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“I due grattacieli gemelli (…) vengono progettati da Minoru Yamasaki come allampanati fantasmi, come “happenings” teoricamente transeunti, superblocchi incerti sulla propria funzione. Il fuori scala è in questo senso funzionale a tale ambiguità, accentuata dalla struttura a pareti continue. Eppure, l’immediata “fruibilità” di simili edifici chiamati a ristrutturare il volto dei centri urbani realizza il sogno di una architettura come linguaggio comune e di facile assimilazione, intimamente connessa alle leggi della mercificazione formale e del mercato edilizio”. Così il rigore critico di M. Tafuri stigmatizzava, appena pochi anni dopo la loro ultimazione, le torri gemelle di New York, mentre, con altrettanto mestiere di storico, forniva alle stesse puntuale collocazione ne l’Architettura Contemporanea. Dispiace non poter avere oggi un suo lucido pensiero in merito alla tragedia ed alla distruzione di quegli edifici, dei quali aveva previsto e riportato la fortuna e la rilevanza di simboli. Rilevanza parossisticamente ingigantita dagli avvenimenti ma anche e soprattutto dall’inevitabile eco mediatica degli stessi.
Questa infatti compie il ricongiungimento ad altri miti – dalla coca-cola all’apple-pie, dal self-made-man a stars&stripes – attraverso il quale si ricercava la umanizzazione dell’espressione architettonica di una potenza economica i cui risvolti non sono e non erano solo benessere e sicurezza. Compimento tardivo poiché l’umanizzazione si è invece concretizzata attraverso una imprevista vulnerabilità ed un tragico crollo, che non è neppure solo fisico.
Per questo non si può non pensare a cosa sarà, domani, di quell’incredibile vuoto.
Poi perché, oltre il valore di documento della cultura del secolo passato, diverso può anche essere il giudizio estetico. Le parole di Fuksas:”Erano dei veri capolavori (…) Eleganti e perfetti in ogni dettaglio, da vicino ed a distanza”, pongono una sola cautela: ”… spero si aspetti un po’ a ricostruire (…) dobbiamo impegnarci a cambiare le regole del mondo cinico e disattento in cui viviamo.” ( Il Messaggero, giovedì 13/IX). Se Portoghesi non parla di capolavori – termine più facilmente ricorrente sulla stampa d’oltreoceano – sottolinea: “Erano edifici tecnologicamente avanzati nonostante fossero stati costruiti trent’anni fa (…) rappresentarono una soluzione architettonica interessante” e prevede: “che anche per ragioni di prestigio l’America vorrà che vengano ricostruite tali e quali”. (Gazzetta di Parma, sabato15/IX), pur avendo già affermato che “il vuoto sarebbe più eloquente di un nuovo pieno” (Avvenire, giovedì 13/IX). Diverse le motivazioni di Ambasz che ricorda intorno alla skyline di Manhattan: “Quando apparvero le Twin Towers tutti trovarono che deformavano questo paesaggio. Non erano due guglie aggraziate, solo due edifici fuori misura. Io non credo al grigio dei palazzi di città (…) Penso che sia tempo che il verde torni a dominare sul grigio. No, non ricostruirei le Twin Towers.” (ibidem). In ultimo insieme alla previsione di ricostruzione “magari più grande, più alto di prima” perché “non è proponibile un cambiamento della struttura della città” il non rimpianto delle torri di Cervellati: “Al loro posto oggi erigerei un monumento a forma di cupola,(…) come messaggio di pace”(ibidem).
Il confronto dell’architettura con i drammi e le tragedie della storia non ha e forse non può avere una soluzione univoca. Perché, ancora una volta, – è la stessa architettura ad essere messa fortemente in questione. Lo aveva raccontato, dopo il sisma che aveva colpito nel 1995 la regione di Osaka-Kobe-Awaji, A. Isozaki con l’installazione Fratture alla Sesta Biennale di Venezia e le riflessioni su Lotus 93 intorno ai termini di costruzione e distruzione, per le architetture, generazione e degenerazione, per gli esseri viventi. Non si trattava di esporre o nobilitare le macerie del terremoto, ma di poter credere che esse, “dopo tutto, non siano né anti né non-architettoniche, ma che invece facciano parte di quel meccanismo vitale, proprio dell’architettura, che ne garantisce la sussistenza (sebbene si tratti di quella parte oscura e straordinaria che appare sempre in forma di alterità)”.
E credere che esista un’altra faccia di una tragedia è per tutti, architetti e non, importante.
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Torri gemelle, cosa fare?
Daniele Di Campi
[exibart]
Interessante…
mi vengono in mente le mie parole l’altra sera sorseggiando un drink in compagnia di amici che mi reputavano enfatizzando la cosa “sciacallo” perche di fronte a tale tragedia io argomentai sul cosa fare ora, sull’architettura. Ebbene forse un po ognuno di loro aveva ragione ma poi le riflessioni continuarono e si approfondirono. VUOTO VS PIENO. le idee si sovrapponevano ma inesorabilmente si intrecciavano con tutti quei morti e con la indeterminazione sul nostro futuro. Aspettiamo…aspettiamo parecchio. Ma poi credo che occorra pensare ad un “monumento al vuoto” al nulla con una luce per ogni morto, un vuoto che lascerà il segno nella storia del mondo e a questo anche gli architetti devono pensare…
il vuoto che ha occupato quel giorno nel cuore dell’America, e di tutto il mondo può essere lo stimolo per lasciare una traccia nel vuoto architettonico di New York…
il mio parere di giovane architetto è che non si può ricostruire sopra i morti. li sotto resteranno sempre la anime di questa tragedia ..
il vuoto fisico che si è creato deve farci riflettere per il resto della nostra esistenza.
il vuoto che rimane sarà una speranza che ci darà delle motivazioni per il futuro.
ora io ne ho, ma con molti dubbi e paure.
la memoria rimane.
Cari elena e A:G,
anch’io, come voi, penso sia più giusto lasciare un “vuoto” che lascerà il segno nella storia del mondo.
Mi piaci A:G quando dici: ” a questo anche gli architetti devono pensare “.
Con la vostra interiorità sarete senz’altro bravi architetti.
Per il “vostro” futuro cercate di essere positivi, è l’unico modo per creare forze positive necessarie.
Cari saluti.
Maria
Sarebbe giusto ricordare l’11 settembre 2001 con un grande monumento al vuoto, proprio con il vuoto. Ma non sono certa che sia la scelta giusta da fare. Sì, per lungo tempo dovrà restare il vuoto là intorno, a ricordare ossessivamente l’annientamento del valore della vita umana. Sì, dovrà restare il vuoto per lasciare il tempo necessario all’uomo di riflettere su cosa significhi non rispettare una cultura, una civiltà, la vita umana. Questo dovrebbe far riflettere il mondo intero, non solo chi vivrà nei prossimi anni vicino a quella terra bruciata. Ma poi si dovrà ricominciare a pensare alla ricostruzione. Per ora comunque è prematuro anche solo pensarci.
Perchè non costruire un grattacielo + alto dei precedenti in nome della pace?
PEACE TOWER