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Katarina Zdjelar – Into the Interior
“Into the Interior” presenta una costellazione di lavori nuovi e recenti di Katarina Zdjelar, stimolando un dialogo artistico tra materiale archivistico e museologico e i resti dei media popolari e promozionali del primo Novecento.
Comunicato stampa
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SpazioA gallery ha il piacere di presentare sabato 21 marzo, 2015, alle ore 18, Into the Interior, seconda mostra personale dell’artista Serba Katarina Zdjelar nello spazio di Via Amati 13, Pistoia.
I passages e gli intérieurs, i padiglioni da esposizione e i panorami sono residui di un mondo di sogno. L’utilizzazione di
elementi onirici al risveglio è il caso esemplare del pensiero dialettico. Perciò il pensiero dialettico è l’organo del risveglio storico. Ogni epoca, non solo sogna la successiva, ma, sognando, urge il risveglio. (Walter Benjamin)
Into the Interior presenta una costellazione di lavori nuovi e recenti di Katarina Zdjelar. Stimolando un dialogo artistico tra materiale archivistico e museologico e i resti dei media popolari e promozionali del primo Novecento, i lavori di Zdjelar creano uno spazio che colloca lo spettatore dentro l’interazione tra la manifestazione storica del potere e il residuo contemporaneo che preserva questa eredità.
La mostra ruota attorno al Royal Museum of Central Africa (RMCA) del Belgio, un tempo residenza di Re Leopoldo II. Durante il 2013, Zdjelar ha visitato regolarmente ed esplorato i meandri della struttura, forse l’ultimo museo esplicitamente coloniale del mondo, che ha chiuso per restauro nel dicembre del 2013, come a determinare una frattura nel tempo e nella narrazione che precede l’indipendenza del Congo. Zdjelar registra alcuni degli ultimi momenti prima che la narrazione storico-culturale ormai fossilizzata del museo volga al termine, contrassegnando la fine di un’epoca e rivelando il tentativo del museo di sintonizzarsi con le esigenze generazionali del presente.
Attraverso l’obiettivo della telecamera di Zdjelar, in Into The Interior (Last day of the permanent exhibition), 2014, contempliamo le tracce di un’epoca lontana nelle forme dei trofei animali conservati. Mentre un addetto del museo toglie mucchietti di stoffa dall’interno della logora testa di un leopardo fissata in un’eterna espressione di aggressività fittizia, allo spettatore viene ricordato che la decomposizione di queste pelli animali incarnano un’ideologia in decadenza. Il video a due canali unisce filmati e dialogo relativi ai trofei, mescolati a riprese del deterioramento dell’edificio stesso, insieme alla graduale ricognizione di un paesaggio dipinto del Congo, i cui colori sono stati ridotti dal tempo a una gamma smorta, inerte e lontana dall’originale, un po’ come la carne degli animali. Il lavoro rappresenta dunque una meditazione sulla storia fossilizzata del museo e la conclusione delle narrazioni culturali che contiene. Usando la tecnica cinematografica di porre a confronto lo sguardo del cacciatore con quello del pittore, il magazzino nel seminterrato con lo spazio espositivo, la fusione di un animale con il paesaggio dipinto produce un interstizio inquietante e stratificato che è tanto ammuffito e datato quanto perenne. In questa terra di mezzo, lo sfondo non può essere isolato dalle dinamiche del primo piano.
La caccia e la pittura rappresentavano un modo maschile di passare il tempo nella colonia; erano attività tipiche delle classi superiori, che credevano così di immergersi nelle foreste vergini, nelle terre, nei contorni, in pratica nell’interno profondo del continente africano. Questi passatempi degli uomini bianchi occidentali si traducevano in un accumulo di trofei che entra in risonanza con la sovrapproduzione e l’eccesso della nostra epoca. Lo status dei trofei all’interno della collezione, non essendo né scientifico né culturale, è ambiguo, irrisolto. I trofei vengono tirati fuori solo per essere di nuovo impacchettati e riposti in magazzino. Il loro deterioramento corrisponde alle forzature ideologiche di un certo periodo e segna il passare del tempo.
Un’eco di tutto ciò si trova nella serie di stampe Tervuren Dioramas, che presenta diorami di diversi animali associati all’Africa – un leone, rinoceronti, leopardi e scimmie – esposti al RMCA. Questi diorami mostrano gli animali svuotati in posa come se fossero ancora vivi, gli arti manipolati con una certa malagrazia dai tassidermisti che hanno costretto le bestie ad assumere in eterno un atteggiamento di attacco o paura, o una posizione innaturale – un leone troppo vicino alla sua preda, o una collettività familiare esibita da animali che non possiedono un simile paradigma sociologico. Con i loro sfondi dipinti e gli alberi presi dal villaggio belga di Duisberg invece che dal Congo, i diorami hanno un aspetto artificioso e amatoriale – la fantasia colonialista del paesaggio africano costruito con risorse e capacità europee, che mette in scena animali inseguiti e uccisi per gli scopi dell’esposizione. Il medium della fotografia rafforza la sensazione di congelamento nel tempo.
In the wildness with Carl Hagenbeck 1930/1915 introduce un’ulteriore prospettiva – in questo caso attraverso la narrazione e la materialità delle figurine collezionabili di produzione industriale, pubblicate nei Paesi Bassi dalla Royal Dutch Soap Factory, Duif (oggi conosciuta in tutto il mondo come Dove), in collaborazione con la Universum Film Aktiengesellschaft nel 1930. In Germania le figurine venivano inserite come articoli promozionali nelle scatole di sigarette e nelle confezioni di cioccolata. Sembra appropriato che prodotti di questo genere – sapone, tabacco e cioccolata, che all’epoca erano sinonimi di lusso e cultura raffinata, ma altrettanto dipendenti dall’importazione coloniale – siano serviti da veicolo per diffondere le avventure di Carl Hagenbeck nelle colonie. Il nome di Hagenbeck evoca ricordi di zoologia, perché aveva creato il modello rivoluzionario dello zoo moderno, in cui gli animali sono esposti dentro a recinti senza sbarre. Gli interessi di Hagenbeck, però, non si limitavano agli animali – anche gli esseri umani per lui erano un oggetto di grande fascino; oltre alla fauna, venivano messi in mostra gli indigeni delle colonie.
Le immaginette prodotte da Hagenbeck insieme alla società cinematografica tedesca e alla fabbrica del sapone olandese promuovono il sogno coloniale. Le narrazioni si svolgono con la suspense e la tensione di un film d’azione ben fatto, ma se si studia il testo più da vicino è evidente che si ripetono sempre le stesse dinamiche.
Grazie alle teche di vetro – una specie di vetrina poco ortodossa – dove sia il fronte sia il retro delle tavole sono visibili simultaneamente, lo spettatore è in grado di osservare una narrazione doppia, quella dell’immagine e quella del testo. Le immagini isolano le fasi successive della rappresentazione degli animali, la lotta per sfuggire alla morte o alla cattura in una serie di fermo-immagini, quasi un preludio alle carcasse esposte al RMCA. Il tema del riflesso acquista un significato più ampio perché in effetti lo spettatore non vede l’immagine reale ma solo un suo riflesso – un meccanismo che pone in risalto la natura assai dubbia del rapporto della narrazione (sia visiva che scritta) con la realtà storica. L’estetica delle immagini è caratterizzata dalla loro somiglianza a fotogrammi cinematografici. Ci sono indizi che questo particolare immaginario provenga da quello che è stato il primo film tedesco in bicromia; sembra così che la storia del cinema e la sua sperimentazione e sviluppo tecnologici siano strettamente legati e dipendenti dalla storia e dalla museologia coloniale.
Nel video In the wildness with Carl Hagenbeck, Zdjelar restituisce i fotogrammi al loro formato originale: l’immagine in movimento. Nel susseguirsi delle immagini, vediamo svolgersi una sequenza di eventi. I paralleli tra il registro visivo che serve a descrivere animali e nativi africani diventano sempre più evidenti, e un’immagine dopo l’altra tornano i ricordi degli animali chimicamente trattati del RMCA disposti in pose aggressive.
L’artista ringrazia il Mondriaan Fund, la Biennale di Marrakesh 2014, SpazioA, Helke Smet, Alain Servais, Marten Patricia, Wim Wendelen, Couttenier Maarten, Patricia van Schuylenbergh, Jelle Bouwhis, Alenka Gregoric, Blanca de la Torre, Zoran Eric, Katrin Mundt, Friedrich von Bose, Hannah Dawn Henderson, Philip Ewe, Sol Archer, Maziar Afrassiabi, Niru Afrassiabi Zdjelar, Mirjana Zdjelar per il loro sostegno e per aver reso possibile questo lavoro.
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Katarina Zdjelar (nata nel 1979, Belgrade, Yugoslavia) ha conseguito il MFA al Piet Zwart Institute, Rotterdam 2004-2006.
Tra le mostre personali recenti segnaliamo: Towards a further word, Kunstverein Bielefeld, Bielefeld, D (2014); Of More Than One Voice, Museum Of Contemporary Art ARTIUM, Vitoria-Gasteiz, ES (2013); Stepping In-Out, Center for Contemprary Art Celje SLO (2011); Parapoetics, TENT, Centrum Beeldende Kunst, Rotterdam NL (2009); But if you take my voice what will be let to me, Padiglione Serbo 53° Bienniale di Venezia, IT (2009). Le ultime mostre colletive a cui ha preso parte sono M/other Tongue, a cura di Sabel Gavaldon Tenderpixel, London, UK (2014); New Beginnings, a cura di Sandra Demetrescu e Misela Blanusa, MNAC, Bucharest, RO (2014); Father Can’t you see I am burning, De Appel Contemporary Art Centre, Amsterdam, NL (2014); Where are we now?, 5th Marrakech Biennale, a cura di Hicham Khalidi, Marrakech MA (2014); DLA WAS/FOR YOU,Muzeum Sztuki, Lodz PL (2012); Acts of Voicing, Württembergischer Kunstverein Stuttgart, D; Rearview Mirror, The Power Plant Contemporary Art Gallery Toronto, CAN; (2011); Art Sheffield, Life-A User’s Manual, Sheffield, UK (2010); Morality. Act II: From Love to Legal, Witte de With Centre for Contemporary Art, RotterdaM, NL (2009). L’artista vive e lavora a Rotterdam.
>> Press release
SpazioA gallery is proud to present on Saturday March 21 2015, at 6pm, Into the Interior, second solo show by Serbian artist Katarina Zdjelar in Via Amati 13, Pistoia.
The arcades and interiors, the exhibitions and panoramas are residues of a dream world. the utilization of dream elements in walking is the textbook fexample or dialectical thinking. For this reason the dialectical thinking is the organ of historical awakening. Each epoch not only dreams the next, but also, in dreaming, strives the moment of waking. (Walter Benjamin)
Into the Interior presents a constellation of new and recent works by Katarina Zdjelar. By bringing archival and museological material into an artistic dialogue with remnants of early 20th century popular and promotional media, Zdjelar’s works instigate a space in which the viewer is situated within this interplay between the historical manifestation of power and contemporary residual that remains of this legacy.
The exhibition orbits around The Royal Museum of Central Africa (RMCA) in Belgium, a former royal estate of King Leopold II. During 2013 Zdjelar regularly visited and dug into the guts of the museum, allegedly the last expressly colonial museum in the world, which closed for renovation in December 2013, designating a fracture in time and the running narrative preceding Congo’s independence. Zdjelar registers some of the final moments before the museum’s now ossified historical and cultural narrative draws to a close, thus marking an end to an era and exposing the museum’s attempt of attunement towards the generational inquiry of today.
Through the lens of Zdjelar’s camera, we observe in Into The Interior (Last day of the permanent exhibition), 2014, the traces of a distant era through decomposing forms of preserved animal trophies. As a museum assistant removes wads of fabric from the inside of a tatty leopard’s head fixed into an eternal expression of faux-aggression, the viewer is reminded that decomposition of these animal skins, embody a decaying ideology. The two-channel video mediates footage and dialogue concerning the animal trophies intermingled with shots of the actual building’s deterioration, alongside a gradual survey of a painted landscape of Congo, the colours of which time has reduced to a dull, lifeless, tertiary palette much like the flesh of the animals. The work is thus a meditation on the museum’s ossified history and the closing of the cultural narratives it entails. Using the cinematic technique of colliding the gaze of a hunter with that of a painter, the basement storage space with the exhibition space, the amalgamation of an animal and painted landscape produces an eerie and juxtaposing interstice that is as withered and dated as it is perennial. In this middle ground, the background cannot be dislocated from the dynamics of the foreground.
Hunting and painting were a masculine way of passing time in the colony; these activities were distinct to the upper classes, who thought of themselves as delving into the virgin forests, lands, contours, essentially the very interior of the African continent. This pastime of the white Western men translated into the accumulation of animal trophies and resonates of the surplus and excess of this time. Having neither scientific nor cultural status, the trophies’ status within the collection of the museum is ambiguous, unresolved. They are unpacked just to be packed and stored again. Their decay corresponds to the temporal ideological stretchings and note time passing.
This is echoed in the Tervuren Dioramas print series, which presents dioramas of various animals associated with Africa – a lion, rhinos, leopards, and monkeys – as displayed at the RMCA. These dioramas show the empty animals posed as if they were still alive, their limbs manipulated almost awkwardly by taxidermists who have relegated the animals to forever be in a stance of attack or fear, or in an uncanny arrangement – a lion unnaturally close to its prey, or family collectiveness exhibited by animals that possess no such sociological paradigm. With painted backgrounds and trees sourced from the Belgian village of Duisberg rather than Congo, the dioramas are marked by their artificiality and amateurism – the colonialist’s fantasy of the African landscape constructed with European resources and capacities, featuring animals that were stalked and shot for the purposes of exhibit. The medium of the photograph reinforces the aura of being frozen in time.
In the wildness with Carl Hagenbeck 1930/1915 introduces another angle – in this instance through the narrative and materiality of mass-produced collectable miniature images, published in the Netherlands by the Royal Dutch Soap Factory, Duif (now known worldwide as Dove), in collaboration with Universum Film Aktiengesellschaft in 1930. In Germany the images were available as promotional items in cigarette boxes and chocolate wrappers. It seems apt that such products – soap, tobacco and chocolate, which were at that time synonymous with luxury and high culture, but equally dependent on colonial import – served as the vehicle to disseminate Carl Hagenbeck’s adventures in the colonies. Hagenbeck’s name prompts thoughts of zoology, for he created the revolutionary model for the modern zoo, wherein animals are presented in enclosures without bars. Hagenbeck’s interests, however, were not limited to animals – humans were equally an object of fascination; alongside the animals, natives from the colonies were also displayed.
The images produced by Hagenbeck, a German film company and the Dutch Soap Factory promote the colonial dream. The narratives unfold with the suspense and tension of a well-penned action movie, but when one brings the texts into closer reflection it is apparent that the same dynamics are reiterated throughout.
Presented in glass cases – an unorthodox vitrine of sorts – whereby both the front and reverse of the plates are simultaneously viewable, the viewer is able to observe a dual narrative – that of the image and that of the text. The images isolate the sequential stages of the animals’ portraiture, the struggle to evade death or capture in a series of still shots, almost as if a prelude to the displayed carcasses at the RMCA. The theme of reflection acquires a broader significance as the viewer does not actually see the real image but merely a reflection of it – mechanics of the work that call into question the very dubious nature of the narratives’ (both visual and written) bearing on historical reality. The aesthetics of the images are characterised by their likeness to film stills. There are indications that this particular imagery comes from a film that was Germany’s first two colour toned film; thus, it seems that film history and its technological experimentation and development is closely linked to and a dependent of the colonial history and museology.
In the video work In the wildness with Carl Hagenbeck, Zdjelar recontextualises the film stills to their original format: moving image. As the images topple upon one another, we watch a sequence of events unravel. Parallels between the visual register with which the animals and African natives are depicted grow evermore apparent, and as each image comes into view recollections of the RMCA’s chemically coated animals arranged in vicious poses return once more.
Artist would like to thank to Mondriaan Fund, Marrakesh Biennial 2014, SpazioA, Helke Smet, Alain Servais, Marten Patricia, Wim Wendelen, Couttenier Maarten, Patricia van Schuylenbergh, Jelle Bouwhis, Alenka Gregoric, Blanca de la Torre, Zoran Eric, Katrin Mundt, Friedrich von Bose, Hannah Dawn Henderson, Philip Ewe, Sol Archer, Maziar Afrassiabi, Niru Afrassiabi Zdjelar, Mirjana Zdjelar for their support and making this work possible.
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Katarina Zdjelar ( born in 1979, Belgrade, Yugoslavia) received an MFA at Piet Zwart Institute, Rotterdam 2004-2006.
Recent solo exhibitions include Towards a further word, Kunstverein Bielefeld, Bielefeld, D (2014); Of More Than One Voice, Museum Of Contemporary Art ARTIUM, Vitoria-Gasteiz, ES (2013); Stepping In-Out, Center for Contemprary Art Celje SLO (2011); Parapoetics, TENT, Centrum Beeldende Kunst, Rotterdam NL (2009); But if you take my voice what will be let to me, Serbian Pavillion at the 53rd Venice Biennial, IT (2009) and selected group exhibitions include M/other Tongue, curated by Sabel Gavaldon Tenderpixel, London, UK (2014); New Beginnings, curated by Sandra Demetrescu and Misela Blanusa, MNAC, Bucharest, RO (2014); Father Can’t you see I am burning, De Appel Contemporary Art Centre, Amsterdam, NL (2014); Where are we now?, 5th Marrakech Biennale, curated by Hicham Khalidi, Marrakech MA (2014); DLA WAS/FOR YOU,Muzeum Sztuki, Lodz PL (2012); Acts of Voicing, Württembergischer Kunstverein Stuttgart, D; Rearview Mirror, The Power Plant Contemporary Art Gallery Toronto, CAN; (2011); Art Sheffield, Life-A User’s Manual, Sheffield, UK (2010); Morality. Act II: From Love to Legal, Witte de With Centre for Contemporary Art, RotterdaM, NL (2009). The artist lives and works in Rotterdam
21
marzo 2015
Katarina Zdjelar – Into the Interior
Dal 21 marzo al 09 maggio 2015
arte contemporanea
giovane arte
giovane arte
Location
SPAZIOA GALLERY
Pistoia, Via Amati, 13, (Pistoia)
Pistoia, Via Amati, 13, (Pistoia)
Orario di apertura
mar - sab 11 - 14 / 15 - 19 o su appuntamento
Vernissage
21 Marzo 2015, ore 18
Autore