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30
gennaio 2009
fino al 19.IV.2009 Gabriele Di Matteo Milano, Federico Luger
milano
Pittura come performance, performance come pittura. È in questo doppio percorso che Di Matteo colloca la sua mostra-museo. Per capire, senza Pollock, cosa rimane di Pollock...
Entrando nella galleria-seminterrato di via Domodossola, la sensazione è quella di esser finiti in un museo, e probabilmente nemmeno italiano. La quantità di tele appese con cura sulle pareti si preannuncia già dall’odore della pittura a olio, ma laddove il titolo della mostra – Jackson Pollock. Une vie, éléments et documents – potrebbe far supporre una rivisitazione dell’opera di Pollock e dei suoi gesti, le immagini che attendono il visitatore sembrano raccontare un altro immaginario, un’altra storia.
Le opere di Gabriele Di Matteo (Torre del Greco, Napoli, 1957; vive a Milano) – uno dei pittori italiani più puntuali e attenti al medium, che da anni continua a indagare con pazienza – si mostrano precise e distaccate nel loro fotografico bianco e nero.
Il punto di partenza di questa serie, da leggersi come un’unica installazione, è la mostra che il Centre Pompidou dedicò nel 1982 al pittore americano o, meglio, il catalogo di quella celebre esposizione, e in particolare una sezione del volume, dal titolo appunto Une vie, éléments et documents.
Di Matteo ha tradotto in pittura quelle pagine, ricche di documenti, lettere, articoli, fotografie e vedute delle mostre di Pollock. Lo ha fatto ingrandendole, ripercorrendo la vita dello statunitense attraverso le varie fonti del catalogo e filtrandole ulteriormente con la pittura. Ma non solo: nelle foto dove comparivano i famosi dripping, Di Matteo ha praticato una sottrazione, cancellandoli completamente, omettendoli dalle proprie riproduzioni pittoriche. L’effetto è spiazzante e denso di significato: cosa resta alla vista della figura di Pollock se si esclude la sua opera, sostituendola con monocromi assoluti?
Il più celebre campione dell’astrattismo americano, l’inventore dell’action painting, probabilmente uno degli ultimi pittori insieme a Bacon e Basquiat, la cui mitopoiesi è stata proporzionata soltanto alla loro opera (non è un caso che a ciascuno di questi sia stata dedicata una biografia cinematografica negli ultimi dieci anni), appare così nella sua dimensione più umana, da una parte disincantata, dall’altra più tangibile e persino spirituale.
L’operazione di Gabriele Di Matteo è di per sé una performance, una prova di resistenza tra “l’icona-Pollock”, con la sua rivoluzione gestuale, e la sua pittura, filtrata da una coscienza analitica e concettuale tutta europea, che non si fa mai gesto dirompente; piuttosto, innesca un processo lento di assimilazione.
Un lavoro che, attraverso l’applicazione di una pittura precisa, elimina ogni sensazionalismo per concentrarsi sulle psicologie dei volti, sul dato umano che, nelle riproduzioni di Di Matteo, si fissa sulle tele attraverso questo processo che restituisce al medium fotografico quella densità vitalistica che soltanto la pittura può dare.
Le opere di Gabriele Di Matteo (Torre del Greco, Napoli, 1957; vive a Milano) – uno dei pittori italiani più puntuali e attenti al medium, che da anni continua a indagare con pazienza – si mostrano precise e distaccate nel loro fotografico bianco e nero.
Il punto di partenza di questa serie, da leggersi come un’unica installazione, è la mostra che il Centre Pompidou dedicò nel 1982 al pittore americano o, meglio, il catalogo di quella celebre esposizione, e in particolare una sezione del volume, dal titolo appunto Une vie, éléments et documents.
Di Matteo ha tradotto in pittura quelle pagine, ricche di documenti, lettere, articoli, fotografie e vedute delle mostre di Pollock. Lo ha fatto ingrandendole, ripercorrendo la vita dello statunitense attraverso le varie fonti del catalogo e filtrandole ulteriormente con la pittura. Ma non solo: nelle foto dove comparivano i famosi dripping, Di Matteo ha praticato una sottrazione, cancellandoli completamente, omettendoli dalle proprie riproduzioni pittoriche. L’effetto è spiazzante e denso di significato: cosa resta alla vista della figura di Pollock se si esclude la sua opera, sostituendola con monocromi assoluti?
Il più celebre campione dell’astrattismo americano, l’inventore dell’action painting, probabilmente uno degli ultimi pittori insieme a Bacon e Basquiat, la cui mitopoiesi è stata proporzionata soltanto alla loro opera (non è un caso che a ciascuno di questi sia stata dedicata una biografia cinematografica negli ultimi dieci anni), appare così nella sua dimensione più umana, da una parte disincantata, dall’altra più tangibile e persino spirituale.
L’operazione di Gabriele Di Matteo è di per sé una performance, una prova di resistenza tra “l’icona-Pollock”, con la sua rivoluzione gestuale, e la sua pittura, filtrata da una coscienza analitica e concettuale tutta europea, che non si fa mai gesto dirompente; piuttosto, innesca un processo lento di assimilazione.
Un lavoro che, attraverso l’applicazione di una pittura precisa, elimina ogni sensazionalismo per concentrarsi sulle psicologie dei volti, sul dato umano che, nelle riproduzioni di Di Matteo, si fissa sulle tele attraverso questo processo che restituisce al medium fotografico quella densità vitalistica che soltanto la pittura può dare.
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Federico Luger Gallery
Via Domodossola, 17 (zona corso Sempione) – 20145 Milano
Orario: da martedì a venerdì ore 15.30-19
Ingresso libero
Catalogo Charta e libro d’artista in 200 esemplari. Testi di Giorgio Verzotti e François Michaud
Info: tel. +39 0267391341; mob. +39 3494138318; fax +39 0248013785; info@federicolugergallery.com; www.federicolugergallery.com
[exibart]
pura retorica di un grande….. quando la pittura è solo esercizio di non stile
Al di là dei concettualismi, di tutti i discorsi circa l’immagine come object trouvè di ascendenza duchampiana ecc, quello che conta è il risultato e da questo punto di vista si deve dire che la mostra è brutta, senz’appello.
un altro montesano