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10
luglio 2009
fino al 15.IX.2009 Arash Radpour Napoli, Overfoto
napoli
Attori, creativi, il mitologico Brian Eno. Strappati allo star system e trascinati in un “dove” che diventa “ovunque”, in un “quando” che muta in “sempre”. Nuove leggende per miti contemporanei...
L’universo per Arash Radpour (Teheran, 1976; vive a Roma) è vuoto di istanti e distanze. Scevri da connotazioni identificative e cognitive, i suoi luoghi sono archetipi di ambientazioni per personaggi della nuova umanità che vivono la realtà aumentata, la dimensione virtuale in cui immaginario e reale s’incrociano. Quinte per una rappresentazione senza narrazione, che induce lo straniante disorientamento di chi assiste a uno spettacolo senza trama, a un teatro interiore che cerca e scava nell’identità concreta delle persone ritratte, tutti artisti o creativi, stemperandola in paradigmi simbolici di nuovi ruoli.
Michelangelo Dalisi, Elena Bouryka, Fabrizia Sacchi: i titoli richiamano individualità esistenti, ma questo è l’ultimo residuo di verità per apparizioni che si sospendono in un non-tempo metafisico e onirico, che potrebbe riferirsi a qualunque momento storico.
E protagonisti delle fotografie, al pari e più dei personaggi, sono gli scenari. Le mura diroccate e pregne di memoria di Lorena Dellaccio, la prigione di cemento che incarcera lo sguardo avido di cielo evocato dalla giacca magrittiana di Giancarlo Savino, i surreali impianti sportivi defunzionalizzati di The Pool, il nostalgico Eden strappato alla metropoli e reso primitivo dalle nudità di Giorgia Sinicorni.
Ogni contesto si anima in un’intensa presenza espressiva che sembra abitare essa stessa, con surreale inversione di termini fra abitante ed abitato, gli spazi interiori dei soggetti ripresi, ispirandone e conformandone gesti ed azioni.
Del resto, già per McLuhan le forme urbane e architettoniche erano estensioni degli organi fisici, una “pelle” collettiva, prolungamento vivificato delle funzioni proiettate in esse. La rarefatta atmosfera misterica e sospesa, l’a-narratività dell’immagine e, soprattutto, la moltiplicazione o duplicazione della stessa figura umana, come in Alessandro Giuliano o Camilla Alibrandi, avvicinano le visioni di Radpour a quelle dei Preraffaelliti, in opere quali La scala d’oro di Edward Burne-Jones o Astante siriaca di Dante Gabriel Rossetti.
Solo che l’espediente adesso non è pittorico ma digitale, e insegue il mistero del reale con strumenti tecnologici. Un po’ come per i paradossali pleniluni postmoderni di Darren Almond.
Il disorientamento logico non si attenua neanche se la moltiplicazione della figura da sincronica si fa diacronica, negli split screen di Brian Eno & the eight friends o negli interni claustrofobici in acciaio respingente di Untitled.
Anche se più glamorous che nella mostra The sweet hereafter – sostituendo negli sfondi al non-luogo dell’oscurità indistinta del 2005 quello di atemporali e simboliche scene cosmopolite – Radpour continua a restituire il fascino allucinatorio di inquiete fiabe contemporanee. Scritte per personaggi-avatar di nuove dimensioni.
Michelangelo Dalisi, Elena Bouryka, Fabrizia Sacchi: i titoli richiamano individualità esistenti, ma questo è l’ultimo residuo di verità per apparizioni che si sospendono in un non-tempo metafisico e onirico, che potrebbe riferirsi a qualunque momento storico.
E protagonisti delle fotografie, al pari e più dei personaggi, sono gli scenari. Le mura diroccate e pregne di memoria di Lorena Dellaccio, la prigione di cemento che incarcera lo sguardo avido di cielo evocato dalla giacca magrittiana di Giancarlo Savino, i surreali impianti sportivi defunzionalizzati di The Pool, il nostalgico Eden strappato alla metropoli e reso primitivo dalle nudità di Giorgia Sinicorni.
Ogni contesto si anima in un’intensa presenza espressiva che sembra abitare essa stessa, con surreale inversione di termini fra abitante ed abitato, gli spazi interiori dei soggetti ripresi, ispirandone e conformandone gesti ed azioni.
Del resto, già per McLuhan le forme urbane e architettoniche erano estensioni degli organi fisici, una “pelle” collettiva, prolungamento vivificato delle funzioni proiettate in esse. La rarefatta atmosfera misterica e sospesa, l’a-narratività dell’immagine e, soprattutto, la moltiplicazione o duplicazione della stessa figura umana, come in Alessandro Giuliano o Camilla Alibrandi, avvicinano le visioni di Radpour a quelle dei Preraffaelliti, in opere quali La scala d’oro di Edward Burne-Jones o Astante siriaca di Dante Gabriel Rossetti.
Solo che l’espediente adesso non è pittorico ma digitale, e insegue il mistero del reale con strumenti tecnologici. Un po’ come per i paradossali pleniluni postmoderni di Darren Almond.
Il disorientamento logico non si attenua neanche se la moltiplicazione della figura da sincronica si fa diacronica, negli split screen di Brian Eno & the eight friends o negli interni claustrofobici in acciaio respingente di Untitled.
Anche se più glamorous che nella mostra The sweet hereafter – sostituendo negli sfondi al non-luogo dell’oscurità indistinta del 2005 quello di atemporali e simboliche scene cosmopolite – Radpour continua a restituire il fascino allucinatorio di inquiete fiabe contemporanee. Scritte per personaggi-avatar di nuove dimensioni.
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dal 15 maggio al 15 settembre 2009
Arash Radpour – Napoletani a Roma
a cura di Maya Pacifico
Galleria Overfoto
Vico San Pietro a Majella, 6 (zona piazza Bellini) – 80122 Napoli
Orario: da martedì a venerdì ore 11–13 e 16.30-19.30; sabato ore 11–14; a luglio su appuntamento
Ingresso libero
Info: tel./fax +39 08119578345; info@overfoto.it; www.overfoto.it
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