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Pino Manzella – Ce ne ricorderemo, di questo pianeta
“Ce ne ricorderemo, di questo pianeta.”
è con quest’enigmatica sentenza che abbiamo intitolato la mostra di Pino Manzella, una galleria di vivide istantanee in bianco e nero in omaggio alla morte o, meglio, alle tombe dei grandi a conferma che l’arte, e la sua memoria sopravvivono al disfacimento
Comunicato stampa
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Pino Manzella nasce a Cinisi (PA) nel 1951. Studia Lingue e Letterature Straniere e si laurea all’Università di Palermo. Fin dai primi anni Settanta disegna manifesti e vignette per le attività politiche e culturali animate da Peppino Impastato nel Circolo Musica e Cultura prima e a Radio Aut poi. La Sicilia, con i suoi eccessi di luce e le ombre della sua storia, è il centro ossessivo della sua ricerca artistica. Dagli anni Settanta espone in mostre personali e collettive ed in rassegne di carattere nazionale ed internazionale. Pino Manzella, appassionato di fotografia, è tra i soci fondatori dell’Ass.ne culturale/fotografica Asadin nata nel 2007 al fine di promuovere e diffondere la cultura fotografica e dell’immagine in generale e l’impegno verso tematiche rivolte alla salvaguardia del territorio, all’affermazione dei diritti umani e dell’equità sociale.
Presentazione di Lavinia Spalanca
“Ce ne ricorderemo, di questo pianeta.”
Con questa epigrafe, tratta da Villiers de l’Isle-Adam, Leonardo Sciascia si congeda dalla vita prospettando, col beneplacito dello scrittore simbolista, un interesse per l’esistenza terrena oltre la morte, e una promessa d’avvenire – scommessa di pascaliana memoria – che dischiude ipotesi metafisiche.
Ed è con quest’enigmatica sentenza che abbiamo intitolato la mostra di Pino Manzella, una galleria di vivide istantanee in bianco e nero in omaggio alla morte o, meglio, alle tombe dei grandi – da Pirandello a Sciascia, da Kafka a Vian – a conferma che l’arte, e la sua memoria imperitura, sopravvivono al disfacimento. Enigmatica, del resto, è l’immagine della locandina, in cui campeggia il cimitero ebraico di Praga, con le sue tombe sovrapposte e ammonticchiate, tardogotiche, rinascimentali e barocche, ombreggiate dai sambuchi. Una città che non può non evocare Franz Kafka, autore dell’inquietante racconto Patrocinatori, dove si legge un’emblematica riflessione sulla fine:
Il tempo che ti è assegnato è così breve che se perdi un secondo hai già perduto tutta la vita, perché non dura di più, dura solo quanto il tempo che perdi. Se dunque hai imboccato una via, prosegui per quella, in qualunque circostanza, non puoi che guadagnare, non corri alcun pericolo, alla fine forse precipiterai, ma se ti fossi voltato indietro fin dopo i primi passi e fossi sceso giù per la scala, saresti precipitato fin da principio, e non forse, ma certissimamente.
La fine del tempo, dunque, come monito a non sprecare l’esistenza, a viverla fino in fondo procedendo nel cammino intrapreso. Ed è forse questo il senso della mostra, lungi da una dolente riflessione, macabra o decadente, sul trapasso; piuttosto un invito ad inseguire le passioni, e tra queste l’arte, vera ed unica sfida al tempo, tentativo di esorcizzare il nulla prospettando un altrove della fantasia. Lo aveva ben compreso Foscolo, nel carme Dei sepolcri, quando inneggiava agli artisti sepolti in Santa Croce:
A egregie cose il forte animo accendono
l’urne de’ forti, o Pindemonte; e bella
e santa fanno al peregrin la terra
che le ricetta.
Le urne dei forti, ossia le tombe delle glorie italiche – da Dante a Galilei – che accendono nell’animo di chi le guarda – secondo una «corrispondenza d’amorosi sensi» - l’ardimento per le nobili imprese.
Una contemplazione della morte, allora, non come voluttà di disfacimento – tipica di un certo gusto decadente - ma uno sprone a vivere l’esistenza. Insomma, il miglior modo per affrontare la morte è vivere la vita, fino in fondo. E la morte in Sicilia? Terra dove campeggia, fra le tante opere d’arte, proprio un Trionfo della morte, goticamente innestata su uno scheletrico cavallo al galoppo? Proprio Sciascia ci soccorre in tal senso, colui che ha fatto della morte il tema - «el tema» avrebbe detto Ortega y Gasset – della sua riflessione letteraria:
I morti vanno, dentro il nero carro
incrostato di funebre oro, col passo
lento dei cavalli; e spesso
per loro suona la banda.
Al passaggio, le donne si precipitano
a chiudere le finestre di casa,
le botteghe si chiudono: appena uno spiraglio
per guardare al dolore dei parenti,
al numero degli amici che è dietro,
alla classe del carro, alle corone.
Così vanno via i morti, al mio paese;
finestre e porte chiuse, ad implorarli
di passar oltre, di dimenticare
le donne affaccendate nelle case,
il bottegaio che pesa e ruba,
il bambino che gioca ed odia,
gli occhi vivi che brulicano
dietro l’inganno delle imposte chiuse
Con lucida e amara ironia Sciascia coglie l’esteriorità del rito funebre, il finto omaggio ai defunti che cela il fastidio dei viventi, dagli «occhi vivi» brulicanti «dietro l’inganno delle imposte chiuse». Un’impossibile corrispondenza, stavolta, fra i vivi e i morti, indice di un’assenza di spiritualità – di umanità? – che con sguardo acuto lo scrittore coglie in una piccola realtà di provincia che si fa metafora del mondo. E ci ricorda, quest’amara riflessione, l’antologia di Spoon River di Edgar Lee Masters, che come epigrafi funebri tratteggia in versi le vite dei trapassati, scolpite dalla parola:
Francis Turner (Un malato di cuore)
Non potevo correre o giocare
da ragazzo.
Da uomo potevo solo sorseggiare dalla coppa,
non bere -
perché la scarlattina mi aveva lasciato il cuore malato.
Ora giaccio qui
confortato da un segreto che nessuno tranne Mary conosce:
c'è un giardino di acacie,
di catalpe, e di pergole dolci di viti -
là quel pomeriggio di giugno
al fianco di Mary -
baciandola con l’anima sulle labbra
all'improvviso questa prese il volo.
Versi bellissimi, che ci consegnano brandelli di memoria – l’attimo prima di morire - all’insegna di un Eros che si tramuta in Thanatos – tanto da ispirare un poeta dei nostri tempi, Fabrizio De André:
Non credo che chiesi promesse al suo sguardo,
non mi sembra che scelsi il silenzio o la voce,
quando il cuore stordì e ora no non ricordo,
da quale orizzonte sfumasse la luce.
Ma che la baciai questo sì lo ricordo
col cuore ormai sulle labbra,
ma che la baciai, per Dio, sì lo ricordo,
e il mio cuore le restò sulle labbra
In questo rapsodico excursus sul tema della morte non può mancare un rimando al principe delle tenebre, il Baudelaire dei Fiori del male: nella lirica Il nemico, riflettendo sulla sua triste vita, il poeta francese contrappone, al tempo divoratore - il dio Crono che si mangia la vita – l’attesa di un fluido benefico, un «mistico limo» che possa far rifiorire l’esistenza. Evidente metafora dell’arte:
Non fu che fosca tempesta la mia giovinezza,
qua e là solcata da rilucenti soli;
il tuono e la pioggia ne han fatto un tale strazio
da lasciare nel mio giardino solo qualche vermiglio frutto.
Eccomi già all’autunno delle idee,
è tempo del badile e del rastrello
per rassodare le terre inondate
in cui l’acqua ha scavato larghe buche come tombe.
E chissà se i fiori nuovi che vagheggio
troveranno, in un suolo lambito come la riva di un fiume,
il mistico limo che li rinvigorirà...
- O dolore, o dolore! Il Tempo si mangia la vita
e l’oscuro Nemico che ci rode il cuore
cresce e si fortifica del sangue che perdiamo
E di area francese è anche lo scrittore anarchico, l’intellettuale dissidente per eccellenza, Boris Vian, autore di un romanzo dal titolo provocatorio quale Sputerò sulle vostre tombe (il titolo originale è J’irai cracher sur vos tombes). Sembra quasi che l’esistenza di Vian, malato di cuore fin dalla nascita, non sia stato che un tentativo di fermare il tempo, in un tripudio di passioni – narrativa, poesia, musica, teatro – quale esorcismo ad una morte annunciata. Da qui l’amara sentenziosità delle sue parole:
Morirò un poco, molto,
Senza passione, ma con interesse
E poi quando tutto sarà finito
Morirò.
Un epigramma dal valore quasi pedagogico è invece quello espresso da Pirandello, che amaramente si rivolge al suo ipotetico lettore:
Imparerai a tue spese che nel lungo tragitto della vita incontrerai tante maschere e pochi volti.
Ma se la morte non è soltanto la fine ma un punto d’approdo da cui guardare, a ritroso, l’esistenza, compito dell’artista è fare della morte un’esperienza narrabile, in un’aspirazione all’eternità che fonde Immaginazione e Speranza in un’unica ipotesi di salvezza. Ce lo insegna Mallarmé con la sua lirica La tomba di Edgar Allan Poe. La parola dell’artista, che brandisce come una spada, squarcia il tempo, solleva il masso funerario, si sottrae alla nera bestemmia del tempo consegnandosi ad una limpida, seppur precaria, immortalità:
Tal ch’in Lui stesso infine l’eternità lo muta,
Il Poeta staffila con una spada nuda
Il secolo atterrito di non aver udita
La morte trionfare in voce sconosciuta!
Idra che ascoltò l’angelo con un vile sussulto
Mentre dava alle voci del volgo un senso puro,
Essi lo proclamarono sortilegio bevuto
Nel gorgo senza onore di qualche fiotto cupo.
Del suolo e della nube avversari, o lamento!
Se con la nostra idea non avremo scolpito
Sulla pietra di Poe un rilievo splendente.
Quieto masso quaggiù caduto da un oscuro
Disastro mostri almeno la fronte di granito
Alla nera Bestemmia che vola nel futuro.
Presentazione di Lavinia Spalanca
“Ce ne ricorderemo, di questo pianeta.”
Con questa epigrafe, tratta da Villiers de l’Isle-Adam, Leonardo Sciascia si congeda dalla vita prospettando, col beneplacito dello scrittore simbolista, un interesse per l’esistenza terrena oltre la morte, e una promessa d’avvenire – scommessa di pascaliana memoria – che dischiude ipotesi metafisiche.
Ed è con quest’enigmatica sentenza che abbiamo intitolato la mostra di Pino Manzella, una galleria di vivide istantanee in bianco e nero in omaggio alla morte o, meglio, alle tombe dei grandi – da Pirandello a Sciascia, da Kafka a Vian – a conferma che l’arte, e la sua memoria imperitura, sopravvivono al disfacimento. Enigmatica, del resto, è l’immagine della locandina, in cui campeggia il cimitero ebraico di Praga, con le sue tombe sovrapposte e ammonticchiate, tardogotiche, rinascimentali e barocche, ombreggiate dai sambuchi. Una città che non può non evocare Franz Kafka, autore dell’inquietante racconto Patrocinatori, dove si legge un’emblematica riflessione sulla fine:
Il tempo che ti è assegnato è così breve che se perdi un secondo hai già perduto tutta la vita, perché non dura di più, dura solo quanto il tempo che perdi. Se dunque hai imboccato una via, prosegui per quella, in qualunque circostanza, non puoi che guadagnare, non corri alcun pericolo, alla fine forse precipiterai, ma se ti fossi voltato indietro fin dopo i primi passi e fossi sceso giù per la scala, saresti precipitato fin da principio, e non forse, ma certissimamente.
La fine del tempo, dunque, come monito a non sprecare l’esistenza, a viverla fino in fondo procedendo nel cammino intrapreso. Ed è forse questo il senso della mostra, lungi da una dolente riflessione, macabra o decadente, sul trapasso; piuttosto un invito ad inseguire le passioni, e tra queste l’arte, vera ed unica sfida al tempo, tentativo di esorcizzare il nulla prospettando un altrove della fantasia. Lo aveva ben compreso Foscolo, nel carme Dei sepolcri, quando inneggiava agli artisti sepolti in Santa Croce:
A egregie cose il forte animo accendono
l’urne de’ forti, o Pindemonte; e bella
e santa fanno al peregrin la terra
che le ricetta.
Le urne dei forti, ossia le tombe delle glorie italiche – da Dante a Galilei – che accendono nell’animo di chi le guarda – secondo una «corrispondenza d’amorosi sensi» - l’ardimento per le nobili imprese.
Una contemplazione della morte, allora, non come voluttà di disfacimento – tipica di un certo gusto decadente - ma uno sprone a vivere l’esistenza. Insomma, il miglior modo per affrontare la morte è vivere la vita, fino in fondo. E la morte in Sicilia? Terra dove campeggia, fra le tante opere d’arte, proprio un Trionfo della morte, goticamente innestata su uno scheletrico cavallo al galoppo? Proprio Sciascia ci soccorre in tal senso, colui che ha fatto della morte il tema - «el tema» avrebbe detto Ortega y Gasset – della sua riflessione letteraria:
I morti vanno, dentro il nero carro
incrostato di funebre oro, col passo
lento dei cavalli; e spesso
per loro suona la banda.
Al passaggio, le donne si precipitano
a chiudere le finestre di casa,
le botteghe si chiudono: appena uno spiraglio
per guardare al dolore dei parenti,
al numero degli amici che è dietro,
alla classe del carro, alle corone.
Così vanno via i morti, al mio paese;
finestre e porte chiuse, ad implorarli
di passar oltre, di dimenticare
le donne affaccendate nelle case,
il bottegaio che pesa e ruba,
il bambino che gioca ed odia,
gli occhi vivi che brulicano
dietro l’inganno delle imposte chiuse
Con lucida e amara ironia Sciascia coglie l’esteriorità del rito funebre, il finto omaggio ai defunti che cela il fastidio dei viventi, dagli «occhi vivi» brulicanti «dietro l’inganno delle imposte chiuse». Un’impossibile corrispondenza, stavolta, fra i vivi e i morti, indice di un’assenza di spiritualità – di umanità? – che con sguardo acuto lo scrittore coglie in una piccola realtà di provincia che si fa metafora del mondo. E ci ricorda, quest’amara riflessione, l’antologia di Spoon River di Edgar Lee Masters, che come epigrafi funebri tratteggia in versi le vite dei trapassati, scolpite dalla parola:
Francis Turner (Un malato di cuore)
Non potevo correre o giocare
da ragazzo.
Da uomo potevo solo sorseggiare dalla coppa,
non bere -
perché la scarlattina mi aveva lasciato il cuore malato.
Ora giaccio qui
confortato da un segreto che nessuno tranne Mary conosce:
c'è un giardino di acacie,
di catalpe, e di pergole dolci di viti -
là quel pomeriggio di giugno
al fianco di Mary -
baciandola con l’anima sulle labbra
all'improvviso questa prese il volo.
Versi bellissimi, che ci consegnano brandelli di memoria – l’attimo prima di morire - all’insegna di un Eros che si tramuta in Thanatos – tanto da ispirare un poeta dei nostri tempi, Fabrizio De André:
Non credo che chiesi promesse al suo sguardo,
non mi sembra che scelsi il silenzio o la voce,
quando il cuore stordì e ora no non ricordo,
da quale orizzonte sfumasse la luce.
Ma che la baciai questo sì lo ricordo
col cuore ormai sulle labbra,
ma che la baciai, per Dio, sì lo ricordo,
e il mio cuore le restò sulle labbra
In questo rapsodico excursus sul tema della morte non può mancare un rimando al principe delle tenebre, il Baudelaire dei Fiori del male: nella lirica Il nemico, riflettendo sulla sua triste vita, il poeta francese contrappone, al tempo divoratore - il dio Crono che si mangia la vita – l’attesa di un fluido benefico, un «mistico limo» che possa far rifiorire l’esistenza. Evidente metafora dell’arte:
Non fu che fosca tempesta la mia giovinezza,
qua e là solcata da rilucenti soli;
il tuono e la pioggia ne han fatto un tale strazio
da lasciare nel mio giardino solo qualche vermiglio frutto.
Eccomi già all’autunno delle idee,
è tempo del badile e del rastrello
per rassodare le terre inondate
in cui l’acqua ha scavato larghe buche come tombe.
E chissà se i fiori nuovi che vagheggio
troveranno, in un suolo lambito come la riva di un fiume,
il mistico limo che li rinvigorirà...
- O dolore, o dolore! Il Tempo si mangia la vita
e l’oscuro Nemico che ci rode il cuore
cresce e si fortifica del sangue che perdiamo
E di area francese è anche lo scrittore anarchico, l’intellettuale dissidente per eccellenza, Boris Vian, autore di un romanzo dal titolo provocatorio quale Sputerò sulle vostre tombe (il titolo originale è J’irai cracher sur vos tombes). Sembra quasi che l’esistenza di Vian, malato di cuore fin dalla nascita, non sia stato che un tentativo di fermare il tempo, in un tripudio di passioni – narrativa, poesia, musica, teatro – quale esorcismo ad una morte annunciata. Da qui l’amara sentenziosità delle sue parole:
Morirò un poco, molto,
Senza passione, ma con interesse
E poi quando tutto sarà finito
Morirò.
Un epigramma dal valore quasi pedagogico è invece quello espresso da Pirandello, che amaramente si rivolge al suo ipotetico lettore:
Imparerai a tue spese che nel lungo tragitto della vita incontrerai tante maschere e pochi volti.
Ma se la morte non è soltanto la fine ma un punto d’approdo da cui guardare, a ritroso, l’esistenza, compito dell’artista è fare della morte un’esperienza narrabile, in un’aspirazione all’eternità che fonde Immaginazione e Speranza in un’unica ipotesi di salvezza. Ce lo insegna Mallarmé con la sua lirica La tomba di Edgar Allan Poe. La parola dell’artista, che brandisce come una spada, squarcia il tempo, solleva il masso funerario, si sottrae alla nera bestemmia del tempo consegnandosi ad una limpida, seppur precaria, immortalità:
Tal ch’in Lui stesso infine l’eternità lo muta,
Il Poeta staffila con una spada nuda
Il secolo atterrito di non aver udita
La morte trionfare in voce sconosciuta!
Idra che ascoltò l’angelo con un vile sussulto
Mentre dava alle voci del volgo un senso puro,
Essi lo proclamarono sortilegio bevuto
Nel gorgo senza onore di qualche fiotto cupo.
Del suolo e della nube avversari, o lamento!
Se con la nostra idea non avremo scolpito
Sulla pietra di Poe un rilievo splendente.
Quieto masso quaggiù caduto da un oscuro
Disastro mostri almeno la fronte di granito
Alla nera Bestemmia che vola nel futuro.
30
ottobre 2016
Pino Manzella – Ce ne ricorderemo, di questo pianeta
Dal 30 ottobre al 19 novembre 2016
fotografia
Location
MARGARET CAFE’
Terrasini, Via Vincenzo Madonia, 93, (Palermo)
Terrasini, Via Vincenzo Madonia, 93, (Palermo)
Orario di apertura
Tutti i giorni 9-23
Vernissage
30 Ottobre 2016, ore 18.00
Autore
Curatore