10 dicembre 2008

BONAMI, ITALICS VISTA DA ME

 
La sera del 13 novembre, la Fondazione Guastalla di Roma ha invitato Francesco Bonami a una conversazione con Ludovico Pratesi sulla mostra Italics. Davanti a una platea di critici, galleristi, curatori, collezionisti e artisti, Bonami ha raccontato la genesi della mostra. Che qui proponiamo in esclusiva per i lettori di Exibart...

di

Come mai hai la tua mostra è stata realizzata in un’istituzione privata come Palazzo Grassi?
La mostra era stata pensata inizialmente per il museo d’arte contemporanea di Chicago. Poi Palazzo Grassi mi ha chiesto di portarla anche a Venezia. Così si è sviluppato il progetto. Ho lavorato due anni a Italics.

Ti aspettavi che suscitasse tutte queste polemiche?
Francamente no. Quando ho elaborato il progetto non pensavo alle polemiche. Quando sono scoppiate, mesi prima dell’inaugurazione, mi sono divertito.

L’hai pensata così fin dall’inizio?
No, all’inizio avevo in mente una mostra con 50-60 artisti, poi la lista si è allargata e siamo arrivati a più di cento.

Sei partito da un’idea di mostra cronologica, legata agli ultimi quarant’anni, e poi sei arrivato agli artisti?
Avevo una lista iniziale, poi l’ho stravolta completamente…
Francesco Vezzoli - An embroidered Trilogy - 1997-99 - videoinstallazione - 12’ - courtesy Francesco Vezzoli & Galleria Giò Marconi, Milano
Che metodo hai utilizzato?

Ho tentato di guardare le cose da punti di vista diversi dal solito. Della Transavanguardia, per esempio, m’interessava mostrare solo il periodo iniziale, non il gruppo. Altrimenti avrei inserito altri artisti. Cucchi, Chia, Clemente hanno avuto subito, fin dal loro periodo formativo, un dialogo a livello internazionale.

Hai scelto opere specifiche, spesso lavori piccoli ma intensi e preziosi. Sono rare le opere di grande formato. È una scelta o una necessità?
Una scelta. Sono opere da studiare, che esigono una lettura attenta, che suscitano una riflessione. Di Boetti, ad esempio, non ci sono le mappe. Per me erano più interessanti altre cose. Le mappe non avrebbero aggiunto niente di nuovo. Era una scelta prevedibile.

Chi ti ha aiutato per i prestiti?
Sai come succede in Italia… Mi sono aiutato da solo, attraverso conoscenze e relazioni personali.

Flavio Favelli - Palco-Buffet - 2007 - piastrelle di pavimento, pulpito di chiesa, legno di radica - cm 180x120x120 - courtesy Galleria Maze, TorinoHai creato delle sale tematiche, che suggeriscono allo spettatore una lettura delle opere, senza per questo imporla…
Sì, ci sono delle sale tematiche. A volte è stata un’esigenza dettata dagli spazi. C’è la sala politica con opere di Guttuso, Pascali, Clemente, Barruchello, Nespolo, Schifano ecc. È una sala costruita attorno alle opere. C’è anche una sala tutta con opere fatte da donne.

Hai agito in maniera aperta o per esclusioni?
Assolutamente in maniera aperta. Non volevo escludere nessuno. Anche per Paladino ho cercato un lavoro perché lo volevo inserire in mostra, ma non l’ho trovato. Ho operato una sorta di auto-contenimento, escludendo tante persone, ma come sai è un’esigenza di noi curatori. Non possiamo inserire in una mostra tutti quelli che ce lo chiedono.

Queste esclusioni le hai fatte sulle opere?
Sì, come nel caso di Kounellis. Ho cercato di non farmi sviare dalla mia antipatia verso di lui. Ho trovato infatti un lavoro molto bello, Le scarpette d’oro, di una collezione privata. Lui non ha voluto essere in mostra con quell’opera. Per evitare che bloccassero la mostra, ho rinunciato a esporla. Questa mostra non è una guerra tra Kounellis e me.

Dalla mostra esce un ritratto dell’Italia piuttosto impietoso: è questo quello che volevi?
No. Ho cercato di recuperare artisti che, per un momento, hanno vissuto la celebrità e poi l’hanno persa. Una sorta di occasione mancata. È molto triste vedere gente contenta per quest’evento e allo stesso tempo sapere che ormai è troppo tardi. Ma non è un ritratto negativo. Secondo me ne esce un quadro dell’Italia come un Paese ricco di fermenti e creatività. Se avessi voluto fare la stessa mostra con artisti francesi o americani non sarei riuscito a trovare cento artisti.

È una mostra storica e un po’ no. Mi sembra che hai messo i giovani di fronte agli altri…
No, per me no. Per la mia lettura personale, ognuno è al suo posto.

C’è un momento in cui hai pensato alle conseguenze?
Mai.
Patrick Tuttofuoco - Walkaround - 2002 - 10 grattacieli, tecnica mista - dimensioni variabili - courtesy My Private, Milano - photo Santi Caleca
In America la lettura delle cose è profondamente diversa. Hai concepito questa mostra con un taglio bifocale?

Secondo me, in America prendono le cose con più entusiasmo. Vedono il lato positivo delle cose. Mentre in Italia ci massacriamo sempre tra di noi.

Sii sincero: pensavi veramente che la mostra fosse accolta così?
No davvero!

Eppure, quando hai presentato la mostra a Milano sei mesi prima dell’inaugurazione hai fatto delle considerazioni molto forti sull’arte italiana…
Non credo. Il problema è che in Italia si guarda ai nomi degli artisti e non alle loro opere. Il nome obnubila tutto.

Quando hai presentato la mostra ai giornalisti hai detto che bisognava confrontarsi con i giovani. Come mai?
Ho sempre lavorato così. È interessante dare credito ai giovani. Rischiando che ti possano fare le scarpe, come sta accadendo! È interessante vedere anche come i giovani guardano al passato. Cecilia Alemani, la mia giovane cocuratrice, ha trovato l’Autoritratto di Annigoni presente in mostra molto bello. Lo ha scelto lei.

Michelangelo Pistoletto - The Cubic Meter of Infinity in a Mirroring Cube - 1966/2007 - specchi, luci al neon, gesso - cm 300x300 - courtesy Galleria Continua, San Gimignano-Beijing-Le Moulin - photo Santi CalecaCome ti sei confrontato con Achille Bonito Oliva e Germano Celant?
In nessuna maniera! Con Celant è possibile avere un rapporto, uno scambio. Con Achille no. Hanno due caratteri completamente diversi. Hanno fatto danni diversi all’Italia. A loro non interessa un dialogo.

Gli artisti che hai esposto li sostieni?
Non li ho scelti perché li sostengo. Li ho scelti perché funzionavano. Nella collezione della Fondazione Guastalla c’è un artista che avrei messo volentieri in mostra, Grazia Toderi, ma purtroppo non ho trovato un lavoro adatto. Non ci sono artisti più o meno importanti nella mostra, ma opere. E la lettura delle opere dipende dalla sensibilità di ognuno.

Nella tua mostra ci sono poche concessioni al pubblico. È una mostra un po’ difficile per il pubblico generico…
Non l’ho pensato. Non ho voluto mostrare qualcosa di spettacolare per il grande pubblico. Un De Dominicis piccolo secondo me vale molto più del suo grande scheletro.

La tua Biennale era molto sperimentale. Questa è una mostra molto pensata, da grande curatore. O sbaglio?
Il lavoro dell’artista è secondo me la cosa più importante, non il suo nome. Molti artisti non si sono contestualizzati. Durante il boom economico, l’Italia non li ha appoggiati. Per cui il collezionismo ha supplito a questa mancanza, ma allo stesso tempo li ha bloccati. Quando il mercato non è a livello internazionale, per l’artista rappresenta un blocco. Soddisfa solo una parte della sua identità. Questo vale anche per la Transavanguardia. Se pensiamo a Jasper Johns, ha prodotto pochissimo ma alcune opere sono davvero molto belle e quelle brutte costano comunque tantissimo. Gli artisti italiani hanno fatto una super-produzione.

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Il video della mostra

a cura di ludovico pratesi

[exibart]

11 Commenti

  1. “Il problema è che in Italia si guarda ai nomi degli artisti e non alle loro opere” dice il sig Bonami.
    ma non si vergogna? sono belle parole, peccato che non corrispondono alla realtà. o almeno non alla sua realtà, una realtà che difende solo ciò che arriva dalla Sandretto, NOMI e non OPERE.
    vergogna.

  2. te credo. se fa qualcosa che non va bene alla signora sandretto…un calcio in c…ed è fuori!
    lo sanno tutti, non è certo una novità.

  3. Intervista gradevole, Bonami è simpatico. Schiavo di Patrizia Sandretto? Non credo. Ricordatevi che sono i soldi ad essere al servizio dell’arte, non viceversa.

  4. Io la mostra non l’ho vista, puo’ darsi anche che sia una cagata, ma per quel che mi riguarda in Italia ce ne vorrebbero cinquanta di Bonami che fanno mostre del genere ogni sei mesi. Vi immaginate una mostra cosi’ ogni settimana? Se siete in questo sito siete amanti dell’arte, cosa urlate vergogna? Vergogna di cosa? Di aver esposto o non esposto il vostro beniamino? Il mondo dell’arte, per quanto mafioso e politico come il sistema italia, e’ una delle poche cose da salvare in italia. Perche’ se il sistema italia fosse normale allora il sistema dell’arte italiana sarebbe il primo a fiorire. Invece no, il sistema italia chiude gallerie come la civica di trento, anziche’ aprirne delle nuove, come succede nel resto del mondo.

  5. A Palazzo Grassi una brutta mostra che però contiene alcune opere bellissime (vedi De Dominicis, Schifano, Fabro, Vedova e pochi altri). Una brutta mostra come tutte quelle curate dal nostro, si fa per dire, Vincenzo Bonami viste in questi ultimi anni: dalla Biennale del centenario a quelle realizzate in Friuli, a Villa Manin….praticamente non è possibile che un “ragioniere” faccia il “curatore”…..evidentemente noi italiani siamo culturalmente più esigenti degli americani……….

  6. ……Vincenzo o Francesco cambia decisamente poco, anzi, decisamente nulla. Il Bonami che resta è, invece, un “errore” imperdonabile !!!

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