Create an account
Welcome! Register for an account
La password verrà inviata via email.
Recupero della password
Recupera la tua password
La password verrà inviata via email.
-
- container colonna1
- Categorie
- #iorestoacasa
- Agenda
- Archeologia
- Architettura
- Arte antica
- Arte contemporanea
- Arte moderna
- Arti performative
- Attualità
- Bandi e concorsi
- Beni culturali
- Cinema
- Contest
- Danza
- Design
- Diritto
- Eventi
- Fiere e manifestazioni
- Film e serie tv
- Formazione
- Fotografia
- Libri ed editoria
- Mercato
- MIC Ministero della Cultura
- Moda
- Musei
- Musica
- Opening
- Personaggi
- Politica e opinioni
- Street Art
- Teatro
- Viaggi
- Categorie
- container colonna2
- container colonna1
Estetica del gusto. Secondo step: Vis-à-Vis Leyla Goormaghtigh | Sophie Schmidt
C|E Contemporary Milano, avvia un ciclo di mostre, articolato attraverso quattro Vis-à-Vis, da maggio a ottobre sulla tematica dell’Expo Universale 2015 Nutrire il Pianeta-Energia per la Vita, in una metropoli italiana pensata come una vetrina mondiale di eventi. Si tratta della messa in opera di una mostra d’arte che convogli una rappresentazione del gusto, nell’accezione del Cibo e del Bello, quindi di un’esperienza estetica correlata, necessariamente, all’essere biologico come all’essere ontologico
Comunicato stampa
Segnala l'evento
ESTETICA DEL GUSTO.
Delizie e Veleni di un menù di massa
Secondo step: Vis-à-Vis Leyla Goormaghtigh | Sophie Schmidt
a cura di Viana Conti
giovedì 16 luglio 2015 - 6 settembre 2015
Opening giovedì 16 luglio 2015 ore 18.00 - 22.00
ore19 introduzione alla mostra della curatrice
C|E Contemporary Milano, ha avviato un ciclo di mostre da maggio a ottobre sulla tematica dell’Expo Universale
2015 Nutrire il Pianeta-Energia per la Vita, in una metropoli italiana pensata come una vetrina mondiale di eventi.
Si tratta della messa in opera di una mostra d’arte che convogli una rappresentazione del gusto, nell’accezione
del Cibo e del Bello, quindi di un’esperienza estetica correlata, necessariamente, all’essere biologico come
all’essere ontologico. Già a partire dal termine, in latino classico, sapare si coglie la doppia valenza di aver sapo-
re e sapere, di senso del gusto e di capacità di giudizio. La questione del gusto, tuttavia, connessa al piacere o
al non-piacere, alla bellezza o alla non-bellezza, e più recentemente al Kitsch e al Trash, nelle tesi iniziali di Cle-
ment Greenberg e Gillo Dorfles, mette in campo letture differenti. Se da una parte sembra che il giudizio di gusto
non possa prescindere dalla modalità di percezione di un soggetto, dalle sue attitudini simpatetiche, dall’altra
c’è chi sostiene che tale giudizio presupponga un senso condiviso. È Kant che, inizialmente, con la sua Critica
del Giudizio, propende per una condizione di necessità del consenso di una Communitas, di una Gemeinschaft.
Inoltre, il valore sensoriale del giudizio del gusto non escluderebbe, secondo una sua riconosciuta legittimità
estetica, una vocazione cognitiva. L’esperienza dell’arte non cessa di aprirsi tanto ad una prospettiva inter-
soggettiva quanto all’avvio di processi relazionali. C’è ancora chi ritiene che non si dia un’estetica che non sia anche un’antropologia, un giudizio del gusto che non sia, adornianamente, la mediazione di ogni immediatezza.
Sul terreno di una comunione tra il Gusto del Cibo, l’Arte Figurativa e la Narrativa, impossibile non ricordare che
proprio a Milano, nel 1982, un gruppo di intellettuali di sinistra, tra cui Antonio Porta, Alberto Capatti, Antonio
Attisani, Folco Portinari, Antonio Piccinardi, Nanni Balestrini, fonda, sui temi dell’alimentazione e delle “culture
materiali”, la rivista “La Gola”, edita da Gianni Sassi, dai cui contatti con Carlo Petrini, agronomo, scrittore,
attivista, scaturirà, a Bra nel 1986, il movimento culturale internazionale Slow Food, con il nome di Arcigola.
Come una scintillante strobosfera, dalle mini sfaccettature a specchio, ruotando riflette flash dello spazio circostan-
te, così lo scenario espositivo di questi otto artisti della Fondazione PROGR di Berna, proietta in mostra un mosai-
co di linguaggi, di culture dei diversi Paesi di provenienza, di gusti, di passioni, di filosofie di vita, di visioni del mondo
esterno ed interiore. La centralità del discorso, sul tema gastronomico, autorizza, da parte degli artisti invitati, uno
sguardo esteso alle offerte dell’industria culturale, nelle sue varie modalità comunicative, performative, informati-
ve, nonché alla qualità cerimoniale dell’evento e conseguentemente a quei rituali e tic di massa che la TV, i media,
ed il cinema, grandi elaboratori dell’immaginario collettivo, non cessano di indurre e stimolare quotidianamente.
La mostra Estetica del Gusto. Delizie e Veleni di un menù di massa, attraverso i vari linguaggi praticati,
slittanti tra pura manualità e tecnologia elettronica avanzata, anche in soluzioni interattive, restituisce una ri-
flessione problematica, ma stimolante, sul potenziale dei nuovi media e sulle correnti di pensiero che ad esse
fanno riferimento, generando per lo spettatore, quella dimensione di ordine dialogico, che consente di negoziare
significati e di condividere esiti, operando nelle varie sfere del sociale, sia a livello pubblico che interpersonale.
Leyla Goormaghtigh. Resti. Sacralità Trasversale del Nutrimento e dell’Habitat
La mostra proposta dall’artista Leyla Goormaghtigh all’interno del ciclo sul cibo e sul nutrimento, nel contesto
dell’Expo Universale 2015, a Milano, non si discosta dal suo abituale ambito di riflessione, che pone la Casa,
intesa come Habitat e Habitus, ed i Resti del Rito quotidiano del vivere, al centro della sua ricerca. La sua opera
è permeata dalla poetica bachelardiana, di segno rassicurante, del nido, nello spazio della casa, e della poeti-
ca, di segno destabilizzante, dello spostamento, del volo nel vuoto, dell’azzardo, dell’imprevisto, non escluso
quello del viaggio per mare del migrante, del rifugiato. Ricorrono, infatti, nel suo multiverso formale, le figure
della barricata, del rifugio, del bunker, del recinto, di fondi lignei spezzati, collassati, di oggetti irreali sospesi nel
vuoto, temporaneamente sottratti alle leggi di gravità, quando, addirittura, il suo inventario grafico, sulla scia
di ricercatori di spazi impraticabili, come Reutersvärd, Escher, i Penrose, non scala o precipita da prospettive
simulate, falsi incastri, slittamenti dimensionali, otticamente illusori. Ma c’è anche un’altra vertigine, che si profila
accanto allo spazio bianco del foglio, o nel dilagare della macchia nera di inchiostro, ed è quella, insondabile,
della propria interiorità. Nata a Ginevra nel 1976, residente a Berna, Leyla Goormaghtigh è un’artista visiva che
rappresenta, con il disegno a grafite, l’inchiostro di china, l’acquarello, la stylo bic, assemblage di elementi tratti
dalla realtà, dall’immaginazione, dall’attività onirico-ipnagogica, dagli archivi della memoria. Sono forme inven-
tate, che nuotano, in spazi astratti, come in una danza al ralenti; sono presenze, sospese nel vuoto di un foglio,
che si ibridano con elementi organici, tralci vegetali, ritagli di pelliccia, elementi tratti dalla realtà come il legno.
Innegabile esperta di innesti, alimenta il suo immaginario alle sue radici belghe, da parte di padre, e iraniane,
da parte di madre. Accanto ai décalages tra bidimensione e tridimensione, l’artista non cessa di riprodurre il
percorso della mente nel rendere leggibili dati incompatibili e non presenti negli archivi delle forme codificate,
nei depositi di una mnemoteca. Di formazione anche letteraria, sovente pratica dispositivi narrativi, frequentati
dallo scrittore argentino Jorge Luis Borges, per attivare mondi di realtà parallele, slittamenti temporali, soggetti e
oggetti, anche quotidiani, ma di misteriosa provenienza. Da un punto di osservazione etno-antropologico, non
soprende, infatti, che i suoi disegni a inchiostro di china, di piccole e medie dimensioni, si organizzino espo-
sitivamente, sia visti singolarmente che nell’insieme, in una composizione aggregante a Totem. Un’avvolgente
e, al tempo stesso, inquietante pelliccia grigia avanza, morbidamente, su strutture rigide di legno o di metallo,
mettendo in moto memorie remote di un lupo-totem, già evocato, da tribù pagane, in situazioni di pericolo. Si attiva così, simbolicamente, un’aura di ritualità e sacralità, di liturgia ed iniziazione, che fa rivivere, in un clan fami-
liare, in un caldo ambiente domestico, dove il cibo viene quotidianamente offerto e consumato, il mito del ribelle
Prometeo, signore del fuoco, schierato dalla parte degli Uomini, a cui egli destina il meglio delle carni, lasciando
i resti delle ossa e della pelle agli Dei, che troveranno il modo di punire lui e l’umanità tutta, rendendola mortale.
Accanto al profilarsi di Totem, nella memoria delle sue calligrafie ideogrammatiche, emergono, reiteratamente,
particolari fermi-immagine di archetipi, che lo storico dell’arte tedesco Aby Warbug definirebbe Pathosformeln-
Formule del Pathos, presenti in antiche culture, scomparse in epoche successive, quindi riemerse. Quando le
sue scansioni calligrafiche di oggetti assumono un andamento para-narrativo rinviano, cripticamente, a orientali
emakimono o etakimono. Se, nelle preziose chine rituali di Leyla Goormaghtigh in mostra, un tronco totemico
fa razza con un animale, un minerale, un vegetale, un albero, un vaso, un mortaio da cucina, un osso di scar-
to, un supporto di legno, un mattone, un impossibile appendiabiti bipede, un involucro misterioso, inevitabile
è il rimando ai Corpi senz’organi di Deleuze e Guattari, mentre sono organi senza corpo quei piccoli disegni
in colonna, quasi quadri-oggetto, sul tema della Digestione, che rappresentano cellule intestinali colorate con
tannini alimentari, e che, provocatoriamente, si confrontano con i grandi disegni sull’Indigestione, su carta
libera, scaturiti da un’ampia gestualità su inarrestabili colature di inchiostro di china e tintura di mallo di noce.
La preziosità, quasi incisoria, della micro dimensione si contrappone al gusto Dada, al limite del dissacrante
e dell’irriverente, delle opere iperdimensionate. In questa forzatura dei limiti dell’estetica convenzionale e della
logica formale affiora, nell’opera di Leyla Goormaghtigh anche il gusto del nonsense surrealista. Se una fami-
liarità si può trovare in quell’aspetto del suo lavoro che rappresenta gli oggetti nei loro accostamenti incongrui è
con l’artista svizzera Meret Oppenheim, come ha anche acutamente osservato il critico d’arte e curatore Boris
Magrini; relativamente, invece, a quella narrazione sottesa al polimorfismo del suo universo di oggetti naturali e
cultuali, è possibile trovare un’ascendenza concettuale nell’opera del geniale artista belga Marcel Broodthaers.
Non è inusuale per Leyla Goormaghtigh forzare, con il suo potenziale immaginativo e visionario, i territori della
percezione visiva e tattile. Resta indecidibile se i suoi archetipi totemici siano da ascriversi ad una metafisica
surreale o ad una sublimazione poetica della realtà.
Sophie Schmidt. Arte e Supermercato. Spettralità Fantasmagorica degli Oggetti
Davanti alla fantasmagoria della merce di una società consumistica, un’artista come Sophie Schmidt opera la
scelta di riprodurre artigianalmente, ad uno ad uno, in diverse dimensioni, oggetti con marchi, simboli, acronimi,
loghi pubblicitari, non esclusi slogan, atti a definire l’identità visiva dell’azienda, con una capacità mimetica tal-
mente straordinaria da rendere indistinguibile la copia dall’originale. Si tratta di contenitori e involucri di prodotti
di uso quotidiano, appartenenti alle sfere dell’alimentazione in genere, della prima colazione, della nutrizione
dell’uomo e del pianeta, come nel caso della presente mostra, dello sport, dell’igiene della persona, della sar-
toria, della moda, della fotografia. Questi feticci della merce, esprimendo una forza lavoro, mettono in circolo
l’universo spettrale della reificazione, che assume le sembianze, nella compulsione a collezionare di Sophie
Schmidt, di tavolette di chewingum, tute e sacche sportive, metri a nastro di tela plastificata, contenitori di
yogourth e di latte, enormi sacchetti di farina, buste, tubetti di colore, di dentifricio. Se, da una parte, l’artista
è stimolata dal salto di dimensione dal micro al macro e dal confronto dell’originale con il suo doppio, del vero
con il falso, dall’altra, la sua opera trasmette una riflessione ironica e malinconica sull’inarrestabile induzione
dei bisogni in una società di massa. Affiora, con evidenza, nel suo lavoro, il rapporto enigmatico esistente tra
la vita reale ed i prodotti destinati alla vita. Il linguaggio che adotta nei suoi allestimenti in galleria e nel museo,
accuratamente adeguati allo spazio espositivo, è di segno decisamente minimalista, come si può rilevare nell’in-
stallazione Höchtsmass del 2008, in cui il classico metro giallo da sarto, esorbitato dalla sua misura - cm. 24 x 240 - si snoda per tutta la lunghezza della galleria. Lo spettacolo del consumismo più sfrenato, in atto nelle
metropoli occidentali, la induce, come effetto di reazione e resistenza, a collezionare, ossessivamente, prodotti
di misurazione, di scarto, come gli involucri di plastica, carta, cartone, del mondo della merce, oltre alle fatture,
gli scontrini fiscali, i cartellini dei prezzi speciali, delle promozioni, per riprodurli ad arte, facendone un suo uni-
verso creativo: l’esito risponde ad un lavoro di riproduzione ad acquarello, su supporto cartaceo, più o meno
pesante, perfettamente eseguito. Perfino il sacco della spazzatura, ingigantito dalla prospettiva, in una società
iperconsumistica, di un’inarrestabile crescita dei rifiuti, si riveste del glamour della pubblicità, in un sistema dello
star system, in cui ogni prodotto trova, sovente anche nel cinema, il suo testimonial di successo. Il mondo da
cui Sophie Schmidt trae i suoi soggetti è analogo a quello dei prodotti industriali, di largo consumo, e delle
catalogazioni merceologiche a cui ha fatto riferimento, per i suoi ready made, Marcel Duchamp, come ha luci-
damente dimostrato l’artista italiano Franco Vaccari nel suo libro Duchamp messo a nudo. Dal ready made alla
finanza creativa, gli Ori edizioni, 2009. Davanti a questo dispiegamento di ogni micro o macro dispositivo della
macchina produttiva, come pure dell’Industria Culturale, inevitabile è il rinvio ad Andy Warhol ed ai suoi Brillo
Boxes e Campbell’s Soup, spostati dagli scaffali del supermercato ed esposti, a differenza delle riproduzioni di
Sophie Schmidt, senza alcun intervento creativo, in gallerie e musei d’arte, con la denominazione di Pop Art,
di cui è l’indiscussa icona. C’è da chiedersi se la legittimazione di valore di queste opere provenga dall’effetto
sociale del dispendio di forza lavoro che le ha prodotte e dall’investimento di scambio che ne è seguito, con altri
soggetti, come pure, se dall’accoppiamento del corpo vivente dell’artista con il corpo inorganico della merce,
scaturisca una connotazione feticistica dell’opera d’arte. È pensabile che la sua scelta di campo sia nata da
una posizione critica nei confronti di un globalismo omologante, come pure da una sua resistenza oppositiva
alla velocità. Prese, infatti, le distanze dalla tecnologia digitale, l’artista ricorre alla tecnica dell’acquarello e di una
sistematica manualità. Uscita dai ritmi disumani della catena di montaggio, l’autrice ritrova tempi di concentra-
zione nel lavoro, che le consentirebbero di pensare, meditare, sognare. La lentezza e la minuziosità di esecu-
zione dell’opera trova un suo contraltare nella nevrosi adrenalinica della collettività contemporanea, che regola
costantemente i suoi tempi su performance estreme. Significativa diventa, a questo proposito, una sua opera,
costituita dalla riproduzione di un rutilante draghetto rosso accostato alla scritta aforismatica, in inglese e giap-
ponese, ad acquarello: It wouldn’t do any harm if you spend a moment relaxing to pass time! Non arrecheresti
alcun danno se passassi un po’ di tempo in relax! L’esecuzione a mano dell’Opera d’arte, nell’epoca della sua
riproducibilità tecnica, di memoria benjaminiana, chiama in causa la questione dell’unicità e di riflesso dell’aura,
correlata anche alla legittimazione del suo valore. Una componente concettuale del suo lavoro è leggibile nel
rapporto ribaltato che ha con il ready made, da lei assunto come modello da “mettere in posa”, decostruire
nelle sue componenti e ricostruire creativamente a mano per una “vetrina” che non è quella del supermercato,
ma quella del mondo dell’arte. Sophie Schmidt, nata nel 1969 a Friburgo in Brisgovia, Germania, cresciuta ad
Atene, formatasi all’Accademia d’Arte Figurativa di Berlino, residente a Berna, inizia la sua attività espositiva
nel Duemila. Ottiene riconoscimenti pubblici, borse di studio, residenze internazionali ed è presente in collezioni
pubbliche e private.
Viana Conti
Delizie e Veleni di un menù di massa
Secondo step: Vis-à-Vis Leyla Goormaghtigh | Sophie Schmidt
a cura di Viana Conti
giovedì 16 luglio 2015 - 6 settembre 2015
Opening giovedì 16 luglio 2015 ore 18.00 - 22.00
ore19 introduzione alla mostra della curatrice
C|E Contemporary Milano, ha avviato un ciclo di mostre da maggio a ottobre sulla tematica dell’Expo Universale
2015 Nutrire il Pianeta-Energia per la Vita, in una metropoli italiana pensata come una vetrina mondiale di eventi.
Si tratta della messa in opera di una mostra d’arte che convogli una rappresentazione del gusto, nell’accezione
del Cibo e del Bello, quindi di un’esperienza estetica correlata, necessariamente, all’essere biologico come
all’essere ontologico. Già a partire dal termine, in latino classico, sapare si coglie la doppia valenza di aver sapo-
re e sapere, di senso del gusto e di capacità di giudizio. La questione del gusto, tuttavia, connessa al piacere o
al non-piacere, alla bellezza o alla non-bellezza, e più recentemente al Kitsch e al Trash, nelle tesi iniziali di Cle-
ment Greenberg e Gillo Dorfles, mette in campo letture differenti. Se da una parte sembra che il giudizio di gusto
non possa prescindere dalla modalità di percezione di un soggetto, dalle sue attitudini simpatetiche, dall’altra
c’è chi sostiene che tale giudizio presupponga un senso condiviso. È Kant che, inizialmente, con la sua Critica
del Giudizio, propende per una condizione di necessità del consenso di una Communitas, di una Gemeinschaft.
Inoltre, il valore sensoriale del giudizio del gusto non escluderebbe, secondo una sua riconosciuta legittimità
estetica, una vocazione cognitiva. L’esperienza dell’arte non cessa di aprirsi tanto ad una prospettiva inter-
soggettiva quanto all’avvio di processi relazionali. C’è ancora chi ritiene che non si dia un’estetica che non sia anche un’antropologia, un giudizio del gusto che non sia, adornianamente, la mediazione di ogni immediatezza.
Sul terreno di una comunione tra il Gusto del Cibo, l’Arte Figurativa e la Narrativa, impossibile non ricordare che
proprio a Milano, nel 1982, un gruppo di intellettuali di sinistra, tra cui Antonio Porta, Alberto Capatti, Antonio
Attisani, Folco Portinari, Antonio Piccinardi, Nanni Balestrini, fonda, sui temi dell’alimentazione e delle “culture
materiali”, la rivista “La Gola”, edita da Gianni Sassi, dai cui contatti con Carlo Petrini, agronomo, scrittore,
attivista, scaturirà, a Bra nel 1986, il movimento culturale internazionale Slow Food, con il nome di Arcigola.
Come una scintillante strobosfera, dalle mini sfaccettature a specchio, ruotando riflette flash dello spazio circostan-
te, così lo scenario espositivo di questi otto artisti della Fondazione PROGR di Berna, proietta in mostra un mosai-
co di linguaggi, di culture dei diversi Paesi di provenienza, di gusti, di passioni, di filosofie di vita, di visioni del mondo
esterno ed interiore. La centralità del discorso, sul tema gastronomico, autorizza, da parte degli artisti invitati, uno
sguardo esteso alle offerte dell’industria culturale, nelle sue varie modalità comunicative, performative, informati-
ve, nonché alla qualità cerimoniale dell’evento e conseguentemente a quei rituali e tic di massa che la TV, i media,
ed il cinema, grandi elaboratori dell’immaginario collettivo, non cessano di indurre e stimolare quotidianamente.
La mostra Estetica del Gusto. Delizie e Veleni di un menù di massa, attraverso i vari linguaggi praticati,
slittanti tra pura manualità e tecnologia elettronica avanzata, anche in soluzioni interattive, restituisce una ri-
flessione problematica, ma stimolante, sul potenziale dei nuovi media e sulle correnti di pensiero che ad esse
fanno riferimento, generando per lo spettatore, quella dimensione di ordine dialogico, che consente di negoziare
significati e di condividere esiti, operando nelle varie sfere del sociale, sia a livello pubblico che interpersonale.
Leyla Goormaghtigh. Resti. Sacralità Trasversale del Nutrimento e dell’Habitat
La mostra proposta dall’artista Leyla Goormaghtigh all’interno del ciclo sul cibo e sul nutrimento, nel contesto
dell’Expo Universale 2015, a Milano, non si discosta dal suo abituale ambito di riflessione, che pone la Casa,
intesa come Habitat e Habitus, ed i Resti del Rito quotidiano del vivere, al centro della sua ricerca. La sua opera
è permeata dalla poetica bachelardiana, di segno rassicurante, del nido, nello spazio della casa, e della poeti-
ca, di segno destabilizzante, dello spostamento, del volo nel vuoto, dell’azzardo, dell’imprevisto, non escluso
quello del viaggio per mare del migrante, del rifugiato. Ricorrono, infatti, nel suo multiverso formale, le figure
della barricata, del rifugio, del bunker, del recinto, di fondi lignei spezzati, collassati, di oggetti irreali sospesi nel
vuoto, temporaneamente sottratti alle leggi di gravità, quando, addirittura, il suo inventario grafico, sulla scia
di ricercatori di spazi impraticabili, come Reutersvärd, Escher, i Penrose, non scala o precipita da prospettive
simulate, falsi incastri, slittamenti dimensionali, otticamente illusori. Ma c’è anche un’altra vertigine, che si profila
accanto allo spazio bianco del foglio, o nel dilagare della macchia nera di inchiostro, ed è quella, insondabile,
della propria interiorità. Nata a Ginevra nel 1976, residente a Berna, Leyla Goormaghtigh è un’artista visiva che
rappresenta, con il disegno a grafite, l’inchiostro di china, l’acquarello, la stylo bic, assemblage di elementi tratti
dalla realtà, dall’immaginazione, dall’attività onirico-ipnagogica, dagli archivi della memoria. Sono forme inven-
tate, che nuotano, in spazi astratti, come in una danza al ralenti; sono presenze, sospese nel vuoto di un foglio,
che si ibridano con elementi organici, tralci vegetali, ritagli di pelliccia, elementi tratti dalla realtà come il legno.
Innegabile esperta di innesti, alimenta il suo immaginario alle sue radici belghe, da parte di padre, e iraniane,
da parte di madre. Accanto ai décalages tra bidimensione e tridimensione, l’artista non cessa di riprodurre il
percorso della mente nel rendere leggibili dati incompatibili e non presenti negli archivi delle forme codificate,
nei depositi di una mnemoteca. Di formazione anche letteraria, sovente pratica dispositivi narrativi, frequentati
dallo scrittore argentino Jorge Luis Borges, per attivare mondi di realtà parallele, slittamenti temporali, soggetti e
oggetti, anche quotidiani, ma di misteriosa provenienza. Da un punto di osservazione etno-antropologico, non
soprende, infatti, che i suoi disegni a inchiostro di china, di piccole e medie dimensioni, si organizzino espo-
sitivamente, sia visti singolarmente che nell’insieme, in una composizione aggregante a Totem. Un’avvolgente
e, al tempo stesso, inquietante pelliccia grigia avanza, morbidamente, su strutture rigide di legno o di metallo,
mettendo in moto memorie remote di un lupo-totem, già evocato, da tribù pagane, in situazioni di pericolo. Si attiva così, simbolicamente, un’aura di ritualità e sacralità, di liturgia ed iniziazione, che fa rivivere, in un clan fami-
liare, in un caldo ambiente domestico, dove il cibo viene quotidianamente offerto e consumato, il mito del ribelle
Prometeo, signore del fuoco, schierato dalla parte degli Uomini, a cui egli destina il meglio delle carni, lasciando
i resti delle ossa e della pelle agli Dei, che troveranno il modo di punire lui e l’umanità tutta, rendendola mortale.
Accanto al profilarsi di Totem, nella memoria delle sue calligrafie ideogrammatiche, emergono, reiteratamente,
particolari fermi-immagine di archetipi, che lo storico dell’arte tedesco Aby Warbug definirebbe Pathosformeln-
Formule del Pathos, presenti in antiche culture, scomparse in epoche successive, quindi riemerse. Quando le
sue scansioni calligrafiche di oggetti assumono un andamento para-narrativo rinviano, cripticamente, a orientali
emakimono o etakimono. Se, nelle preziose chine rituali di Leyla Goormaghtigh in mostra, un tronco totemico
fa razza con un animale, un minerale, un vegetale, un albero, un vaso, un mortaio da cucina, un osso di scar-
to, un supporto di legno, un mattone, un impossibile appendiabiti bipede, un involucro misterioso, inevitabile
è il rimando ai Corpi senz’organi di Deleuze e Guattari, mentre sono organi senza corpo quei piccoli disegni
in colonna, quasi quadri-oggetto, sul tema della Digestione, che rappresentano cellule intestinali colorate con
tannini alimentari, e che, provocatoriamente, si confrontano con i grandi disegni sull’Indigestione, su carta
libera, scaturiti da un’ampia gestualità su inarrestabili colature di inchiostro di china e tintura di mallo di noce.
La preziosità, quasi incisoria, della micro dimensione si contrappone al gusto Dada, al limite del dissacrante
e dell’irriverente, delle opere iperdimensionate. In questa forzatura dei limiti dell’estetica convenzionale e della
logica formale affiora, nell’opera di Leyla Goormaghtigh anche il gusto del nonsense surrealista. Se una fami-
liarità si può trovare in quell’aspetto del suo lavoro che rappresenta gli oggetti nei loro accostamenti incongrui è
con l’artista svizzera Meret Oppenheim, come ha anche acutamente osservato il critico d’arte e curatore Boris
Magrini; relativamente, invece, a quella narrazione sottesa al polimorfismo del suo universo di oggetti naturali e
cultuali, è possibile trovare un’ascendenza concettuale nell’opera del geniale artista belga Marcel Broodthaers.
Non è inusuale per Leyla Goormaghtigh forzare, con il suo potenziale immaginativo e visionario, i territori della
percezione visiva e tattile. Resta indecidibile se i suoi archetipi totemici siano da ascriversi ad una metafisica
surreale o ad una sublimazione poetica della realtà.
Sophie Schmidt. Arte e Supermercato. Spettralità Fantasmagorica degli Oggetti
Davanti alla fantasmagoria della merce di una società consumistica, un’artista come Sophie Schmidt opera la
scelta di riprodurre artigianalmente, ad uno ad uno, in diverse dimensioni, oggetti con marchi, simboli, acronimi,
loghi pubblicitari, non esclusi slogan, atti a definire l’identità visiva dell’azienda, con una capacità mimetica tal-
mente straordinaria da rendere indistinguibile la copia dall’originale. Si tratta di contenitori e involucri di prodotti
di uso quotidiano, appartenenti alle sfere dell’alimentazione in genere, della prima colazione, della nutrizione
dell’uomo e del pianeta, come nel caso della presente mostra, dello sport, dell’igiene della persona, della sar-
toria, della moda, della fotografia. Questi feticci della merce, esprimendo una forza lavoro, mettono in circolo
l’universo spettrale della reificazione, che assume le sembianze, nella compulsione a collezionare di Sophie
Schmidt, di tavolette di chewingum, tute e sacche sportive, metri a nastro di tela plastificata, contenitori di
yogourth e di latte, enormi sacchetti di farina, buste, tubetti di colore, di dentifricio. Se, da una parte, l’artista
è stimolata dal salto di dimensione dal micro al macro e dal confronto dell’originale con il suo doppio, del vero
con il falso, dall’altra, la sua opera trasmette una riflessione ironica e malinconica sull’inarrestabile induzione
dei bisogni in una società di massa. Affiora, con evidenza, nel suo lavoro, il rapporto enigmatico esistente tra
la vita reale ed i prodotti destinati alla vita. Il linguaggio che adotta nei suoi allestimenti in galleria e nel museo,
accuratamente adeguati allo spazio espositivo, è di segno decisamente minimalista, come si può rilevare nell’in-
stallazione Höchtsmass del 2008, in cui il classico metro giallo da sarto, esorbitato dalla sua misura - cm. 24 x 240 - si snoda per tutta la lunghezza della galleria. Lo spettacolo del consumismo più sfrenato, in atto nelle
metropoli occidentali, la induce, come effetto di reazione e resistenza, a collezionare, ossessivamente, prodotti
di misurazione, di scarto, come gli involucri di plastica, carta, cartone, del mondo della merce, oltre alle fatture,
gli scontrini fiscali, i cartellini dei prezzi speciali, delle promozioni, per riprodurli ad arte, facendone un suo uni-
verso creativo: l’esito risponde ad un lavoro di riproduzione ad acquarello, su supporto cartaceo, più o meno
pesante, perfettamente eseguito. Perfino il sacco della spazzatura, ingigantito dalla prospettiva, in una società
iperconsumistica, di un’inarrestabile crescita dei rifiuti, si riveste del glamour della pubblicità, in un sistema dello
star system, in cui ogni prodotto trova, sovente anche nel cinema, il suo testimonial di successo. Il mondo da
cui Sophie Schmidt trae i suoi soggetti è analogo a quello dei prodotti industriali, di largo consumo, e delle
catalogazioni merceologiche a cui ha fatto riferimento, per i suoi ready made, Marcel Duchamp, come ha luci-
damente dimostrato l’artista italiano Franco Vaccari nel suo libro Duchamp messo a nudo. Dal ready made alla
finanza creativa, gli Ori edizioni, 2009. Davanti a questo dispiegamento di ogni micro o macro dispositivo della
macchina produttiva, come pure dell’Industria Culturale, inevitabile è il rinvio ad Andy Warhol ed ai suoi Brillo
Boxes e Campbell’s Soup, spostati dagli scaffali del supermercato ed esposti, a differenza delle riproduzioni di
Sophie Schmidt, senza alcun intervento creativo, in gallerie e musei d’arte, con la denominazione di Pop Art,
di cui è l’indiscussa icona. C’è da chiedersi se la legittimazione di valore di queste opere provenga dall’effetto
sociale del dispendio di forza lavoro che le ha prodotte e dall’investimento di scambio che ne è seguito, con altri
soggetti, come pure, se dall’accoppiamento del corpo vivente dell’artista con il corpo inorganico della merce,
scaturisca una connotazione feticistica dell’opera d’arte. È pensabile che la sua scelta di campo sia nata da
una posizione critica nei confronti di un globalismo omologante, come pure da una sua resistenza oppositiva
alla velocità. Prese, infatti, le distanze dalla tecnologia digitale, l’artista ricorre alla tecnica dell’acquarello e di una
sistematica manualità. Uscita dai ritmi disumani della catena di montaggio, l’autrice ritrova tempi di concentra-
zione nel lavoro, che le consentirebbero di pensare, meditare, sognare. La lentezza e la minuziosità di esecu-
zione dell’opera trova un suo contraltare nella nevrosi adrenalinica della collettività contemporanea, che regola
costantemente i suoi tempi su performance estreme. Significativa diventa, a questo proposito, una sua opera,
costituita dalla riproduzione di un rutilante draghetto rosso accostato alla scritta aforismatica, in inglese e giap-
ponese, ad acquarello: It wouldn’t do any harm if you spend a moment relaxing to pass time! Non arrecheresti
alcun danno se passassi un po’ di tempo in relax! L’esecuzione a mano dell’Opera d’arte, nell’epoca della sua
riproducibilità tecnica, di memoria benjaminiana, chiama in causa la questione dell’unicità e di riflesso dell’aura,
correlata anche alla legittimazione del suo valore. Una componente concettuale del suo lavoro è leggibile nel
rapporto ribaltato che ha con il ready made, da lei assunto come modello da “mettere in posa”, decostruire
nelle sue componenti e ricostruire creativamente a mano per una “vetrina” che non è quella del supermercato,
ma quella del mondo dell’arte. Sophie Schmidt, nata nel 1969 a Friburgo in Brisgovia, Germania, cresciuta ad
Atene, formatasi all’Accademia d’Arte Figurativa di Berlino, residente a Berna, inizia la sua attività espositiva
nel Duemila. Ottiene riconoscimenti pubblici, borse di studio, residenze internazionali ed è presente in collezioni
pubbliche e private.
Viana Conti
16
luglio 2015
Estetica del gusto. Secondo step: Vis-à-Vis Leyla Goormaghtigh | Sophie Schmidt
Dal 16 luglio al 06 settembre 2015
arte contemporanea
Location
C|E CONTEMPORARY MILANO
Milano, Via Gerolamo Tiraboschi, 2, (Milano)
Milano, Via Gerolamo Tiraboschi, 2, (Milano)
Orario di apertura
mar-ven 15.00 - 19.00
Vernissage
16 Luglio 2015, ore 18 - ore19 introduzione alla mostra della curatrice
Autore
Curatore