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Lino Fiorito – Buchi neri
Mostra personale
Comunicato stampa
Segnala l'evento
Universalità del vuoto
Maurizio Zanardi
Alla visione della distruzione da parte dell’Isis del sito archeologico di Palmira e del tempio di
Baal Shamin, di opere considerate sacre, intoccabili vestigia-documenti del “passaggio” degli
umani sul pianeta, Lino Fiorito racconta di aver voluto reagire. Forse, sarebbe meglio dire che è
stato colto da una volontà di ritorsione (vendetta?) che Fiorito ha assecondato con la ricerca dei
mezzi con cui soddisfarla: si è procurato i materiali per l’allestimento dell’atto di ritorsione nei
confronti dei disumani distruttori di umanità. Eppure, ciò che Fiorito offre oggi ai nostri sensi non è
la messa in scena, ma il risultato della sua reazione.
Tenere fuori scena il processo della ritorsione, raccontarlo brevemente in forma scritta come un
antefatto, significa già dislocarne il tragitto, preparare, più o meno coscientemente, un’altra scena e
un altro sguardo. All’opposto, la messa in scena e la sua riproduzione audiovisiva sono decisive
nell’azione dell’Isis e ciò che è mostrato è la distruzione all’opera, la forza nell’atto di mandare in
frantumi. Dalla parte dell’Isis, dunque, appare lo spettacolo della forza nell’atto di mera
frantumazione- polverizzazione, il tentativo (restano pur sempre frammenti, schegge, polvere, resti)
di una cancellazione integrale di ciò che sembra non appartenere alla propria cultura; dalla parte di
Fiorito è invece mostrata l’opera, non l’azione, della reazione, i disegni macchiati, ancora
riconoscibili anche se violentemente alterati, ma anche qualcosa di ulteriore: le ceramiche, che già
nel loro presentarsi sembrano appartenere a un’altra forza o, forse, a un misto di forze.
Fiorito ci convoca all’Istituto di Studi Filosofici; mostra il risultato delle sue operazioni in un
luogo fortemente caratterizzato, che si è esplicitamente proposto come fonte d’irradiazione della
luce della ragione in lotta con le tenebre e della voce che chiama alla filosofia, che reclama dai
governi il sostegno alla filosofia e incita la filosofia a prestare soccorso a governi altrimenti ciechi.
Come non pensare che nella scelta del luogo sia all’opera l’atto di un teatro – il nostro artista è un
uomo di teatro – che cerca di non fissarsi nella ritorsione, in direzione di un altro gesto e affetto?
Per chi conosce la passione di Fiorito per l’astratto, il vago, il leggero, il non storico o il
sovrastorico – insomma il non collocabile, l’irriconoscibile – che anima i suoi disegni, quadri,
ceramiche, scenografie, la scelta di un luogo così ‘grave’ come l’Istituto di Studi Filosofici appare
singolare. Che abbia invitato a elaborare le note che leggete a chi, una ventina d’anni, capitò di
scrivere, riflettendo sul legame tra filosofia e luoghi, e dunque anche sull’esperienza dell’Istituto,
che era necessario abbandonare la pretesa di identificare la filosofia con questo o quel luogo, per
esercitare invece la potenza dislocante, atopica, della pratica filosofica, ebbene anche questa scelta
dà da pensare, innanzitutto a chi scrive. Che Fiorito, senza per questo impegnarsi in un’arte
concettuale, voglia chiamare a un rinnovato impegno concettuale coloro che di concetti dovrebbero
occuparsi? Fiorito sembra mettere in mostra un’arte che pensa se stessa e che invita la filosofia a
pensare con lei ciò a cui anche la fisica sta pensando, i buchi neri, senza per questo immaginare,
credo, che si possa superare l’eterogeneità dei modi di pensare che costituiscono arte, filosofia e
scienza.
Conviene fare un passo indietro, tornare all’iniziale volontà di reazione. L’artista si procura dei
poster che riproducono disegni geometrici, ripetitivi e decorativi, dai tenui colori, tipici della cultura
islamica e li macchia di uno spruzzo di smalto nero. Non li fa a pezzi; li imbratta in un punto. Più
precisamente, e in modo significativo, li macchia al centro. Non si tratta di una distruzione
paragonabile a quella dell’Isis, ma per Fiorito quelle macchie, quel nero parziale – non si tratta di
un’inquadratura interamente nera, oblio senza resti, tabula rasa oscura, come in Malevič, o di una
nera superficie tormentata, scavata, da cavità e crateri oscuri come nel sacco Tutto nero di Burri del
1956 – sono il segno di un desiderio di annerire, fino all’oscuramento, una tradizione, una
differenza culturale. Un desiderio che lo rende responsabile allo stesso modo di chi si è impegnato a
far scomparire il sito di Palmira. Il nero gettato sui disegni produce un contraccolpo: rimbalza
sull’autore del getto e lo macchia a sua volta. Ora l’artista non è senza macchia. Non può più
rappresentarsi semplicemente come un occidentale ragionevole, tollerante, misurato.
Fiorito assume quel nero, il suo imprevisto eccesso, non lo rinnega né lo giustifica, non lo cancella,
né lo illumina di ‘ragioni’ e giustificazioni (se non a cose fatte), lo mette in mostra. E così finisce
con l’assumere anche la scandalosa prossimità del suo gesto con l’atto dell’Isis contro cui aveva
reagito. Ma proprio l’assunzione dell’atto di distruzione in quanto tale, gli consente un’ulteriore
forzatura, la negazione anche dell’effetto del gesto di distruzione. L’artista non si arresta a
contemplare la macchia, non è soddisfatto del risultato della sua macchinazione: il nero viene
forato, bucato. Lo chiama Buco Nero, facendo segno a quella regione dello spazio da cui, a causa
dell’intensa forza gravitazionale generata dal collasso di una stella, la luce non può fuggire,
qualcosa che inghiotte, annulla e sembra non avere fondo. Non cedendo alla tentazione moralistica
di restaurare il disegno macchiato, e con esso la cultura di cui è espressione, Fiorito insiste nella
distruzione, spingendosi fino all’informe, e così, venendo a capo del pericolo di restarne
affascinato, inghiottito, apre un varco per la creazione di una forma dell’avvenire. Più precisamente,
per creazione di una forma che conservi in sé quel vuoto in cui è passata la foratura del nero. La
violenza ha trovato un limite esercitandosi sui suoi stessi effetti, le macchie, e plasmando un
artefatto che conservi quel vuoto che nessuna cultura può saturare e che, proprio per questo, è la
condizione di ogni creazione.
Disegni macchiati e ceramiche sono i segni di un dramma che non pare destinato a concludersi. Un
dramma che inizia con il racconto di un antefatto fuori scena, continua con la visione dell’effetto di
una ritorsione, prosegue con l’esposizione di forme bucate, che sembrano costruirsi intorno al vuoto
e da questo essere attratte e mosse, così che il vuoto, nello stesso tempo, destituisce il costruito e
continua infinitamente a vibrare. Il buco nel nero, più che il buco nero, spinge, pulsa… senza fine?
Fiorito non ha rinnegato l’atto di distruzione. Per farlo, avrebbe dovuto rinnegare l’arte
contemporanea, la volontà, che la costituisce, di distruggere il passato, di frantumare il concetto di
opera, bellezza e Museo; la passione per le rovine, i resti , i rifiuti, l’immondo; la noncuranza o il
disprezzo per l’archeologica e la filologia; la critica della cultura. Non è percorsa l’arte
contemporanea dal tentativo di un gesto esplicitamente barbarico, rivendicato come tale?
Quando il grande compositore d’avanguardia Karl-Heinz Stockhausen associò il gesto terroristico
dell’11 settembre a un’opera d’arte “cosmica”, non volle forse indicare che quel gesto portava alle
estreme conseguenze la tensione distruttiva che percorre l’arte contemporanea, chiamandola, si
potrebbe aggiungere, a fare i conti con il proprio desiderio, le proprie fantasie? Con la sua reazione
alla distruzione di Palmira Lino Fiorito ha ricevuto come contraccolpo, nell’aspetto di macchie
nere, non solo la verità del suo gesto, ossia la pulsione distruttrice che lo attraversa, ma anche la
verità del gesto dei terroristi: la loro non estraneità a quella cultura occidentale cui si ritengono
estranei. E si potrebbe aggiungere che la stessa riproduzione video della distruzione testimonia
l’analogia con i procedimenti delle performance artistica e la colonizzazione dell’Isis da parte della
logica spettacolare. Inoltre, pare che l’Isis per finanziarsi venda, fuori scena, le opere che non
distrugge. Insomma, iconoclastia, terrorismo, arte e mercato dell’arte sono meno separabili di
quanto con superficialità si crede. E se a questo intreccio viene opposta la tesi che l’arte
contemporanea si propone una distruzione simbolica della tradizione, mentre il terrorismo opera
distruzioni fisiche, materiali, converrebbe ricordare che Allen Kaprow, uno degli inventori
dell’happening ebbe a dichiarare che “il teatro di guerra sud-asiatico del Viet Nam (…) è meglio di
qualunque tragedia” e che “la non-arte è più arte dell’ARTE-arte”. Per di più, una distruzione
soltanto simbolica non è forse più disorientante, più estesamente violenta, di una distruzione fisica
che, se non distrugge la struttura simbolica, può essere, per quanto dolorosa, più facilmente
metabolizzata, localizzata, manipolata? Non è forse proprio questo che sta avvenendo con l’Isis?
Ha ragione Slavoj Žižek: i terroristi non sono veri fondamentalisti. Autentici fondamentalisti
manifesterebbero una “profonda indifferenza”, o un senso di superiorità, di fronte ai modi di vita e
alle opere degli infedeli: “Se i cosiddetti fondamentalisti di oggi davvero credessero di aver trovato
la loro via per la Verità, perché dovrebbero sentirsi minacciati dai non-credenti?”. La volontà di
sterminare gli infedeli e le loro opere testimonia la mancanza di una vera convinzione, la fragilità
della fede, l’invidia e la tentazione. “A differenza dei veri fondamentalisti, i terroristi pseudo-
fondamentalisti sono profondamente turbati, intrigati, affascinati dalla vita peccaminosa dei non-
credenti. È facile intuire che, combattendo l’altro peccaminoso, combattono la loro stessa
tentazione”. Di fronte al vuoto aperto dall’impatto della modernità nel fondamento simbolico della
loro identità, la volontà di distruzione dei terroristi è un modo non già per riconoscere il vuoto, ma
per fare il vuoto intorno al vuoto – lo sterminio spettacolare degli infedeli, delle loro opere, della
loro (presunta e invidiata) potenza – e così tentare di ricostituire il perduto fondamento. Ma proprio
la violenza puramente annichilatrice dice che il fondamento è perduto e che i fondamentalisti hanno
già segretamente introiettato i parametri di valutazione contro cui si scagliano.
Se l’Isis tenta disperatamente di ricostituire il perduto fondamento utilizzando le procedure degli
infedeli, Fiorito non tenta di restaurare i colori e i disegni macchiati. Anzi, isola il nero, dandogli
spessore e rilievo, e lo buca, lo attraversa, gli toglie compattezza. L’artista buca, forza, la sua stessa
reazione: spingendo l’atto di distruzione fino al vuoto produce la condizione per l’atto di creazione.
Il vuoto nel nero rende possibile l’apparizione della serie di ceramiche, che è nello stesso tempo una
serie di vuoti. Il vuoto non può darsi in quanto tale: può apparire solo tra, dentro, su ciò che ha
figura, limite, per quanto irregolare: buco, interruzione, incrinatura, squilibrio, taglio, intervallo,
cavità. Nelle ceramiche di Fiorito il vuoto non è trattenuto, custodito in vasi o brocche, secondo la
metafora dell’artista come vasaio e dell’arte come vaso costruito intorno al vuoto. Si tratta, invece,
di ceramiche senza fondo, di forme inette a raccogliere e contenere. Forme squilibrate, sghembe,
rose, traforate, in cui il vuoto sembra prevalere sul pieno, ma non come vuoto intorno a cui si
costruisce una forma, piuttosto come ciò che fa del costruito un mezzo di passaggio, di transito, un
orifizio. Si tratta di far passare delle correnti, delle onde?
C’è una ceramica che sembra essere ciò da cui le altre ceramiche provengono, ciò in cui sembrano
volere ritornare, in un va e vieni inarrestabile, insensato, senza significato, oggetto senza meta. Si
tratta di un vortice nero dal centro bucato. Un nero che grazie al buco pare pulsare, secondo un
movimento a spirale, in increspature, in onde che dal buco si distendono, si estendono, si
allontanano, ma che al buco sembrano ritornare, girandogli intorno. Le altre ceramiche paiono, da
questo punto di vista, nascere da quelle increspature e onde, senza essersi però liberate dal vuoto,
che continua a trafiggerle, a farle tremare, a squilibrarle.
Ceramiche pulsanti. Grazie a questa pulsazione il nero – la tenebra, la morte – confina con il
bianco. Il nero, non colore che inghiotte ogni colore e il bianco, non colore come virtualità di colori,
atti, gesti non ancora visti?
Un’arte in cui il vuoto predomina sul pieno. Un’arte in se stessa squilibrata, non certa di sé,
sempre da ripetersi in un andirivieni dal vuoto alla costruzione e da questa al vuoto. Un’arte che si
ritrova solo perdendosi nel vuoto e dal vuoto proveniente come pulsione, tremito, onda. Un’arte, per
di più, che ‘porta’ il vuoto e lo mostra come ciò che universalmente abbiamo in comune.
Maurizio Zanardi
Alla visione della distruzione da parte dell’Isis del sito archeologico di Palmira e del tempio di
Baal Shamin, di opere considerate sacre, intoccabili vestigia-documenti del “passaggio” degli
umani sul pianeta, Lino Fiorito racconta di aver voluto reagire. Forse, sarebbe meglio dire che è
stato colto da una volontà di ritorsione (vendetta?) che Fiorito ha assecondato con la ricerca dei
mezzi con cui soddisfarla: si è procurato i materiali per l’allestimento dell’atto di ritorsione nei
confronti dei disumani distruttori di umanità. Eppure, ciò che Fiorito offre oggi ai nostri sensi non è
la messa in scena, ma il risultato della sua reazione.
Tenere fuori scena il processo della ritorsione, raccontarlo brevemente in forma scritta come un
antefatto, significa già dislocarne il tragitto, preparare, più o meno coscientemente, un’altra scena e
un altro sguardo. All’opposto, la messa in scena e la sua riproduzione audiovisiva sono decisive
nell’azione dell’Isis e ciò che è mostrato è la distruzione all’opera, la forza nell’atto di mandare in
frantumi. Dalla parte dell’Isis, dunque, appare lo spettacolo della forza nell’atto di mera
frantumazione- polverizzazione, il tentativo (restano pur sempre frammenti, schegge, polvere, resti)
di una cancellazione integrale di ciò che sembra non appartenere alla propria cultura; dalla parte di
Fiorito è invece mostrata l’opera, non l’azione, della reazione, i disegni macchiati, ancora
riconoscibili anche se violentemente alterati, ma anche qualcosa di ulteriore: le ceramiche, che già
nel loro presentarsi sembrano appartenere a un’altra forza o, forse, a un misto di forze.
Fiorito ci convoca all’Istituto di Studi Filosofici; mostra il risultato delle sue operazioni in un
luogo fortemente caratterizzato, che si è esplicitamente proposto come fonte d’irradiazione della
luce della ragione in lotta con le tenebre e della voce che chiama alla filosofia, che reclama dai
governi il sostegno alla filosofia e incita la filosofia a prestare soccorso a governi altrimenti ciechi.
Come non pensare che nella scelta del luogo sia all’opera l’atto di un teatro – il nostro artista è un
uomo di teatro – che cerca di non fissarsi nella ritorsione, in direzione di un altro gesto e affetto?
Per chi conosce la passione di Fiorito per l’astratto, il vago, il leggero, il non storico o il
sovrastorico – insomma il non collocabile, l’irriconoscibile – che anima i suoi disegni, quadri,
ceramiche, scenografie, la scelta di un luogo così ‘grave’ come l’Istituto di Studi Filosofici appare
singolare. Che abbia invitato a elaborare le note che leggete a chi, una ventina d’anni, capitò di
scrivere, riflettendo sul legame tra filosofia e luoghi, e dunque anche sull’esperienza dell’Istituto,
che era necessario abbandonare la pretesa di identificare la filosofia con questo o quel luogo, per
esercitare invece la potenza dislocante, atopica, della pratica filosofica, ebbene anche questa scelta
dà da pensare, innanzitutto a chi scrive. Che Fiorito, senza per questo impegnarsi in un’arte
concettuale, voglia chiamare a un rinnovato impegno concettuale coloro che di concetti dovrebbero
occuparsi? Fiorito sembra mettere in mostra un’arte che pensa se stessa e che invita la filosofia a
pensare con lei ciò a cui anche la fisica sta pensando, i buchi neri, senza per questo immaginare,
credo, che si possa superare l’eterogeneità dei modi di pensare che costituiscono arte, filosofia e
scienza.
Conviene fare un passo indietro, tornare all’iniziale volontà di reazione. L’artista si procura dei
poster che riproducono disegni geometrici, ripetitivi e decorativi, dai tenui colori, tipici della cultura
islamica e li macchia di uno spruzzo di smalto nero. Non li fa a pezzi; li imbratta in un punto. Più
precisamente, e in modo significativo, li macchia al centro. Non si tratta di una distruzione
paragonabile a quella dell’Isis, ma per Fiorito quelle macchie, quel nero parziale – non si tratta di
un’inquadratura interamente nera, oblio senza resti, tabula rasa oscura, come in Malevič, o di una
nera superficie tormentata, scavata, da cavità e crateri oscuri come nel sacco Tutto nero di Burri del
1956 – sono il segno di un desiderio di annerire, fino all’oscuramento, una tradizione, una
differenza culturale. Un desiderio che lo rende responsabile allo stesso modo di chi si è impegnato a
far scomparire il sito di Palmira. Il nero gettato sui disegni produce un contraccolpo: rimbalza
sull’autore del getto e lo macchia a sua volta. Ora l’artista non è senza macchia. Non può più
rappresentarsi semplicemente come un occidentale ragionevole, tollerante, misurato.
Fiorito assume quel nero, il suo imprevisto eccesso, non lo rinnega né lo giustifica, non lo cancella,
né lo illumina di ‘ragioni’ e giustificazioni (se non a cose fatte), lo mette in mostra. E così finisce
con l’assumere anche la scandalosa prossimità del suo gesto con l’atto dell’Isis contro cui aveva
reagito. Ma proprio l’assunzione dell’atto di distruzione in quanto tale, gli consente un’ulteriore
forzatura, la negazione anche dell’effetto del gesto di distruzione. L’artista non si arresta a
contemplare la macchia, non è soddisfatto del risultato della sua macchinazione: il nero viene
forato, bucato. Lo chiama Buco Nero, facendo segno a quella regione dello spazio da cui, a causa
dell’intensa forza gravitazionale generata dal collasso di una stella, la luce non può fuggire,
qualcosa che inghiotte, annulla e sembra non avere fondo. Non cedendo alla tentazione moralistica
di restaurare il disegno macchiato, e con esso la cultura di cui è espressione, Fiorito insiste nella
distruzione, spingendosi fino all’informe, e così, venendo a capo del pericolo di restarne
affascinato, inghiottito, apre un varco per la creazione di una forma dell’avvenire. Più precisamente,
per creazione di una forma che conservi in sé quel vuoto in cui è passata la foratura del nero. La
violenza ha trovato un limite esercitandosi sui suoi stessi effetti, le macchie, e plasmando un
artefatto che conservi quel vuoto che nessuna cultura può saturare e che, proprio per questo, è la
condizione di ogni creazione.
Disegni macchiati e ceramiche sono i segni di un dramma che non pare destinato a concludersi. Un
dramma che inizia con il racconto di un antefatto fuori scena, continua con la visione dell’effetto di
una ritorsione, prosegue con l’esposizione di forme bucate, che sembrano costruirsi intorno al vuoto
e da questo essere attratte e mosse, così che il vuoto, nello stesso tempo, destituisce il costruito e
continua infinitamente a vibrare. Il buco nel nero, più che il buco nero, spinge, pulsa… senza fine?
Fiorito non ha rinnegato l’atto di distruzione. Per farlo, avrebbe dovuto rinnegare l’arte
contemporanea, la volontà, che la costituisce, di distruggere il passato, di frantumare il concetto di
opera, bellezza e Museo; la passione per le rovine, i resti , i rifiuti, l’immondo; la noncuranza o il
disprezzo per l’archeologica e la filologia; la critica della cultura. Non è percorsa l’arte
contemporanea dal tentativo di un gesto esplicitamente barbarico, rivendicato come tale?
Quando il grande compositore d’avanguardia Karl-Heinz Stockhausen associò il gesto terroristico
dell’11 settembre a un’opera d’arte “cosmica”, non volle forse indicare che quel gesto portava alle
estreme conseguenze la tensione distruttiva che percorre l’arte contemporanea, chiamandola, si
potrebbe aggiungere, a fare i conti con il proprio desiderio, le proprie fantasie? Con la sua reazione
alla distruzione di Palmira Lino Fiorito ha ricevuto come contraccolpo, nell’aspetto di macchie
nere, non solo la verità del suo gesto, ossia la pulsione distruttrice che lo attraversa, ma anche la
verità del gesto dei terroristi: la loro non estraneità a quella cultura occidentale cui si ritengono
estranei. E si potrebbe aggiungere che la stessa riproduzione video della distruzione testimonia
l’analogia con i procedimenti delle performance artistica e la colonizzazione dell’Isis da parte della
logica spettacolare. Inoltre, pare che l’Isis per finanziarsi venda, fuori scena, le opere che non
distrugge. Insomma, iconoclastia, terrorismo, arte e mercato dell’arte sono meno separabili di
quanto con superficialità si crede. E se a questo intreccio viene opposta la tesi che l’arte
contemporanea si propone una distruzione simbolica della tradizione, mentre il terrorismo opera
distruzioni fisiche, materiali, converrebbe ricordare che Allen Kaprow, uno degli inventori
dell’happening ebbe a dichiarare che “il teatro di guerra sud-asiatico del Viet Nam (…) è meglio di
qualunque tragedia” e che “la non-arte è più arte dell’ARTE-arte”. Per di più, una distruzione
soltanto simbolica non è forse più disorientante, più estesamente violenta, di una distruzione fisica
che, se non distrugge la struttura simbolica, può essere, per quanto dolorosa, più facilmente
metabolizzata, localizzata, manipolata? Non è forse proprio questo che sta avvenendo con l’Isis?
Ha ragione Slavoj Žižek: i terroristi non sono veri fondamentalisti. Autentici fondamentalisti
manifesterebbero una “profonda indifferenza”, o un senso di superiorità, di fronte ai modi di vita e
alle opere degli infedeli: “Se i cosiddetti fondamentalisti di oggi davvero credessero di aver trovato
la loro via per la Verità, perché dovrebbero sentirsi minacciati dai non-credenti?”. La volontà di
sterminare gli infedeli e le loro opere testimonia la mancanza di una vera convinzione, la fragilità
della fede, l’invidia e la tentazione. “A differenza dei veri fondamentalisti, i terroristi pseudo-
fondamentalisti sono profondamente turbati, intrigati, affascinati dalla vita peccaminosa dei non-
credenti. È facile intuire che, combattendo l’altro peccaminoso, combattono la loro stessa
tentazione”. Di fronte al vuoto aperto dall’impatto della modernità nel fondamento simbolico della
loro identità, la volontà di distruzione dei terroristi è un modo non già per riconoscere il vuoto, ma
per fare il vuoto intorno al vuoto – lo sterminio spettacolare degli infedeli, delle loro opere, della
loro (presunta e invidiata) potenza – e così tentare di ricostituire il perduto fondamento. Ma proprio
la violenza puramente annichilatrice dice che il fondamento è perduto e che i fondamentalisti hanno
già segretamente introiettato i parametri di valutazione contro cui si scagliano.
Se l’Isis tenta disperatamente di ricostituire il perduto fondamento utilizzando le procedure degli
infedeli, Fiorito non tenta di restaurare i colori e i disegni macchiati. Anzi, isola il nero, dandogli
spessore e rilievo, e lo buca, lo attraversa, gli toglie compattezza. L’artista buca, forza, la sua stessa
reazione: spingendo l’atto di distruzione fino al vuoto produce la condizione per l’atto di creazione.
Il vuoto nel nero rende possibile l’apparizione della serie di ceramiche, che è nello stesso tempo una
serie di vuoti. Il vuoto non può darsi in quanto tale: può apparire solo tra, dentro, su ciò che ha
figura, limite, per quanto irregolare: buco, interruzione, incrinatura, squilibrio, taglio, intervallo,
cavità. Nelle ceramiche di Fiorito il vuoto non è trattenuto, custodito in vasi o brocche, secondo la
metafora dell’artista come vasaio e dell’arte come vaso costruito intorno al vuoto. Si tratta, invece,
di ceramiche senza fondo, di forme inette a raccogliere e contenere. Forme squilibrate, sghembe,
rose, traforate, in cui il vuoto sembra prevalere sul pieno, ma non come vuoto intorno a cui si
costruisce una forma, piuttosto come ciò che fa del costruito un mezzo di passaggio, di transito, un
orifizio. Si tratta di far passare delle correnti, delle onde?
C’è una ceramica che sembra essere ciò da cui le altre ceramiche provengono, ciò in cui sembrano
volere ritornare, in un va e vieni inarrestabile, insensato, senza significato, oggetto senza meta. Si
tratta di un vortice nero dal centro bucato. Un nero che grazie al buco pare pulsare, secondo un
movimento a spirale, in increspature, in onde che dal buco si distendono, si estendono, si
allontanano, ma che al buco sembrano ritornare, girandogli intorno. Le altre ceramiche paiono, da
questo punto di vista, nascere da quelle increspature e onde, senza essersi però liberate dal vuoto,
che continua a trafiggerle, a farle tremare, a squilibrarle.
Ceramiche pulsanti. Grazie a questa pulsazione il nero – la tenebra, la morte – confina con il
bianco. Il nero, non colore che inghiotte ogni colore e il bianco, non colore come virtualità di colori,
atti, gesti non ancora visti?
Un’arte in cui il vuoto predomina sul pieno. Un’arte in se stessa squilibrata, non certa di sé,
sempre da ripetersi in un andirivieni dal vuoto alla costruzione e da questa al vuoto. Un’arte che si
ritrova solo perdendosi nel vuoto e dal vuoto proveniente come pulsione, tremito, onda. Un’arte, per
di più, che ‘porta’ il vuoto e lo mostra come ciò che universalmente abbiamo in comune.
15
febbraio 2016
Lino Fiorito – Buchi neri
Dal 15 al 27 febbraio 2016
arte contemporanea
Location
PALAZZO SERRA DI CASSANO / IISF – ISTITUTO ITALIANO PER GLI STUDI FILOSOFICI
Napoli, Via Monte Di Dio, 14, (Napoli)
Napoli, Via Monte Di Dio, 14, (Napoli)
Orario di apertura
tutti i giorni dalle 15.30 alle 18.30, sabato dalle 9.30 alle 13.30
Vernissage
15 Febbraio 2016, ore 17
Autore
Curatore