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Elena Tortia – Camera Chiara
Dopo la nascita, che costituisce un concetto temporale ma anche di radicamento territoriale, la nostra identità viene costituita da ciò che plasmiamo.
Comunicato stampa
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Dopo la nascita, che costituisce un concetto temporale ma anche di radicamento territoriale, la nostra identità viene costituita da ciò che plasmiamo, da tutti gli elementi che sentiamo nostri per una necessità non solamente affettiva ma di delineazione di ciò che stiamo cercando, in uno scambio tra il posto e l’uomo talmente forte da essere imprescindibile nei nostri ricordi.
Nell’atto del viaggio, c’è la necessità della sosta, che per la maggioranza degli uomini è volontà di possedere un luogo, renderlo certo ma anche riconoscibile secondo il proprio metro culturale, nel fare ciò è necessario adornare le proprie case con storie passate, con oggetti, abitudini che paradossalmente provengono da un posto altro, diverso da dove ci si trova, colonizzandolo per un tempo ignoto.
Il rito dello spostamento fisico ed oggettuale, è il punto di contatto tra la perdita e la rinascita, tra una privazione cercata ed una ricollocazione del proprio desiderio di costruzione, di riappropriazione del nostro spazio, ricostruito un mattone alla volta, con mani che possono essere di altri, dove una famiglia diventa l’elemento su cui imperniare un nomadismo fisico che gode di un origine certa.
Nonostante questo, ciò che rimane alle nostre spalle non è solo fonte di memoria ma anche di infinitesimali parti di attenzione, che prima potevano apparire di fastidio, non percepite, come la polvere che come pochi altri elementi in natura, conosce il senso del tempo e ne scandisce con lenta saggezza il transitare.
Impossibile da possedere, nomadico per sua stessa fluttuazione nell’aria e però simbolo di quello che rimane, delimitandone i confini, facendo intuire ciò non vi è più.
Quello che rimane è un passaggio che comporta meditazione, dove ogni oggetto, è riassemblato con cura, facendo attenzione di preservarne non solo lo scopo ma anche il senso del perché è nostro, con un senso di possesso che è quanto di più imperituro vi sia.
La contrapposizione fra un mondo in continuo divenire ( dove ogni tappa è per origine un arrivo che si trasforma in un possibile tassello) e un altro fermo, ma non immobile ( dove la sua fondatezza è innanzitutto figlia della natura e della coscienza collettiva ), generano nell’artista un urto, dove essa stessa è un diapason, che genera a sua volta onde, che si propagano negli oggetti che possiede, con un pizzico di senso del collezionismo che trasforma la materia in feticcio, ma senza la volontà di accumulo che tenderebbe a storpiarne il fine, generando considerazioni consumistiche che qui non hanno natura di essere prese in considerazione.
E poi vi è l’abitare, il rimanere fermi, almeno come casa.
Tutto si ritrova li dentro ma allo stesso lo definisce, rendendo necessario il pensare a come uscirne, in un desiderio che parte innanzitutto dalla definizione precisa degli spazi, dalla collocazione degli oggetti, dal vivere l’abitudine come serenità.
L’abitabilità dunque diventa un elemento di analisi e di considerazioni che l’artista esplicita non solo in termini lavorativi ma anche psicologici, con la volontà di vedere nella sua forma di permanenza in un luogo, una rinascita momentanea.
Nell’atto del viaggio, c’è la necessità della sosta, che per la maggioranza degli uomini è volontà di possedere un luogo, renderlo certo ma anche riconoscibile secondo il proprio metro culturale, nel fare ciò è necessario adornare le proprie case con storie passate, con oggetti, abitudini che paradossalmente provengono da un posto altro, diverso da dove ci si trova, colonizzandolo per un tempo ignoto.
Il rito dello spostamento fisico ed oggettuale, è il punto di contatto tra la perdita e la rinascita, tra una privazione cercata ed una ricollocazione del proprio desiderio di costruzione, di riappropriazione del nostro spazio, ricostruito un mattone alla volta, con mani che possono essere di altri, dove una famiglia diventa l’elemento su cui imperniare un nomadismo fisico che gode di un origine certa.
Nonostante questo, ciò che rimane alle nostre spalle non è solo fonte di memoria ma anche di infinitesimali parti di attenzione, che prima potevano apparire di fastidio, non percepite, come la polvere che come pochi altri elementi in natura, conosce il senso del tempo e ne scandisce con lenta saggezza il transitare.
Impossibile da possedere, nomadico per sua stessa fluttuazione nell’aria e però simbolo di quello che rimane, delimitandone i confini, facendo intuire ciò non vi è più.
Quello che rimane è un passaggio che comporta meditazione, dove ogni oggetto, è riassemblato con cura, facendo attenzione di preservarne non solo lo scopo ma anche il senso del perché è nostro, con un senso di possesso che è quanto di più imperituro vi sia.
La contrapposizione fra un mondo in continuo divenire ( dove ogni tappa è per origine un arrivo che si trasforma in un possibile tassello) e un altro fermo, ma non immobile ( dove la sua fondatezza è innanzitutto figlia della natura e della coscienza collettiva ), generano nell’artista un urto, dove essa stessa è un diapason, che genera a sua volta onde, che si propagano negli oggetti che possiede, con un pizzico di senso del collezionismo che trasforma la materia in feticcio, ma senza la volontà di accumulo che tenderebbe a storpiarne il fine, generando considerazioni consumistiche che qui non hanno natura di essere prese in considerazione.
E poi vi è l’abitare, il rimanere fermi, almeno come casa.
Tutto si ritrova li dentro ma allo stesso lo definisce, rendendo necessario il pensare a come uscirne, in un desiderio che parte innanzitutto dalla definizione precisa degli spazi, dalla collocazione degli oggetti, dal vivere l’abitudine come serenità.
L’abitabilità dunque diventa un elemento di analisi e di considerazioni che l’artista esplicita non solo in termini lavorativi ma anche psicologici, con la volontà di vedere nella sua forma di permanenza in un luogo, una rinascita momentanea.
06
maggio 2015
Elena Tortia – Camera Chiara
Dal 06 al 30 maggio 2015
arte contemporanea
giovane arte
giovane arte
Location
GALLERIA MOITRE
Torino, Via Santa Giulia, 37 bis, (Torino)
Torino, Via Santa Giulia, 37 bis, (Torino)
Orario di apertura
da mercoledì al sabato, ore 16 - 19
Vernissage
6 Maggio 2015, ore 18,30
Autore
Curatore