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20
novembre 2009
fino al 17.I.2010 Kendell Geers Rovereto (tn), Mart
trento bolzano
Quando guardate le sue opere, non parlate di violenza. Perché ne parlano già loro: mostrandola in tutta la sua cinica evidenza, nel suo ruolo riconosciuto all’interno della società. Sia essa sudafricana o europea...
Il
sopruso legalizzato, la violenza regolarizzata. Kendell Geers (Johannesburg,
1968; vive a Bruxelles) come “frequentatore” involontario di uno dei luoghi
della più estrema contraddizione del recente passato (e ancora del presente), il
Sudafrica, mette continuamente in scena nelle sue opere questo meccanismo di
normalizzazione della ferocia.
Mette
in fila manganelli per creare una stella. Costruisce un attraente labirinto con
pareti di lame metalliche. Inquadra letteralmente i vetri rotti del colmo di
muri di protezione, a formare un cubo regolare sulle gradazioni del verde.
Ripete l’interiezione offensiva ‘fuck’
per creare una piacevole carta da parati in bianco e nero. Rende uguali idoli
africani, madonne e croci cristiane sotto uno spesso strato di nastro bianco e
rosso che li ricopre, evocando un confine da non oltrepassare, e poi li mette
sullo stesso piano… di un generico scaffale in ferro.
Chiesa,
scuola, stato e famiglia sono i quattro elementi che condizionano la nostra
esistenza. Per questo, quando lo incontriamo a Bruxelles e davanti a un caffè
sua moglie sbotta chiedendogli cosa vorrebbe fare se potesse tornare indietro,
lui risponde con sicurezza: “Il bambino! Ancora libero da qualsiasi
costrizione!”.
Quattro
sono anche i termini che di solito chiede assolutamente di non usare a chi
scrive il testo dei suoi cataloghi: Sudafrica, violenza, politica, religione.
Lo racconta Roberto Pinto nella conversazione che precede l’apertura al
pubblico della mostra al Mart. Ma è lo stesso Kendell Geers a ripetere nel
dialogo, davvero in continuazione, le due parole-chiave ‘Sudafrica’ e
‘violenza’. Crea così una vera e propria performance, e del resto nella sua
carriera ne ha realizzate alcune. Una performance verbale in cui mette in scena
lo stesso meccanismo di riconoscimento del sopruso che è presente nelle sue
opere: parlare di violenza come se fosse una cosa normale, senza gridare contro
di essa. Esattamente come fanno i telegiornali, esattamente come fa la gente
per strada, esattamente com’è stato fatto e si fa guardando da lontano
l’apartheid e le innumerevoli forme di sopraffazione.
Lo
stesso artista si mostra come una normale violenza. Il suo autoritratto è il
collo tagliente e appuntito di una bottiglia di birra rotta. Un’arma familiare,
che Geers vuol mostrare sul piedistallo di una vetrina. Con l’etichetta rivolta
verso l’alto, “perché si legga bene la parola ‘imported’”:
importata, come la birra; come lui, figlio di emigranti olandesi; come la
violenza che è propria del vivere umano, ma che viene sempre incrementata e
mossa verso l’esterno.
“Importato” del resto Kendell si sente anche a
Bruxelles, dove sta oramai da anni: “Amo il centro perché ci vivono o
artisti o immigrati. E io sono entrambe le cose!”
Ora,
a Rovereto, viene “importata” la sua mostra monografica: è l’ultima tappa, dopo
la partenza dallo Smak di Gent due anni fa, e dopo aver viaggiato a Lione e al
Baltic di Newcastle. Ogni volta con un nuovo allestimento e una differente
selezione all’interno del corpus di opere.
sopruso legalizzato, la violenza regolarizzata. Kendell Geers (Johannesburg,
1968; vive a Bruxelles) come “frequentatore” involontario di uno dei luoghi
della più estrema contraddizione del recente passato (e ancora del presente), il
Sudafrica, mette continuamente in scena nelle sue opere questo meccanismo di
normalizzazione della ferocia.
Mette
in fila manganelli per creare una stella. Costruisce un attraente labirinto con
pareti di lame metalliche. Inquadra letteralmente i vetri rotti del colmo di
muri di protezione, a formare un cubo regolare sulle gradazioni del verde.
Ripete l’interiezione offensiva ‘fuck’
per creare una piacevole carta da parati in bianco e nero. Rende uguali idoli
africani, madonne e croci cristiane sotto uno spesso strato di nastro bianco e
rosso che li ricopre, evocando un confine da non oltrepassare, e poi li mette
sullo stesso piano… di un generico scaffale in ferro.
Chiesa,
scuola, stato e famiglia sono i quattro elementi che condizionano la nostra
esistenza. Per questo, quando lo incontriamo a Bruxelles e davanti a un caffè
sua moglie sbotta chiedendogli cosa vorrebbe fare se potesse tornare indietro,
lui risponde con sicurezza: “Il bambino! Ancora libero da qualsiasi
costrizione!”.
Quattro
sono anche i termini che di solito chiede assolutamente di non usare a chi
scrive il testo dei suoi cataloghi: Sudafrica, violenza, politica, religione.
Lo racconta Roberto Pinto nella conversazione che precede l’apertura al
pubblico della mostra al Mart. Ma è lo stesso Kendell Geers a ripetere nel
dialogo, davvero in continuazione, le due parole-chiave ‘Sudafrica’ e
‘violenza’. Crea così una vera e propria performance, e del resto nella sua
carriera ne ha realizzate alcune. Una performance verbale in cui mette in scena
lo stesso meccanismo di riconoscimento del sopruso che è presente nelle sue
opere: parlare di violenza come se fosse una cosa normale, senza gridare contro
di essa. Esattamente come fanno i telegiornali, esattamente come fa la gente
per strada, esattamente com’è stato fatto e si fa guardando da lontano
l’apartheid e le innumerevoli forme di sopraffazione.
Lo
stesso artista si mostra come una normale violenza. Il suo autoritratto è il
collo tagliente e appuntito di una bottiglia di birra rotta. Un’arma familiare,
che Geers vuol mostrare sul piedistallo di una vetrina. Con l’etichetta rivolta
verso l’alto, “perché si legga bene la parola ‘imported’”:
importata, come la birra; come lui, figlio di emigranti olandesi; come la
violenza che è propria del vivere umano, ma che viene sempre incrementata e
mossa verso l’esterno.
“Importato” del resto Kendell si sente anche a
Bruxelles, dove sta oramai da anni: “Amo il centro perché ci vivono o
artisti o immigrati. E io sono entrambe le cose!”
Ora,
a Rovereto, viene “importata” la sua mostra monografica: è l’ultima tappa, dopo
la partenza dallo Smak di Gent due anni fa, e dopo aver viaggiato a Lione e al
Baltic di Newcastle. Ogni volta con un nuovo allestimento e una differente
selezione all’interno del corpus di opere.
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Info: tel. 800397760 / +39 0464438887;
fax +39 0464430827; info@mart.trento.it; www.mart.trento.it
[exibart]
Al MART di Rovereto ci sono in atto 5 mostre manifeste, un’artista nascosta e un ghost show. L’artista nascosta e’ Gabriella Belli, curatrice del MART, che ha disegnato 2 delle 5 mostre (tranne quelle di Kendell Geers, Expectation e una sulla modernità). Gabriella per disegnare le sue due mostre (sull’arte americana e sull’iconografia) ha pescato dalla collezione del MART. Il ritmo, le didascalie e le scelte specifiche di Gabriella Belli non sono diverse da una grande installazione artistica. Bisognerebbe solo averne maggiore consapevolezza, ed abbandonare definitivamente alcuni tabù della postproduzione estrema (hard postproduction). Soprattutto oggi quando una sempre più estesa alfabetizzazione nelle arte visive, si accompagna ad un inevitabile appiattimento nel lavoro del singolo artista. Ed ecco come una curatrice, esattamente come potrebbe fare un regista, diventa, essa stessa, artista. L’appiattimento lo troviamo, per esempio, nella mostra di Kendel Geers, dove il fascino della biografia personale dell’ autore sembra superare la resa effettiva della mostra. Artista che proviene dalle lotte calde dell’ Apartheid e che sembra esagerare tutto, quasi in una forma di speculazione rispetto ad alcune problematiche . La mostra fa pensare che sarebbe stato tutto molto più difficile partendo dalla calma lancinante della periferia di Viterbo. L’arte “impegnata” andrebbe sempre presa con le pinze. Nel bookshop invece c’è un ghost show di Maurizio Cattelan. Infatti sembra che, ultimamente, decine di saggi e cataloghi prendano a prestito le sue opere per fare le copertine. La sesta mostra e’ Expectation. Aggiungo a tutto questo colla e polvere, 2009.