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20
ottobre 2009
Una sensazione di voluta e cercata
ambiguità accompagna i visitatori sin dall’inizio della mostra. Ovvero da
quando si viene a scoprire che quel video che apre l’esposizione, nella stanza
subito a destra che fa da preludio al vero e proprio spazio espositivo, è
tutt’altro che quello che appare.
Vengono ripresi di fatto dei
fuochi di artificio, che ovviamente riconducono a tutta una serie di esperienze
positive, ludiche, celebrative. Il sonoro, perfettamente coordinato, non rivela
in sé niente di strano. Solo in un secondo momento si viene a sapere che il
canale audio è ripreso da un altro contesto e sostituito a quello originario. E
lascia stupefatti apprendere che quel suono di esplosioni continue è il rumore
della guerra in Iraq, in un contesto ribaltato rispetto la dimensione di
sensazioni che lo spettatore si era prefigurato.
Questo anticipo della filosofia di
Alejandro Vidal (Palma
de Mallorca, 1972; vive a Barcellona) conduce verso la sala pricipale, dove un
secondo video snocciola in modo più evidente e costruito quella che si può definire
una “estetica della violenza”, come lo stesso artista afferma.
Questo secondo lavoro, dal ritmo
narrativo, racconta la vita giornaliera di una baby-gang inglese, fra lotte di
quartiere e linguaggi di un manierismo controcorrente. L’ambiguità di cui si
parlava ha anche qui un ruolo forte ma sottile. Le scene, che dovrebbero essere
crude, disturbanti e creare una sensazione di fastidio, risultano invece bilanciate
in un equilibrio che sembra quasi una danza.
I personaggi sono clamorosamente
costruiti, le situazioni irreali, gli scenari artificiali, creando un’estetica
che travalica la classica legge del bene e del male, a favore di una
composizione universale e trascendentale del mondo. Come quando ci si allontana
in aereo e tutto sembra avere dall’alto una compostezza, una bellezza e un
rigore che prima non si avvertiva.
C’è in un certo senso una
dissolvenza, come quella che accade a una bandiera italiana gigantesca che cade
dal soffitto della galleria e arriva a terra in uno strascico che gradualmente
perde colore, si stinge, fino a diventare bianco-latte e dunque
irriconoscibile. Il richiamo a un tipo di protesta civile sudamerica è evidente
grazie a una serie di scatti che le stanno accanto, in cui la popolazione lava
le bandiere dello stato per mostrare una crisi di appartenenza e
identificazione.
ambiguità accompagna i visitatori sin dall’inizio della mostra. Ovvero da
quando si viene a scoprire che quel video che apre l’esposizione, nella stanza
subito a destra che fa da preludio al vero e proprio spazio espositivo, è
tutt’altro che quello che appare.
Vengono ripresi di fatto dei
fuochi di artificio, che ovviamente riconducono a tutta una serie di esperienze
positive, ludiche, celebrative. Il sonoro, perfettamente coordinato, non rivela
in sé niente di strano. Solo in un secondo momento si viene a sapere che il
canale audio è ripreso da un altro contesto e sostituito a quello originario. E
lascia stupefatti apprendere che quel suono di esplosioni continue è il rumore
della guerra in Iraq, in un contesto ribaltato rispetto la dimensione di
sensazioni che lo spettatore si era prefigurato.
Questo anticipo della filosofia di
Alejandro Vidal (Palma
de Mallorca, 1972; vive a Barcellona) conduce verso la sala pricipale, dove un
secondo video snocciola in modo più evidente e costruito quella che si può definire
una “estetica della violenza”, come lo stesso artista afferma.
Questo secondo lavoro, dal ritmo
narrativo, racconta la vita giornaliera di una baby-gang inglese, fra lotte di
quartiere e linguaggi di un manierismo controcorrente. L’ambiguità di cui si
parlava ha anche qui un ruolo forte ma sottile. Le scene, che dovrebbero essere
crude, disturbanti e creare una sensazione di fastidio, risultano invece bilanciate
in un equilibrio che sembra quasi una danza.
I personaggi sono clamorosamente
costruiti, le situazioni irreali, gli scenari artificiali, creando un’estetica
che travalica la classica legge del bene e del male, a favore di una
composizione universale e trascendentale del mondo. Come quando ci si allontana
in aereo e tutto sembra avere dall’alto una compostezza, una bellezza e un
rigore che prima non si avvertiva.
C’è in un certo senso una
dissolvenza, come quella che accade a una bandiera italiana gigantesca che cade
dal soffitto della galleria e arriva a terra in uno strascico che gradualmente
perde colore, si stinge, fino a diventare bianco-latte e dunque
irriconoscibile. Il richiamo a un tipo di protesta civile sudamerica è evidente
grazie a una serie di scatti che le stanno accanto, in cui la popolazione lava
le bandiere dello stato per mostrare una crisi di appartenenza e
identificazione.
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a cura di Marco Scotini
Galleria Artra
Via Burlamacchi, 1 (zona Porta Romana) – 20135 Milano
Orario: da martedì a sabato ore 10-13 e 15-19
Ingresso libero
Mostra prodotta in collaborazione con Play_platformfor film & video, Zurigo
Info: tel. +39 025457373; artragalleria@tin.it
[exibart]