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23
dicembre 2008
fino al 10.I.2009 Sergey Yastrzhembskiy Firenze, ForGallery
toscana
Fotografie scattate da aerei in volo. Terre bianche di ghiaccio o rosse sotto il sole, in cui gli elementi invadono lo spazio. Alla ricerca di un’impossibile trasfigurazione. Subito sostituita...
Visioni dall’alto di ghiacciati paesaggi siberiani, campagne toscane dopo l’aratura, rosse e assolate terre africane. Sono i soggetti degli scatti di Sergey Yastrzhembskiy (Mosca, 1953), primo passo dell’attività del nuovo spazio fiorentino, tutto dedicato alla fotografia contemporanea.
Le foto sono prese, come informa Cesare Cunaccia nel testo in catalogo, “sorvolando alla velocità di 150-200 chilometri orari dall’alto di un piccolo aereo o d’un elicottero”, creando visioni enigmatiche in cui acqua e terra si combinano in configurazioni ora sinuose ora geometriche, in cui lucentezza e opacità si scontrano nell’incontrarsi delle diverse materie. Gli elementi si appropriano del territorio come in una primordiale spartizione da cui l’elemento umano è, ovviamente, bandito.
Sono immagini che ricordano (forse troppo) certi paesaggi estatici di Minor White o certe visioni tendenti all’astrazione di Franco Fontana, senza tuttavia avere né l’afflato spirituale e contemplativo del primo, né la forza allucinata e allucinante del secondo. Se c’è un carattere che sembra peculiare a questi scatti è una sorta di sguardo mobile, proiettato in avanti, in fuga, per cui s’intuisce che quello che si vede sta per essere abbandonato, immediatamente sostituito dalla visione successiva. Risultato del procedimento attraverso cui le foto sono scattate, certo, ma anche di un’attitudine mentale a non fermarsi, a non considerare definitivo e risolutivo ciò che si ha davanti.
Emblematica in questo senso è una delle foto delle terre rosse, in cui l’immagine di per sé statica è leggermente sfocata, tremolante, fino a diventare assolutamente provvisoria. Oppure la foto di terre arate, in cui grossi solchi verticali attivano la foto, spingendo l’immagine oltre i propri confini. O, ancora, tutte le foto in cui l’acqua si divide in piccole, smaltate onde in movimento attraverso lembi sfilacciati di territorio. Come se il senso di déjà-vu che questi scatti provocano nell’osservatore fosse lo stesso che spinge il fotografo a andare oltre, vedere e immortalare altro, in una continua ricerca dell’originario e dell’originale che resta insoddisfatta.
E non potrebbe essere altrimenti. Il mondo è ormai troppo piccolo per potervi trovare luoghi che, trasfigurati, provochino un’inaspettata rigenerazione, e troppo poco recente per poter essere ricondotto a un ipotetico inizio. La tensione che anima le foto sembra non giungere a un livello di consapevolezza. Una consapevolezza che, invece, dovrebbe essere il punto di partenza di operazioni di questo genere.
Le foto sono prese, come informa Cesare Cunaccia nel testo in catalogo, “sorvolando alla velocità di 150-200 chilometri orari dall’alto di un piccolo aereo o d’un elicottero”, creando visioni enigmatiche in cui acqua e terra si combinano in configurazioni ora sinuose ora geometriche, in cui lucentezza e opacità si scontrano nell’incontrarsi delle diverse materie. Gli elementi si appropriano del territorio come in una primordiale spartizione da cui l’elemento umano è, ovviamente, bandito.
Sono immagini che ricordano (forse troppo) certi paesaggi estatici di Minor White o certe visioni tendenti all’astrazione di Franco Fontana, senza tuttavia avere né l’afflato spirituale e contemplativo del primo, né la forza allucinata e allucinante del secondo. Se c’è un carattere che sembra peculiare a questi scatti è una sorta di sguardo mobile, proiettato in avanti, in fuga, per cui s’intuisce che quello che si vede sta per essere abbandonato, immediatamente sostituito dalla visione successiva. Risultato del procedimento attraverso cui le foto sono scattate, certo, ma anche di un’attitudine mentale a non fermarsi, a non considerare definitivo e risolutivo ciò che si ha davanti.
Emblematica in questo senso è una delle foto delle terre rosse, in cui l’immagine di per sé statica è leggermente sfocata, tremolante, fino a diventare assolutamente provvisoria. Oppure la foto di terre arate, in cui grossi solchi verticali attivano la foto, spingendo l’immagine oltre i propri confini. O, ancora, tutte le foto in cui l’acqua si divide in piccole, smaltate onde in movimento attraverso lembi sfilacciati di territorio. Come se il senso di déjà-vu che questi scatti provocano nell’osservatore fosse lo stesso che spinge il fotografo a andare oltre, vedere e immortalare altro, in una continua ricerca dell’originario e dell’originale che resta insoddisfatta.
E non potrebbe essere altrimenti. Il mondo è ormai troppo piccolo per potervi trovare luoghi che, trasfigurati, provochino un’inaspettata rigenerazione, e troppo poco recente per poter essere ricondotto a un ipotetico inizio. La tensione che anima le foto sembra non giungere a un livello di consapevolezza. Una consapevolezza che, invece, dovrebbe essere il punto di partenza di operazioni di questo genere.
donata panizza
mostra visitata il 17 dicembre 2008
dall’undici dicembre 2008 al 10 gennaio 2009
Sergey Yastrzhembskiy
ForGallery
Via dei Fossi, 45r – 50123 Firenze
Orario: da martedì a sabato ore 11-14 e 15-20
Ingresso libero
Catalogo disponibile
Info: tel. +39 0550946444; fax +39 055 0946445; for@forgallery.it; www.forgallery.it
[exibart]