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Vittoria Piscitelli – U.G.L.Y.
Mostra personale
Comunicato stampa
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Stai Perdendo Te stesso
Sto perdendo me stessa.
Sto perdendo me stessa da quando ero una bambina e rubavo le rivi-
ste di moda di mia madre.
Sto perdendo me stessa ancora oggi, inesorabilmente.
Sono in carne ed ossa una persona.
Dunque cosa sono, ma sarebbe meglio forse dire chi sono, quelle
pagine patinate di pochi centimentri che incontro in quella seducente,
ammaliante e indispensabile Bibbia dell’estetica contemporanea che è
Vogue? Non posso più dirvi se quelle persone ritratte esistano davve-
ro o se siano solo il prodotto di una creazione artistica o di una messa
in scena estetica, un’ideale di bellezza come la Paolina Borghese di
Canova o la Nike di Samotracia. Il fatto è che ogni giorno della mia vita
devo interrogarmi su me stessa e sulle mia gambe e sul mio naso e
sulla mia bocca e sui miei zigomi. La percezione che ho di me stessa
si annienta sotto i colpi di questi stimoli.
Ho ventiquattro anni, sono magra e ho i capelli castani.
Dopo, il Nulla.
Così ho iniziato a distruggere il resto per trovare me. Ma più distrugge-
vo più creavo.
Strati e strati di carta e vernice coprivano il volto di Natalie Portman
proponendo le sembianze di un essere altro, oltre me e oltre l’attrice.
Un volto straziato da un collage oltraggioso, patetico e pagliaccio. An-
che il sentimento d’invidia è stato prezioso. L’invidia è il numero infon-
do al metro con il quale misuriamo la lontanza con il proprio io e con
gli altri. Questo sentimento è stato il punto di partenza per annientare
le immagini. Si potrebbe osare dire infatti che le opere in mostra siano
tutte testimonianze di una performance del dolore e della ricerca di se
stessi esercitata negli anni e nei giorni. Ho cercato, cercato e cercato.
Oltre la bellezza cosa ho trovato?
U.G.L.Y.
Ugly che tradotto dall’inglese potrebbe essere adirato, brutto, cattivo,
7
irritabile, laido, litigioso, minaccioso, pericoloso, ripugnante, sgradevo-
le, turpe.
Ho allontanato la ricerca di una bellezza rassicurante e sottile per en-
trare in contatto con quei mostri che mai vorreste incontrare e per loro
ho iniziato a provare un bisogno empatico poiché, con la loro ridicola
spiacevolezza, esprimevano la frustrazione tutta contemporanea del
sentirsi inappropriati, indesiderati in un contesto dove, forse, abbiamo
smarrito la capacità di emozionarci per la bellezza.
La mia generazione di giovani donne non riesce a trovare sollievo negli
ideali femministi che incoraggiavano le nostre madri a mantenere i pie-
di a terra e i fianchi larghi. La mia generazione ha accettato tutto que-
sto smarrimento e ha percorso la propria maturazione in simbiosi con il
bisogno isterico del bello, piacevole, carino. Carino. Carino.
Fortunatamente non sono qui per restituirvi una soluzione critica a que-
sto fenomeno dilagante perché io stessa non voglio risolvere questo
problema. Voglio cavalcarlo finché possibile per continuare a produrre
e cercare e distruggere. E mostrarvi i miei U.G.L.Y. Perchè questa fru-
strazione è la storia delle nostre vite e non possiamo negarla ma solo
accettarla e capirla. Amarla.
Intendo portarvi per mano alla scoperta di questo universo parallelo in
cui decine di volti trasmutati si propongono a voi in tutta la loro inquie-
tante fissità, la stessa fissità di quelle donne splendide che indossano
seta e oro nelle riviste che comprate. E la loro moltitudine ci distrarrà
dalla loro individualità. Non siete chiamati a conoscere le loro identità
ma a perdervi nelle loro tragicomiche imperfezioni. Nelle loro solitudini
di esseri spiacevoli e abortiti.
E potete collezionarli. Portarli a casa e confrontarvi con loro come io
stessa faccio ogni giorno. E in quegli sguardi strabici e in quelle boc-
che viziose ma storte forse troverete il vostro tormento proprio quel
giorno che credevate di aver perso il contatto con voi stessi. Perché
se è vero che U.G.L.Y nasce da una vicenda tutta autobiografica della
8
sottoscritta è anche vero che U.G.L.Y rappresenta l’invito ad una presa
di coscienza sul vostro rapporto con la bellezza presunta tale.
U.G.L.Y. è qui desiderio di redenzione da noi stessi e quello che so-
gnavamo di essere e non saremo mai.
Vittoria Piscitelli
9
Vittoria Piscitelli. Miti e Mete
Per Vittoria Piscitelli creare, fare, lavorare con il linguaggio dell’arte -
sia esso musica, design, pittura, collage, moda - è azione necessaria
per scandagliare la realtà, ma soprattutto per prendere contatto con se
stessa e con le sue ossessioni.
Vittoria ha ben chiaro il suo terreno di ricerca, come ha ben chiaro il
terreno dove presentarsi. Ama smisuratamente il mondo britannico:
“Musica, arte, letteratura, design, pubblicità, tutto, basta che sia ingle-
se, che sia anglosassone!”. Ama con passione (gioia/tormento) anche
la moda. Ed è in questi luoghi fisici e ideali che viaggia e sperimenta.
Non è un caso che le sue prime mostre si siano tenute a Londra e a Mi-
lano. Oggi è a Napoli; ma quale Napoli? E in quale momento della vita
cittadina, se non quello del ‘patinato’ natalizio?
I suoi miti dichiarati - ma forse per lei bisognerebbe parlare di muse
- sono Yoko Ono, “immediata, intima e spirituale”, di cui segue le
Istruzioni per l’arte e per la vita; Tracey Emin, “eccentrica e scabrosa,
blasfema e romantica”; Marc Quinn, “classico e levigatissimo, nonché
esploratore del corpo e del mondo fisico e culturale che ci circonda”.
Qualche escursione la porta poi nell’Austria di Franz West e nell’A-
merica di John Baldessari. Tra i binari italiani intercetta Cattelan. Nel
campo della moda, infine, vi è l’approdo francese: Yves Saint Laurent
e Hedi Slimane. Una, infine, la Musa, l’icona ‘iniziale’ (o iniziatica?)
per lei nella moda e nell’arte: Kate Moss, top model celebrata pochi
mesi fa a Londra in un’asta Christie’s di opere d’arte che la vedevano
ritratta. L’icona che attraversa gli scatti di Annie Liebovitz, Irving Penn,
Mario Sorrenti, Juergen Teller e molti altri. La Musa immortalata, tra gli
altri, da Sir Peter Blake, Corinne Day e Damien Hirst. E per Vittoria -
che fa musica - l’amante del maledetto Pete Doherty, la protagonista
eponima di un brano dei Baustelle, e soprattutto l’immagine scelta da
Sophia Coppola per il video della band americana White Stripes I just
don’t know to do with myself. La Musa, tra tutte le muse, che compare
pure nei video di artisti come Marianne Faithfull, Johnny Cash ed Elton
11
John.
Ma questo è ciò che Vittoria ci racconta, questi sono i miti/icone che ci
ha voluto svelare e che riportiamo qui, seguendo le sue stesse parole;
altri miti li ravvisiamo da soli, scrutando tra i suoi collage in mostra. Ed
ecco che la mente non può non risalire a Linder Sterling, femminista
radicale e nota figura del punk di Manchester, che si scaglia contro lo
stereotipo di donna divenuta oggetto di attrazione erotico-sessuale,
presentando nelle sue opere un ironico e pungente ritratto del femmini-
le nella società occidentale post-moderna. Intercettiamo anche Angus
Fairhurst, uno di quelli che passa alla storia tra gli Young British Arti-
sts, morto a 41 anni, le cui opere più note restano le sculture in bron-
zo raffiguranti gorilla ed i collage con pagine pubblicitarie di fashion
magazines. Diversa, ma evidentemente amata e scrutata da Vittoria
anche Sarah Lucas. E perché, a questo punto, non chiamare in causa
anche un italiano come Gianluigi Toccafondo, artista penetrato nell’im-
maginario collettivo attraverso la televisione e la pubblicità, del quale si
avverte una qualche ispirazione quando Vittoria interviene con il segno
pittorico sulle sue creazioni?
Forti di tali rimandi (o meglio miti) visibili e invisibili, espliciti o censu-
rati, voluti o imprevedibili, le opere-collage di Vittoria arrivano a noi ca-
riche di bizzarrie dissacranti; sono a volte grottesche, pulite, sporche,
eleganti, astratte, caricaturali, volutamente ricche di textures. Vittoria
vorrebbe racchiudere il risultato finale in ciò che definiremmo UGLY.
Ma non è detto sia così. Eppure è giusto che sia così per lei.
Se consideriamo, infatti, che queste opere sono un’analisi prima di
tutto sul sé, sull’essere donna, o meglio sul suo essere donna tra le
donne, capiamo subito che i suoi collage sono popolati da immagini
oniriche, suggestioni reali quanto surreali, evocative di un passato (l’in-
fanzia), quanto fortemente attuali, perché ancora pulsanti nel suo oggi.
Sono immagini che incontra ovunque: in casa e per strada, nella vita
privata e nella vita pubblica. Ma non tutti le vedono e guardano quanto
12
e come lei.
Sono immagini che da poco Vittoria ritiene dolenti, ma non più per se
stessa. Quelle immagini non danno sconcerto a chi le osserva, le ‘do-
lenti’ sono chiaramente le icone trasfigurate.
Si tratta di modelle (lei stessa lo è stata e lo è), estratte dalle riviste di
moda con la prassi metodologica del collage, una prassi all’insegna
della lentezza e della meticolosità (e dunque procedono nel tempo del
pensiero); una tecnica che si è fatta veicolo espressivo dai moltepli-
ci significati, una tecnica in apparenza semplice, qui adoperata con
consapevolezza, o meglio con la consapevolezza storica del medium
scelto.
Ma entriamo nei sui lavori, esposti essi stessi come un unico collage o,
in pochi casi, volutamente isolati. Incontriamo, si è detto, solo corpi di
donna presi il più delle volte nella loro interezza e spezzettati (pochis-
simi gli uomini, sempre brutti e buffi, che compaiono); si tratta, dunque,
di pezzi di corpi a cui dare nuova forma. Talvolta si tratta di lacerti,
martoriate metonimie di un’anima ancor prima che di un corpo.
Accanto alle moltissime modelle, qualche attrice (compare ad esempio
Grace Kelly); alcune di queste donne hanno un nome, altre no. E sono
forse queste ultime, quelle sulle quali Vittoria decide di lavorare di più.
Sono le mute e ieratiche protagoniste delle pubblicità: Clarins, L’Oréal,
Intimissimi… A queste immagini fisse vuol forse dare lei un nome (per
quanto le composizioni rimangano senza titolo), perché quelle donne,
ormai entrate nel panorama del nostro visibile, un nome non lo hanno,
e se lo hanno è momentaneo, effimero, e sarà comunque dimenticato
con l’uscita del prossimo numero di Vogue.
Intanto, ciò che si sfigura, a questo punto, non sono demoni immorta-
li; sono invece icone instabili, sfogliabili/spogliabili/spoliabili. Oggi ci
sono, domani no.
E a ben pensarci lei stessa interviene su immagini di per sé elaborate.
Di ciò ha piena consapevolezza quando opera un deciso azzeramento
13
degli interventi di post produzione che gli studi fotografici eseguono
per rendere i corpi delle modelle aderenti a ideali irraggiungibili: gam-
be bellissime, zigomi pronunciati, occhi giganteschi e languidi, pelli
levigatissime. A volte cancella completamente il posticcio, altre decide
di esasperare o attutire il troppo (così ad esempio in Volevo gambe
bellissime o anche inversamente in Dear beauty); il troppo che nelle fo-
tografie patinate strazia la modella (mutandola) e l’osservatore (abba-
gliandolo), in un sottile gioco di specchi impossibile da sostenere.
Non può non essere in questa sua analisi una ricerca di empatia, la ne-
cessità di rintracciare una umanità persa per ritrovare un equilibrio che
forse può ricomporsi attraverso il nostro sguardo, ora sorridente, ora
incuriosito, ora straniato, ora disgustato, ma sempre, quasi per para-
dosso, ricondotto in territori meno disumanizzati di quelli raffigurati nei
materiali di partenza, al bianco patinato dei quali Vittoria contrappone
più familiari e realistiche pennellate di bianco matto e ruvido.
Con i suoi collage Vittoria Piscitelli dà vita a nuovi demoni che non
pesano più sulla coscienza e nella coscienza collettiva dell’universo
femminile al quale si rivolge. Ma soprattutto non pesano più su di lei.
Del resto, al di là dell’ironia, al di là di un tentato UGLY, i suoi ritagli,
per quanto spesso ironici, non evitano di mostrare sentimenti quali l’os-
sessività e l’invidia (così il titolo di alcuni lavori). Sentimenti investigati
e certamente superati attraverso il fare artistico e attraverso una ricer-
ca formale. Sentimenti da cui è nata la necessità di un ‘riuso’ di oggetti
intercettati bulimicamente nella quotidianità, a discapito di una appa-
renza inutile. Prima di ogni cosa, le sue opere vogliono essere appunti
di un viaggio, attimi di un racconto, scorci di un percorso autobiogra-
fico nel quale mettere ordine, al quale dare una misura. Ad arginare la
caducità dei corpi, dunque, la forma.
Federica De Rosa
Sto perdendo me stessa.
Sto perdendo me stessa da quando ero una bambina e rubavo le rivi-
ste di moda di mia madre.
Sto perdendo me stessa ancora oggi, inesorabilmente.
Sono in carne ed ossa una persona.
Dunque cosa sono, ma sarebbe meglio forse dire chi sono, quelle
pagine patinate di pochi centimentri che incontro in quella seducente,
ammaliante e indispensabile Bibbia dell’estetica contemporanea che è
Vogue? Non posso più dirvi se quelle persone ritratte esistano davve-
ro o se siano solo il prodotto di una creazione artistica o di una messa
in scena estetica, un’ideale di bellezza come la Paolina Borghese di
Canova o la Nike di Samotracia. Il fatto è che ogni giorno della mia vita
devo interrogarmi su me stessa e sulle mia gambe e sul mio naso e
sulla mia bocca e sui miei zigomi. La percezione che ho di me stessa
si annienta sotto i colpi di questi stimoli.
Ho ventiquattro anni, sono magra e ho i capelli castani.
Dopo, il Nulla.
Così ho iniziato a distruggere il resto per trovare me. Ma più distrugge-
vo più creavo.
Strati e strati di carta e vernice coprivano il volto di Natalie Portman
proponendo le sembianze di un essere altro, oltre me e oltre l’attrice.
Un volto straziato da un collage oltraggioso, patetico e pagliaccio. An-
che il sentimento d’invidia è stato prezioso. L’invidia è il numero infon-
do al metro con il quale misuriamo la lontanza con il proprio io e con
gli altri. Questo sentimento è stato il punto di partenza per annientare
le immagini. Si potrebbe osare dire infatti che le opere in mostra siano
tutte testimonianze di una performance del dolore e della ricerca di se
stessi esercitata negli anni e nei giorni. Ho cercato, cercato e cercato.
Oltre la bellezza cosa ho trovato?
U.G.L.Y.
Ugly che tradotto dall’inglese potrebbe essere adirato, brutto, cattivo,
7
irritabile, laido, litigioso, minaccioso, pericoloso, ripugnante, sgradevo-
le, turpe.
Ho allontanato la ricerca di una bellezza rassicurante e sottile per en-
trare in contatto con quei mostri che mai vorreste incontrare e per loro
ho iniziato a provare un bisogno empatico poiché, con la loro ridicola
spiacevolezza, esprimevano la frustrazione tutta contemporanea del
sentirsi inappropriati, indesiderati in un contesto dove, forse, abbiamo
smarrito la capacità di emozionarci per la bellezza.
La mia generazione di giovani donne non riesce a trovare sollievo negli
ideali femministi che incoraggiavano le nostre madri a mantenere i pie-
di a terra e i fianchi larghi. La mia generazione ha accettato tutto que-
sto smarrimento e ha percorso la propria maturazione in simbiosi con il
bisogno isterico del bello, piacevole, carino. Carino. Carino.
Fortunatamente non sono qui per restituirvi una soluzione critica a que-
sto fenomeno dilagante perché io stessa non voglio risolvere questo
problema. Voglio cavalcarlo finché possibile per continuare a produrre
e cercare e distruggere. E mostrarvi i miei U.G.L.Y. Perchè questa fru-
strazione è la storia delle nostre vite e non possiamo negarla ma solo
accettarla e capirla. Amarla.
Intendo portarvi per mano alla scoperta di questo universo parallelo in
cui decine di volti trasmutati si propongono a voi in tutta la loro inquie-
tante fissità, la stessa fissità di quelle donne splendide che indossano
seta e oro nelle riviste che comprate. E la loro moltitudine ci distrarrà
dalla loro individualità. Non siete chiamati a conoscere le loro identità
ma a perdervi nelle loro tragicomiche imperfezioni. Nelle loro solitudini
di esseri spiacevoli e abortiti.
E potete collezionarli. Portarli a casa e confrontarvi con loro come io
stessa faccio ogni giorno. E in quegli sguardi strabici e in quelle boc-
che viziose ma storte forse troverete il vostro tormento proprio quel
giorno che credevate di aver perso il contatto con voi stessi. Perché
se è vero che U.G.L.Y nasce da una vicenda tutta autobiografica della
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sottoscritta è anche vero che U.G.L.Y rappresenta l’invito ad una presa
di coscienza sul vostro rapporto con la bellezza presunta tale.
U.G.L.Y. è qui desiderio di redenzione da noi stessi e quello che so-
gnavamo di essere e non saremo mai.
Vittoria Piscitelli
9
Vittoria Piscitelli. Miti e Mete
Per Vittoria Piscitelli creare, fare, lavorare con il linguaggio dell’arte -
sia esso musica, design, pittura, collage, moda - è azione necessaria
per scandagliare la realtà, ma soprattutto per prendere contatto con se
stessa e con le sue ossessioni.
Vittoria ha ben chiaro il suo terreno di ricerca, come ha ben chiaro il
terreno dove presentarsi. Ama smisuratamente il mondo britannico:
“Musica, arte, letteratura, design, pubblicità, tutto, basta che sia ingle-
se, che sia anglosassone!”. Ama con passione (gioia/tormento) anche
la moda. Ed è in questi luoghi fisici e ideali che viaggia e sperimenta.
Non è un caso che le sue prime mostre si siano tenute a Londra e a Mi-
lano. Oggi è a Napoli; ma quale Napoli? E in quale momento della vita
cittadina, se non quello del ‘patinato’ natalizio?
I suoi miti dichiarati - ma forse per lei bisognerebbe parlare di muse
- sono Yoko Ono, “immediata, intima e spirituale”, di cui segue le
Istruzioni per l’arte e per la vita; Tracey Emin, “eccentrica e scabrosa,
blasfema e romantica”; Marc Quinn, “classico e levigatissimo, nonché
esploratore del corpo e del mondo fisico e culturale che ci circonda”.
Qualche escursione la porta poi nell’Austria di Franz West e nell’A-
merica di John Baldessari. Tra i binari italiani intercetta Cattelan. Nel
campo della moda, infine, vi è l’approdo francese: Yves Saint Laurent
e Hedi Slimane. Una, infine, la Musa, l’icona ‘iniziale’ (o iniziatica?)
per lei nella moda e nell’arte: Kate Moss, top model celebrata pochi
mesi fa a Londra in un’asta Christie’s di opere d’arte che la vedevano
ritratta. L’icona che attraversa gli scatti di Annie Liebovitz, Irving Penn,
Mario Sorrenti, Juergen Teller e molti altri. La Musa immortalata, tra gli
altri, da Sir Peter Blake, Corinne Day e Damien Hirst. E per Vittoria -
che fa musica - l’amante del maledetto Pete Doherty, la protagonista
eponima di un brano dei Baustelle, e soprattutto l’immagine scelta da
Sophia Coppola per il video della band americana White Stripes I just
don’t know to do with myself. La Musa, tra tutte le muse, che compare
pure nei video di artisti come Marianne Faithfull, Johnny Cash ed Elton
11
John.
Ma questo è ciò che Vittoria ci racconta, questi sono i miti/icone che ci
ha voluto svelare e che riportiamo qui, seguendo le sue stesse parole;
altri miti li ravvisiamo da soli, scrutando tra i suoi collage in mostra. Ed
ecco che la mente non può non risalire a Linder Sterling, femminista
radicale e nota figura del punk di Manchester, che si scaglia contro lo
stereotipo di donna divenuta oggetto di attrazione erotico-sessuale,
presentando nelle sue opere un ironico e pungente ritratto del femmini-
le nella società occidentale post-moderna. Intercettiamo anche Angus
Fairhurst, uno di quelli che passa alla storia tra gli Young British Arti-
sts, morto a 41 anni, le cui opere più note restano le sculture in bron-
zo raffiguranti gorilla ed i collage con pagine pubblicitarie di fashion
magazines. Diversa, ma evidentemente amata e scrutata da Vittoria
anche Sarah Lucas. E perché, a questo punto, non chiamare in causa
anche un italiano come Gianluigi Toccafondo, artista penetrato nell’im-
maginario collettivo attraverso la televisione e la pubblicità, del quale si
avverte una qualche ispirazione quando Vittoria interviene con il segno
pittorico sulle sue creazioni?
Forti di tali rimandi (o meglio miti) visibili e invisibili, espliciti o censu-
rati, voluti o imprevedibili, le opere-collage di Vittoria arrivano a noi ca-
riche di bizzarrie dissacranti; sono a volte grottesche, pulite, sporche,
eleganti, astratte, caricaturali, volutamente ricche di textures. Vittoria
vorrebbe racchiudere il risultato finale in ciò che definiremmo UGLY.
Ma non è detto sia così. Eppure è giusto che sia così per lei.
Se consideriamo, infatti, che queste opere sono un’analisi prima di
tutto sul sé, sull’essere donna, o meglio sul suo essere donna tra le
donne, capiamo subito che i suoi collage sono popolati da immagini
oniriche, suggestioni reali quanto surreali, evocative di un passato (l’in-
fanzia), quanto fortemente attuali, perché ancora pulsanti nel suo oggi.
Sono immagini che incontra ovunque: in casa e per strada, nella vita
privata e nella vita pubblica. Ma non tutti le vedono e guardano quanto
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e come lei.
Sono immagini che da poco Vittoria ritiene dolenti, ma non più per se
stessa. Quelle immagini non danno sconcerto a chi le osserva, le ‘do-
lenti’ sono chiaramente le icone trasfigurate.
Si tratta di modelle (lei stessa lo è stata e lo è), estratte dalle riviste di
moda con la prassi metodologica del collage, una prassi all’insegna
della lentezza e della meticolosità (e dunque procedono nel tempo del
pensiero); una tecnica che si è fatta veicolo espressivo dai moltepli-
ci significati, una tecnica in apparenza semplice, qui adoperata con
consapevolezza, o meglio con la consapevolezza storica del medium
scelto.
Ma entriamo nei sui lavori, esposti essi stessi come un unico collage o,
in pochi casi, volutamente isolati. Incontriamo, si è detto, solo corpi di
donna presi il più delle volte nella loro interezza e spezzettati (pochis-
simi gli uomini, sempre brutti e buffi, che compaiono); si tratta, dunque,
di pezzi di corpi a cui dare nuova forma. Talvolta si tratta di lacerti,
martoriate metonimie di un’anima ancor prima che di un corpo.
Accanto alle moltissime modelle, qualche attrice (compare ad esempio
Grace Kelly); alcune di queste donne hanno un nome, altre no. E sono
forse queste ultime, quelle sulle quali Vittoria decide di lavorare di più.
Sono le mute e ieratiche protagoniste delle pubblicità: Clarins, L’Oréal,
Intimissimi… A queste immagini fisse vuol forse dare lei un nome (per
quanto le composizioni rimangano senza titolo), perché quelle donne,
ormai entrate nel panorama del nostro visibile, un nome non lo hanno,
e se lo hanno è momentaneo, effimero, e sarà comunque dimenticato
con l’uscita del prossimo numero di Vogue.
Intanto, ciò che si sfigura, a questo punto, non sono demoni immorta-
li; sono invece icone instabili, sfogliabili/spogliabili/spoliabili. Oggi ci
sono, domani no.
E a ben pensarci lei stessa interviene su immagini di per sé elaborate.
Di ciò ha piena consapevolezza quando opera un deciso azzeramento
13
degli interventi di post produzione che gli studi fotografici eseguono
per rendere i corpi delle modelle aderenti a ideali irraggiungibili: gam-
be bellissime, zigomi pronunciati, occhi giganteschi e languidi, pelli
levigatissime. A volte cancella completamente il posticcio, altre decide
di esasperare o attutire il troppo (così ad esempio in Volevo gambe
bellissime o anche inversamente in Dear beauty); il troppo che nelle fo-
tografie patinate strazia la modella (mutandola) e l’osservatore (abba-
gliandolo), in un sottile gioco di specchi impossibile da sostenere.
Non può non essere in questa sua analisi una ricerca di empatia, la ne-
cessità di rintracciare una umanità persa per ritrovare un equilibrio che
forse può ricomporsi attraverso il nostro sguardo, ora sorridente, ora
incuriosito, ora straniato, ora disgustato, ma sempre, quasi per para-
dosso, ricondotto in territori meno disumanizzati di quelli raffigurati nei
materiali di partenza, al bianco patinato dei quali Vittoria contrappone
più familiari e realistiche pennellate di bianco matto e ruvido.
Con i suoi collage Vittoria Piscitelli dà vita a nuovi demoni che non
pesano più sulla coscienza e nella coscienza collettiva dell’universo
femminile al quale si rivolge. Ma soprattutto non pesano più su di lei.
Del resto, al di là dell’ironia, al di là di un tentato UGLY, i suoi ritagli,
per quanto spesso ironici, non evitano di mostrare sentimenti quali l’os-
sessività e l’invidia (così il titolo di alcuni lavori). Sentimenti investigati
e certamente superati attraverso il fare artistico e attraverso una ricer-
ca formale. Sentimenti da cui è nata la necessità di un ‘riuso’ di oggetti
intercettati bulimicamente nella quotidianità, a discapito di una appa-
renza inutile. Prima di ogni cosa, le sue opere vogliono essere appunti
di un viaggio, attimi di un racconto, scorci di un percorso autobiogra-
fico nel quale mettere ordine, al quale dare una misura. Ad arginare la
caducità dei corpi, dunque, la forma.
Federica De Rosa
06
dicembre 2013
Vittoria Piscitelli – U.G.L.Y.
Dal 06 al 13 dicembre 2013
arte contemporanea
Location
D’AYALA 6 – DEPOSITO D’ARTE
Napoli, Via Mariano D'ayala, 6, (Napoli)
Napoli, Via Mariano D'ayala, 6, (Napoli)
Vernissage
6 Dicembre 2013, ore 19
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