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Quattordici artisti giapponesi dell’ultima generazione, quattordici giovani interpreti selezionati da Bruno Corà e dai “guest curators” Masahiko Haito e Samuel Fuyumi Namioka fra i rappresentanti più significativi delle diverse, recentissime tendenze dell’arte del Sol Levante. La mostra si espande dalle sale del Pecci allo spazio sottostante l’anfiteatro, e difficilmente il visitatore riuscirebbe ad individuare un filo comune che possa legare le diversissime espressioni ivi rappresentate, il suggello di un linguaggio così distintivo da poter essere paragonato, per esempio, a quello del cinema giapponese. Ma la non autonomia dell’arte giapponese da quella occidentale è questione annosa, che proprio in queste ultime generazioni Corà riconosce come finalmente affrancata da un complesso di inferiorità verso l’Occidente nel momento stesso in cui l’arte di questa parte del mondo si apre a suggestioni orientali. Con un certo stupore veniamo a sapere che il titolo, bellissimo, ricco di significati simbolici, non ha niente di nipponico, ma è stato suggerito a Corà da uno scritto di Adriano Sofri sulla sua tragica vicenda: “Il futuro anteriore fu la prima scoperta del vincolo misterioso e attorcigliato che lega ciò che sarà a ciò che è già stato” (A. Sofri, Il futuro anteriore, Roma, Stampa alternativa, Millelire, 1992, p. 6).
A ben vedere, camminando per le sale del museo, una cifra comune si può forse individuare in una sorta di distacco, di blocco delle emozioni, una freddezza che si esercita nelle più diverse espressioni (Go Kato, le forme autoreferenti di Juji Takeoka o la ricerca estetico-scientifica di Taro Shinoda), un senso di forzato controllo a cui fa eccezione il cromatismo fiammeggiante di Masato Kobayashi con le sue tele affrancate dal quadro e forse la sottile, perversa inquietudine delle opere di Yoshitomo Nara che, partendo da un’iconografia infantile, fumettistica, da Manga, riesce con pochi mirati tocchi (i dentini da vampiro di un faccino infantile, lo sguardo perverso di una bimba che regge un fiorellino) a suscitare un senso angoscioso di capovolgimento dei canoni di decodifica del quotidiano. Kenij Yanobe elabora una complessa installazione legata al trauma da lui subito a seguito della tragedia di Cernobyl “Atom suite project, Antenna project installation”, di cui bisogna però dire che non è riuscita a trasmetterci il senso di drammaticità della tematica trattata. Della produzione fotografica in mostra ci ha particolarmente colpito il bianco e nero di Osamu Kanemura, certamente sulla scia di celebri esperienze di fotografia urbana, ma che nel suo rigore stilistico richiama fortemente anche il linguaggio filmico di certo cinema giapponese degli anni Cinquanta e degli inizi degli anni Sessanta (pensiamo alle periferie urbane del Kurosawa in bianco e nero di “Vivere” o di “Anatomia di un rapimento”). Infine ricordiamo la stupefacente, complessa costruzione di “Anata No Jidai”, sorta di ipertrofica, enorme lampada liberty con uno smisurato crisantemo o fiore di loto nel cui stelo, come in un bozzolo, si intravede racchiusa una figura umana; opera di Katsushige Nakashashi, legandosi all’iconografia della casa imperiale e alla problematica della divinità della figura dell’Imperatore (in Giappone l’Imperatore non è rappresentabile), introduce a complesse tematiche proprie della cultura civile, politica e religiosa giapponese. E per chi voglia approfondire l’esegesi dei processi formativi dell’attualità nipponica, riportiamo il consiglio di Corà di leggere le Lezioni spirituali per giovani samurai di Yukio Mishima (Milano, Feltrinelli, 1999).
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Sito del Centro per l’arte contemporanea Luigi Pecci
Valeria Ronzani
29 settembre 2001 – 6 gennaio 2002
Prato, Centro per l’arte contemporanea Luigi Pecci, viale della Repubblica 277
Orario: 10/19 feriali e festivi, chiusa il martedì
Ingresso: intero £. 12.000, ridotto £. 8.000
Informazioni: 0574 5317/531828, fax 0574 531900 e-mail pecci@imbox.comune.prato.it
[exibart]
Complimenti, non era facile trovare 1 filo tra le opere esposte.
Condivido anche la sensazione di freddezza nonchè inquietudine generale, espressa per me me al massimo attraverso la ripetitività di moduli o persone come nelle foto di ragazze-commesse da Grandi Magazzini! Architetture splendenti ma gelide, ragazze in divisa identiche una all’altra, pose senza vita e sguardi vuoti!
Certo… l’articolo è scritto molto bene… l’articolo dico…
ho visto la mostra e mi è parsa buona occasione per minimamente approfondire l’aspetto estremo orientale. Certo il pecci non è proprio ricco di pannelli informativi che aiutano a comprendere la mostra eh…