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Wang Qingzhou – Il blu di Pechino
Il cielo di Pechino nelle opere del pittore cinese Wang Qingzhou.
Comunicato stampa
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I commerci della luce: il blu di Pechino di Wang Qingzhou
798. Wang Qingzhou è un pittore che dalla nativa provincia di Anhui, nella Cina orientale, si è trasferito a Pechino, dove ha aperto come artista indipendente uno studio nel celebre distretto 798. Questo gigantesco complesso industriale in stile Bauhaus, progettato da architetti della Germania dell'est negli anni Cinquanta del secolo scorso, che, dopo la sua dismissione, si è trasformato, all'inizio del millennio, in uno dei più grandi centri artistici e culturali dell'Asia, costituisce per noi un primo motivo di suggestione. Ci è capitato in passato di conversare con il critico d'arte americano Alan Jones, biografo di Leo Castelli, sull'occupazione da parte degli artisti e dei galleristi, negli anni Sessanta e Settanta, degli spazi abbandonati dall'industria tessile del Cast Iron District, la Soho di New York, di cui Jones è stato testimone. Dalle finestre di casa nostra, allungato tra il fiume e la ferrovia, possiamo scorgere il Lingotto. L'arte, ci viene da pensare, ha l'opportunismo di una forma di vita, una sua natura biologica, occupa gli oblii e i vuoti lasciati indietro, nel suo funzionamento, dalla macchina del mondo. Al giorno d'oggi, il 798, ci dicono, ha perso molto del suo carattere di spontaneità e assunto di nuovo un carattere industriale, di industria culturale questa volta. Bisognerebbe, allora, pensare che è l'industria, che ha le sue rotazioni come l'agricoltura, ad avere una relazione con la biologia.
Blu di Pechino. Nell'arte della ceramica, come nella manifattura di tappeti e di stoffe, il blu di Pechino è una tonalità di blu. Il blu, naturalmente, è anche, in certe condizioni meteorologiche, il colore del cielo. Pechino è una delle città più inquinate del mondo, così come Torino è una delle città più inquinate d'Italia. Un anno fa il blu di Pechino ha avuto notorietà mediatica mondiale quando, in occasione di un vertice internazionale, misure straordinarie del governo cinese hanno riportato provvisoriamente il colore del cielo al suo colore naturale. Hanno fermato le fabbriche, come a Torino fermano il traffico. La luce blu ha una lunghezza d'onda più corta rispetto a quella delle radiazioni di altre porzioni dello spettro elettromagnetico visibile e, precipitando dal sole, si infrange contro gli strati più alti dell'atmosfera, diffondendosi in tutte le direzioni. Così, ad alta quota, sopra i letti di nuvole, il cielo è sempre blu. Visto da qui, dalla quota della nostra esistenza terrestre, il blu del cielo, piuttosto che una sua naturalità, ha, potremmo allora dire, una sua artificialità. Come ogni altra cosa, del resto, che il destino del mondo ci mette di fronte.
Physis. Al centro della sua poetica, ci dice Wang Qingzhou, c'è una sua idea di imitazione della natura. In alcuni cataloghi vediamo le sue opere realizzate con l'inchiostro, seguendo le regole severe della pittura tradizionale cinese. La pittura cinese ha una storia millenaria, suddivisa in periodi e correnti. Una di impronta letteraria, che perdura ancora al giorno d'oggi, è quella della pittura in bianco e nero. I bambù, i fiori e i paesaggi di Wang Qingzhou sono colorati. Qingzhou ci dice di aver viaggiato in Europa e di aver cercato, per quanto riguarda l'uso del colore, ispirazione nella storia dell'arte occidentale, soprattutto nei lavori degli impressionisti e dei postimpressionisti, oltreché nell'arte popolare del suo paese, che, nel corso dei secoli, ha continuato a essere policroma. Aggiunge di essere, come deve essere ogni artista, alla ricerca di una sua via originale. Precisa, poi, che, sebbene si proponga di imitare la natura, non vuole rappresentare soggetti chiari e definiti, ma seguire le tracce dell'inevitabile e persistente, eternamente mutevole e inesauribile divenire. Non dovremmo pensare, perciò, ci diciamo noi, a Platone. Forse, invece, a Eraclito e a Empedocle. L'Europa agli occhi di un'artista cinese è un museo e una biblioteca immensa, dove piani temporali diversi si sovrappongono e i fili di narrazioni diverse si intrecciano e si confondono. Così è per noi la Cina. L'estetica e il pensiero cinesi, del resto, ci dice Wang Qingzhou, sono differenti da quelli occidentali.
Différance chinoise. Troviamo in un libro dello studioso inglese Paul Gladston (Deconstructing Contemporary Chinese Art, Berlin, Heidelberg 2016) un accostamento che ci sembra interessante. Tutti conoscono il taijitu, il simbolo taoista che rappresenta l'eterna dinamica delle opposte forze dello yin e dello yang. Lo yin (il nero) e lo yang (il bianco) sono irriducibilmente diversi e tuttavia, per la presenza dei piccoli cerchi di colore opposto all'interno dei due lati del simbolo, uguali. C'è un'ambiguità essenziale che non può essere sciolta. Secondo l'artista sino-francese Haung Yong Ping, citato da Gladston, si può trovare un'analogia tra il taijitu e la différance di Jacques Derrida, con la sua differenza grafica e indifferenza fonetica tra différence e différance. L'accostamento tra il pensiero tradizionale cinese e la filosofia occidentale postmoderna ha un suo fascino. In effetti, nella tradizione pittorica cinese c'è l'idea di un un rinvio indefinito, di una disseminazione del senso. Del suo cielo, Wang Qingzhou ci dice che potrebbe anche non essere il cielo, che potrebbero essere montagne, nebulose, creature viventi.
Pieghe. A noi viene in mente il libro di Deleuze dedicato a Leibniz (La piega. Leibniz e il barocco, Torino 2004). In cinese, yin è anche il senso latente che si contrappone a un senso manifesto, xiu o hsiu, a seconda del sistema di traslitterazione. Per l'artista, lo yin è lo sfondo dal quale emerge una successione di epifanie che si dipanano seguendo un loro ritmo infinito. L'esperienza artistica è inesauribile, come è inesauribile il mondo. Lo spettatore, ci sembra di capire, a sua volta è chiamato ad avere una percezione dell'opera d'arte che rispecchi l'esperienza dell'artista, e forse a provare in qualche modo ad accordare la sua dimensione spirituale con quella dell'artista che si è infusa nell'opera d'arte e poi da questa viene rivelata. Una delle idee fondamentali di Leibniz è che, al di sotto di quella che potremmo chiamare la superficie cartesiana del mondo, ci sia uno sviluppo infinito di significati infinitamente inviluppati e interconnessi. In termini deleuziani, un processo di dispiegamento e di ripiegamento continuo del mondo. E, se nel nostro isolamento monadico, abbiamo la nostra propria prospettiva, è vero anche che in essa si riflette, sebbene non tutta l'area della riflessione sia limpida, l'interezza e la fondamentale armonia della realtà. Forse anche questo è un parallelo possibile. Del resto, se parliamo di Leibniz, è perché fu il primo filosofo europeo a interessarsi alla cultura cinese. Il suo interesse fu costante, dalla giovanile Dissertatio de arte combinatoria, ai Novissima sinica, sino all'ultima opera, composta poco prima della morte, che si intitola Discours sur la théologie naturelle des Chinois. In un libro americano troviamo il riferimento a una lettera che Leibniz scrisse nel 1689 al missionario Gianfranco Laureati. In essa Leibniz ricorda al gesuita il magnum negotium che gli è stato affidato, quello di promuovere tra Europa e Cina "commercia mutuae doctrinae et lucis" (Leibniz korrespondiert mit China. Der Briefwechsel mit den Jesuitenmissionaren, Frankfurt am Main, 1990). Troviamo l'espressione commercia lucis suggestiva. L'arte, pensiamo, è un mezzo per diffondere un po' di luce in questo mondo buio. Almeno vogliamo credere che sia così. Uno dei dipinti di Wang Qingzhou a noi ricorda il cielo visto da un satellite. Tutto intorno alla Terra, in effetti, c'è uno spazio nero, vagamente illuminato. Qualche luce su, qualche luce giù. Fabrizio Bonci e Caterina Scala (con la collaborazione di Valentina Ficosecco)
798. Wang Qingzhou è un pittore che dalla nativa provincia di Anhui, nella Cina orientale, si è trasferito a Pechino, dove ha aperto come artista indipendente uno studio nel celebre distretto 798. Questo gigantesco complesso industriale in stile Bauhaus, progettato da architetti della Germania dell'est negli anni Cinquanta del secolo scorso, che, dopo la sua dismissione, si è trasformato, all'inizio del millennio, in uno dei più grandi centri artistici e culturali dell'Asia, costituisce per noi un primo motivo di suggestione. Ci è capitato in passato di conversare con il critico d'arte americano Alan Jones, biografo di Leo Castelli, sull'occupazione da parte degli artisti e dei galleristi, negli anni Sessanta e Settanta, degli spazi abbandonati dall'industria tessile del Cast Iron District, la Soho di New York, di cui Jones è stato testimone. Dalle finestre di casa nostra, allungato tra il fiume e la ferrovia, possiamo scorgere il Lingotto. L'arte, ci viene da pensare, ha l'opportunismo di una forma di vita, una sua natura biologica, occupa gli oblii e i vuoti lasciati indietro, nel suo funzionamento, dalla macchina del mondo. Al giorno d'oggi, il 798, ci dicono, ha perso molto del suo carattere di spontaneità e assunto di nuovo un carattere industriale, di industria culturale questa volta. Bisognerebbe, allora, pensare che è l'industria, che ha le sue rotazioni come l'agricoltura, ad avere una relazione con la biologia.
Blu di Pechino. Nell'arte della ceramica, come nella manifattura di tappeti e di stoffe, il blu di Pechino è una tonalità di blu. Il blu, naturalmente, è anche, in certe condizioni meteorologiche, il colore del cielo. Pechino è una delle città più inquinate del mondo, così come Torino è una delle città più inquinate d'Italia. Un anno fa il blu di Pechino ha avuto notorietà mediatica mondiale quando, in occasione di un vertice internazionale, misure straordinarie del governo cinese hanno riportato provvisoriamente il colore del cielo al suo colore naturale. Hanno fermato le fabbriche, come a Torino fermano il traffico. La luce blu ha una lunghezza d'onda più corta rispetto a quella delle radiazioni di altre porzioni dello spettro elettromagnetico visibile e, precipitando dal sole, si infrange contro gli strati più alti dell'atmosfera, diffondendosi in tutte le direzioni. Così, ad alta quota, sopra i letti di nuvole, il cielo è sempre blu. Visto da qui, dalla quota della nostra esistenza terrestre, il blu del cielo, piuttosto che una sua naturalità, ha, potremmo allora dire, una sua artificialità. Come ogni altra cosa, del resto, che il destino del mondo ci mette di fronte.
Physis. Al centro della sua poetica, ci dice Wang Qingzhou, c'è una sua idea di imitazione della natura. In alcuni cataloghi vediamo le sue opere realizzate con l'inchiostro, seguendo le regole severe della pittura tradizionale cinese. La pittura cinese ha una storia millenaria, suddivisa in periodi e correnti. Una di impronta letteraria, che perdura ancora al giorno d'oggi, è quella della pittura in bianco e nero. I bambù, i fiori e i paesaggi di Wang Qingzhou sono colorati. Qingzhou ci dice di aver viaggiato in Europa e di aver cercato, per quanto riguarda l'uso del colore, ispirazione nella storia dell'arte occidentale, soprattutto nei lavori degli impressionisti e dei postimpressionisti, oltreché nell'arte popolare del suo paese, che, nel corso dei secoli, ha continuato a essere policroma. Aggiunge di essere, come deve essere ogni artista, alla ricerca di una sua via originale. Precisa, poi, che, sebbene si proponga di imitare la natura, non vuole rappresentare soggetti chiari e definiti, ma seguire le tracce dell'inevitabile e persistente, eternamente mutevole e inesauribile divenire. Non dovremmo pensare, perciò, ci diciamo noi, a Platone. Forse, invece, a Eraclito e a Empedocle. L'Europa agli occhi di un'artista cinese è un museo e una biblioteca immensa, dove piani temporali diversi si sovrappongono e i fili di narrazioni diverse si intrecciano e si confondono. Così è per noi la Cina. L'estetica e il pensiero cinesi, del resto, ci dice Wang Qingzhou, sono differenti da quelli occidentali.
Différance chinoise. Troviamo in un libro dello studioso inglese Paul Gladston (Deconstructing Contemporary Chinese Art, Berlin, Heidelberg 2016) un accostamento che ci sembra interessante. Tutti conoscono il taijitu, il simbolo taoista che rappresenta l'eterna dinamica delle opposte forze dello yin e dello yang. Lo yin (il nero) e lo yang (il bianco) sono irriducibilmente diversi e tuttavia, per la presenza dei piccoli cerchi di colore opposto all'interno dei due lati del simbolo, uguali. C'è un'ambiguità essenziale che non può essere sciolta. Secondo l'artista sino-francese Haung Yong Ping, citato da Gladston, si può trovare un'analogia tra il taijitu e la différance di Jacques Derrida, con la sua differenza grafica e indifferenza fonetica tra différence e différance. L'accostamento tra il pensiero tradizionale cinese e la filosofia occidentale postmoderna ha un suo fascino. In effetti, nella tradizione pittorica cinese c'è l'idea di un un rinvio indefinito, di una disseminazione del senso. Del suo cielo, Wang Qingzhou ci dice che potrebbe anche non essere il cielo, che potrebbero essere montagne, nebulose, creature viventi.
Pieghe. A noi viene in mente il libro di Deleuze dedicato a Leibniz (La piega. Leibniz e il barocco, Torino 2004). In cinese, yin è anche il senso latente che si contrappone a un senso manifesto, xiu o hsiu, a seconda del sistema di traslitterazione. Per l'artista, lo yin è lo sfondo dal quale emerge una successione di epifanie che si dipanano seguendo un loro ritmo infinito. L'esperienza artistica è inesauribile, come è inesauribile il mondo. Lo spettatore, ci sembra di capire, a sua volta è chiamato ad avere una percezione dell'opera d'arte che rispecchi l'esperienza dell'artista, e forse a provare in qualche modo ad accordare la sua dimensione spirituale con quella dell'artista che si è infusa nell'opera d'arte e poi da questa viene rivelata. Una delle idee fondamentali di Leibniz è che, al di sotto di quella che potremmo chiamare la superficie cartesiana del mondo, ci sia uno sviluppo infinito di significati infinitamente inviluppati e interconnessi. In termini deleuziani, un processo di dispiegamento e di ripiegamento continuo del mondo. E, se nel nostro isolamento monadico, abbiamo la nostra propria prospettiva, è vero anche che in essa si riflette, sebbene non tutta l'area della riflessione sia limpida, l'interezza e la fondamentale armonia della realtà. Forse anche questo è un parallelo possibile. Del resto, se parliamo di Leibniz, è perché fu il primo filosofo europeo a interessarsi alla cultura cinese. Il suo interesse fu costante, dalla giovanile Dissertatio de arte combinatoria, ai Novissima sinica, sino all'ultima opera, composta poco prima della morte, che si intitola Discours sur la théologie naturelle des Chinois. In un libro americano troviamo il riferimento a una lettera che Leibniz scrisse nel 1689 al missionario Gianfranco Laureati. In essa Leibniz ricorda al gesuita il magnum negotium che gli è stato affidato, quello di promuovere tra Europa e Cina "commercia mutuae doctrinae et lucis" (Leibniz korrespondiert mit China. Der Briefwechsel mit den Jesuitenmissionaren, Frankfurt am Main, 1990). Troviamo l'espressione commercia lucis suggestiva. L'arte, pensiamo, è un mezzo per diffondere un po' di luce in questo mondo buio. Almeno vogliamo credere che sia così. Uno dei dipinti di Wang Qingzhou a noi ricorda il cielo visto da un satellite. Tutto intorno alla Terra, in effetti, c'è uno spazio nero, vagamente illuminato. Qualche luce su, qualche luce giù. Fabrizio Bonci e Caterina Scala (con la collaborazione di Valentina Ficosecco)
01
aprile 2016
Wang Qingzhou – Il blu di Pechino
Dal primo al 10 aprile 2016
arte contemporanea
Location
GALLERIA OBLOM
Torino, Via Giuseppe Baretti, 28, (Torino)
Torino, Via Giuseppe Baretti, 28, (Torino)
Orario di apertura
dal martedì al venerdì, 17,30-20
sabato su appuntamento
Vernissage
1 Aprile 2016, h 18,30
Autore
Curatore