretato tutto questo, vivendo l’azione come il neofita che assiste a un culto orgiastico e ne tramanda il disagio procurato dalle forti emozioni.
2013, Mario Ceroli
Il soggetto della farfalla è un tema che Ceroli ha intrapreso nella seconda metà degli anni ’60 a partire da quelle del 1966, concepite come macchine dalle ali pieghevoli, realizzate durante il suo soggiorno a New York. A più riprese l’artista, affezionato a questo simbolo dell’anima, ha prodotto vari esempi e non soltanto con le assi di legno di abete - suo “ marchio di fabbrica” - ma anche in materiali diversi. L’immagine proposta da Aurelio, fissa l’attimo di una perfomance “privata”; ovvero, l’azione dell’artista predisposta esclusivamente per il fotografo. Questo rivela la sintonia instaurata tra i due, come il segno di un’identità affettiva che ha consentito a entrambi di potersi esprimere in piena libertà. Sulla spiaggia di Fregene, mentre il sole sta tramontando, con il punto di vista tenuto a metà altezza del soggetto e il passaggio graduale dalla lucentezza al buio, in maniera tale da accentuare il momento di passaggio vissuto in quell’ora, Aurelio con questa fotografia ha creato una sorta di “dolmen figurato” per indicare sì del nostro vivere transitorio ma, al contempo, ricordarci come l’arte resista al tempo.
Pistoia, ottobre 2017
Dell’arte e degli artefici
Siliano Simoncini
Aurelio Amendola, fotografo riconosciuto tra i più importanti a livello internazionale, ha iniziato l’indagine sull’arte e i suoi artefici nel 1966, quando conobbe lo storico dell’arte Gianlorenzo Mellini e lo scultore concittadino Marino Marini. Grazie all’esortazione del primo, realizzò l’esemplare studio sui risultati plastici ed espressivi, prodotti dalla luce naturale che illumina il pulpito di Giovanni Pisano nella chiesa di Sant’Andrea a Pistoia. Con Marino, in virtù di un’empatia che s’instaurò subito tra i due, prese vita la sua prima esperienza del “confronto/sfida” tra fotografo e artista. Il successo degli esiti fu tale che per i meriti di quella mirabile nascita, Aurelio è diventato il fotografo che ha immortalato i maggiori artisti della nostra epoca.
Ugualmente, dopo aver celebrato l’arte del trecento, ha portato all’eccellenza l’approfondimento “scientifico/poetico” della luce sulle opere del Rinascimento di Iacopo della Quercia, Donatello, Michelangelo. Del Buonarroti ha realizzato un’esemplare testimonianza - “dell’anima” direi - fotografando, con uno studio della luce del tutto innovativo, le celebri sculture presenti nella cappella medicea in San Lorenzo a Firenze, così da esaltarne i volumi plastici e l’enigmaticità sovrumana del Giorno, della Notte, del Crepuscolo e dell’Aurora. Di Donato di Niccolò di Betto Bardi, Amendola si è confrontato con i due pulpiti - della Passione e della Resurrezione, anch’essi presenti in San Lorenzo - riuscendo a restituire la “realistica” intensità espressiva dei personaggi, peculiare dello scultore ormai settantenne, in maniera del tutto interpretativa seppure altamente professionale e, al contempo, - supportando la nuova interpretazione critica - partecipare, con il suo magnifico libro Donatello in San Lorenzo uscito nel 1995, alla rivalutazione di un’opera considerata secondaria per gli apporti dei collaboratori. Dello scultore senese invece ha restituito, del Monumento funebre di Ilaria del Carretto presente nel Duomo di Lucca, un “resoconto” visivo di elegante leggerezza, al punto che l’illuminazione scelta di volta in volta, sembra trasformare il marmo in opalescente alabastro e così, suggerire l’emanazione di energie metafisiche provenienti dalla bellissima figura di giovinetta. Un esempio di come si possa interpretare l’atto creativo di uno scultore, senza alterarne minimamente le caratteristiche.
Da quel lontano 1966 Amendola ha percorso da protagonista l’impervio tragitto di chi sa fissare nell’immagine fotografica e con un linguaggio indipendente, il passaggio dall’anonimo al rilevante, dando così vita a delle vere e proprie icone del mondo dell’arte e degli artisti: il suo ambito d’ispirazione privilegiato.
Ben cinquantuno anni di attività! Una carriera professionale creativa, che lo pone nel paradigma dei fotografi che maggiormente hanno dato testimonianza dei frutti del nostro tempo, nel bene e nel male e Aurelio, per vocazione, si è fatto interprete del prodotto della bellezza ma non per questo, il suo lavoro - ideologicamente - è meno significativo di quello di un collega che invece ha fotografato la guerra, le condizioni sociali drammatiche, l’istantaneità delle manifestazioni, la quotidianità e via dicendo.
Testimoniare della bellezza, concettualmente, è un’aspirazione umana imprescindibile e fotografare quella presente nell’arte quanto coloro che la realizzano, a mio avviso, rientra proprio in quell’ottica ideologica.
Adesso è necessario fare una distinzione - non un confronto - tra il lavoro di Amendola e quello di Ugo Mulas. Come ben sappiamo quest’ultimo, dagli inizi degli anni ’60, precisamente con la mostra Sculture in città, inizia il suo reportage dedicato alla scena artistica italiana e internazionale, culminata, dopo aver visitato la Biennale del 1964 (che vide il trionfo della Pop Art) con l’exploit della pubblicazione New York: arte e persone, 1967, frutto del lavoro fatto negli Stati Uniti fotografando i protagonisti del movimento. Grazie a questo libro, sicuramente il più noto dei suoi, ottenne un successo clamoroso e di prestigio internazionale. Tutti conoscono l’importanza del contributo di Mulas, la sua duttilità nell’affrontare temi diversi e, negli anni della malattia che lo condusse alla morte, gli esiti imprevedibili del suo sperimentalismo fotografico: mi riferisco all’opera Omaggio a Niepce. Ebbene il mondo culturale che Amendola ha frequentato è stato più “intimo”: infatti, mentre Mulas frequentava il “mitico” Bar Jamaica, l’entourage milanese del regista Strehler e osservava gli esiti della Dolce vita come conseguenza dell’industrializzazione, Aurelio invece, vivendo in provincia ha vissuto, come dicevo, un entourage meno eclatante ma fondato sui valori profondi dell’amicizia, del desiderio di “farsi strada” riscattando condizioni sociali modeste e più, vivendo le esperienze di vita senza paludamenti di sorta, in maniera schietta e spontanea. Chi lo conosce e lo apprezza, è proprio perché gli riconosce queste qualità umane. Che cosa intendo dire e provare con ciò: l’ambiente contribuisce a “costruire” un personale modo di guardare il mondo e la società, in conseguenza, quando si cerchi di rappresentarne la sostanza, il “nocciolo”, con la fotografia o altro linguaggio tecnico, gli esiti non possono essere che diversi, seppure in sintonia. In poche parole: Ugo Mulas ha un approccio creativo da intellettuale, mentre il nostro, attinge di più alla spontaneità “irrazionale”.
Prima di illustrare le opere di Amendola presenti in mostra alla Galleria del Leoncino, ho ritenuto necessario anteporre le precedenti considerazioni per puntualizzare come il risultato delle due poetiche fotografiche, abbiano condotto a interpretazioni del mondo artistico, ognuna singolare, ma non sovrapponibile.
1968, Jorio Vivarelli -
Dopo l’esperienza del Pulpito di Sant’Andrea e le numerose fotografie scattate a Marino Marini, oggi tra le più diffuse del suo repertorio, per tutte basti pensare al personaggio sulla spiaggia insieme al cavallo, Aurelio inizia a rapportarsi con altri artisti e tra i primi non poteva che essere l’amico scultore e concittadino Jorio Vivarelli. Di questa immagine, nel canonico bianco e nero, attrae il fumigare della cera che al calore della fiaccola si espande dal modello, mentre Jorio è intento alla difficile esecuzione del ritocco. La fluidità formale dei vari livelli e la luce che cadenza i piani illuminando l’artista, alla stregua di quella “miracolosa” presente nelle incisioni di Rembrandt, restituiscono l’immagine di una fonderia come luogo di Vulcano, un mondo altro dove si creano manufatti per gli dei. Con questa fotografia, Aurelio ha già espresso quale sarà il futuro della sua poetica: realtà, simbolo, evocazione.
1976, Alberto Burri -
Con Alberto Burri, Aurelio ebbe un rapporto di amicizia particolare: stima e affetto reciproci, certo non mancarono tanto che l’artista gli concesse il privilegio di fotografarlo mentre realizzava le sue famose Combustioni plastiche. Pensate, l’esecuzione di opere come queste, in cui il tempo disponibile per fermare l’azione del fuoco è brevissima, richiede una tale concentrazione che l’artista non deve avere alcuna distrazione o disturbo; la presenza di Aurelio fu sicuramente “felpata” e quasi assente, altrimenti gli esiti dell’opera non sarebbero stati quelli voluti. Il divenire della magia, dovuta al rincorrersi della fiamma e il suo essere spenta mentre sta creando la “forma” sul diaframma trasparente, non poteva che essere fissata in una sequenza e infatti la foto in mostra è uno dei momenti. La luce tenue e diffusa predisposta opportunamente per l’occasione, rende evidente il materiale con le sue increspature riflettenti, quanto l’apparizione dell’artefice; luce necessaria che non configge con quella dovuta al fuoco il quale è in “attesa” che la mano di Burri ne arresti l’avanzata. Quante difficoltà sono richieste per fissare un attimo così importante! Aurelio le ha superate tutte.
1977, Roy Lichtenstein -
La qualità più evidente della fotografia è la struttura della configurazione; infatti, a un’osservazione attenta possiamo notare come la postura dell’artista risulti parallela all’andamento del soffitto e alla collocazione del quadro. Questo fa sì che si venga a creare un vettore direzionale, in fuga verso sinistra; intuizione felice di un taglio fotografico capace di “trasportarci” fuori dall’istante. Lo spazio/tempo, assente nell’opera di Lichtenstein - fissa nella rappresentazione iconica che esalta il momento ripetitivo della comunicazione consumistica - è suggerito con efficacia dal vettore visivo, forzato intenzionalmente per farci vivere in modo dinamico il momento dell’azione.
1984, Carla Accardi -
Davvero singolare ma efficace, che Aurelio abbia fotografato l’artista mentre ci osserva dal soppalco della sua camera. Ma a pensarci bene, così ci ha restituito l’immagine femminile, deliziosa e sorridente, di un’amichevole accoglienza nel privato quotidiano; in tal modo, l’Accardi ci appare come una di “famiglia” e soltanto il dipinto a capoletto ci informa della sua attività. La luce naturale pervade l’ambiente e l’insieme suggerisce un’atmosfera da “giorno di festa”, sereno e felice; non c’è nessuna convenzionalità formale lei è libera nel suo spazio e altrettanto lo siamo noi nell’ammirarla. Chi sa cogliere questi attimi, come segni vitali - quanto vitale è la pittura segnica dell’artista - della nostra presenza nel mondo, può dirsi davvero un poeta della fotografia.
1998, Basilica di San Pietro -
Da dove veniamo, chi siamo, dove andiamo? Parafrasando il titolo dell’opera di Paul Gauguin, trovandoci di fronte a questa “idealizzazione” della parte presbiterale della Basilica di San Pietro, non possiamo che rimanere sconcertati. Aurelio è stato capace di esprimere, con questa immagine, il senso più misterioso e profondo della religione cattolica, sollecitando al contempo stupore e timore in chi si trovi di fronte a un’ambientazione simbolica di tal genere, perché nessuno può rimanere indenne dal chiedersi, all’istante, in cosa consista il senso dell’esistenza.
1999, Luigi Mainolfi Donna di Leonardo, Montemarcello
La ruota del tempo che si ripete, i cirri mossi da vento che veloci viaggiano nel cielo, la donna nuda - misura dell’ordine estetico contemporaneo o capro espiatorio? - che mima la posizione dell’Uomo vitruviano di Leonardo, la natura rigogliosa intorno…..una combinazione scenica allestita da Luigi Mainolfi e che Aurelio ha interpretato come un evento “primordiale”. A guardare l’immagine, sembra che il tutto sia fissato per noi come una taumaturgica catarsi e la fotografia ne decanta l’asprezza del sacrificio. Gli umani sono pronti a questo? La risposta dell’oggi è drammatica.
2004, Aurora, Michelangelo -
Il significato che L’Aurora sia l’icona del nuovo che sta nascendo è più che implicito nell’opera del magistrale scultore e Aurelio, grazie a una felice scelta dell’illuminazione, ne ha colto proprio il momento della “perennità”, quando la luce del primo mattino, quasi indugiando, rischiara la forma della figura allegorica carezzandone la perfetta bellezza. Questa prova, segnala il valore autentico del linguaggio di Amendola e ne sublima l’espressività della poetica.
2012, Hermann Nitsch -
Chi conosce l’opera di questo interprete del dramma vissuto dai “capri espiatori” e della mostruosa malvagità umana, potrà comprendere al meglio l’assoluto espresso dall’immagine. La macchina fotografica è stata posta al centro così da presentare una prospettiva unidirezionale e ciò, intende obbligarci a guardare in quel fondo centrale dove tutto finisce nella vertigine di un flusso inarrestabile. L’artista sta compiendo un rito sacrificale ed è come uno sciamano che scaccia il male, con lo stesso “sangue” che i malefici spargono. Amendola ha interpretato tutto questo, vivendo l’azione come il neofita che assiste a un culto orgiastico e ne tramanda il disagio procurato dalle forti emozioni.
2013, Mario Ceroli
Il soggetto della farfalla è un tema che Ceroli ha intrapreso nella seconda metà degli anni ’60 a partire da quelle del 1966, concepite come macchine dalle ali pieghevoli, realizzate durante il suo soggiorno a New York. A più riprese l’artista, affezionato a questo simbolo dell’anima, ha prodotto vari esempi e non soltanto con le assi di legno di abete - suo “ marchio di fabbrica” - ma anche in materiali diversi. L’immagine proposta da Aurelio, fissa l’attimo di una perfomance “privata”; ovvero, l’azione dell’artista predisposta esclusivamente per il fotografo. Questo rivela la sintonia instaurata tra i due, come il segno di un’identità affettiva che ha consentito a entrambi di potersi esprimere in piena libertà. Sulla spiaggia di Fregene, mentre il sole sta tramontando, con il punto di vista tenuto a metà altezza del soggetto e il passaggio graduale dalla lucentezza al buio, in maniera tale da accentuare il momento di passaggio vissuto in quell’ora, Aurelio con questa fotografia ha creato una sorta di “dolmen figurato” per indicare sì del nostro vivere transitorio ma, al contempo, ricordarci come l’arte resista al tempo.
Pistoia, ottobre 2017
08
ottobre 2017
Aurelio Amendola – Dell’arte e degli artefici
Dall'otto al 28 ottobre 2017
fotografia
Location
GALLERIA DEL LEONCINO
Pistoia, Via Della Madonna, 45, (Pistoia)
Pistoia, Via Della Madonna, 45, (Pistoia)
Orario di apertura
dal mercoledì al sabato ore 16.30-19
Vernissage
8 Ottobre 2017, h 17.00
Autore
Curatore