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arteratro_interviste Nuovo Teatro Nuovo
arteatro
“Il teatro è il luogo dove non si ha paura di esporre la propria malattia, quella fisica, quella mentale, quella dell’anima”. Ne è convinto Antonio Latella, eclettico regista napoletano trapiantato a Berlino. In arrivo in Italia...
scena teatrale italiana. Viaggiatore di letterature e drammaturgie, ha
attraversato nell’ultimo decennio il teatro di Jean Genet e Pier Paolo
Pasolini, ha riportato sulle scene lo straziante Edoardo II di Christopher Marlowe e il
glaciale Le lacrime amare di Petra von Kant di Rainer Werner Fassbinder, ha
raccolto allori con la Cena delle ceneri di Giordano Bruno e con un memorabile Studio su
Medea, oltre ad
aver percorso in lungo e in largo l’amato Shakespeare, concludendo il viaggio,
nell’estate 2008, con un Amleto “antologico” in 11 quadri presentato al Festival delle
Colline Torinesi.
Ormai da qualche anno trapiantato a Berlino, Latella torna
nella sua città, Napoli, con un progetto di direzione della prossima stagione
del Nuovo Teatro Nuovo e con due attesi debutti: Don Chisciotte da Cervantes e (H)L_Dopa, tratto dal saggio Risvegli di Oliver Sacks, in scena tra
dicembre e gennaio. I lavori sono parte di un percorso di ricerca sul tema
della malattia, cominciato con Le metamorfosi e altri racconti da Franz Kafka e Selvaggiamente
le parole lussureggiano nella mia testa, tratto da un testo dell’austriaco Josef Winkler.
Di teatro, vita e malattia abbiamo parlato con il regista
napoletano…
Dopo Pasolini, Shakespeare, l’amore-ossessione secondo
Marlowe e Fassbinder, il tuo nuovo percorso di lavoro affronta il binomio
malattia/letteratura. Hai scritto: “Il teatro è il luogo dove non si ha
paura di esporre la propria malattia”. Cosa ti spinge in questa direzione?
La malattia che si fa letteratura, la letteratura che si
fa malattia… Affrontare questo tema per me è stato necessario, direi quasi
naturale, avendo in passato lavorato anche come infermiere. Credo che tentare
di teatralizzare la malattia possa essere estremamente frainteso; proprio per
evitare questo fraintendimento ho sentito il bisogno di farlo attraverso un
viaggio letterario: solo così è stato possibile dare al lavoro una valenza fortemente
metaforica, quasi d’astrazione, lontano dagli psicologismi di un finto
realismo.
Credo che, ad oggi, tentare di teatralizzare anche un solo
minuto del dolore causato da una malattia sia impossibile e scorretto. Forse
l’unica possibilità è quella di esorcizzare il dolore, tentando di compiere un
gesto poetico, che ci faccia riflettere sul dolore stesso e sull’assenza della
salute. Ci sono uomini ammalati che non sanno d’esserlo. Lo notiamo noi “sani”?
Forse questi uomini vivono una vita privilegiata, e questo privilegio sta nell’inconsapevolezza
stessa, ma credo che ai loro occhi anche noi sani siamo inconsapevoli di essere
ammalati…
Il privilegio è uno stato che si conquista giorno per
giorno. Forse nel dolore e nella malattia l’uomo è portato a ridare alla vita e
al fatto di esserci il più grande privilegio, l’unico.
Kafka, Winkler, Sacks e
Cervantes. Perché
hai scelto questi quattro autori come tappe d’attraversamento del tema della
malattia?
Kafka perché per l’ossessione di fare letteratura si è
ammalato di letteratura. Winkler perché per esorcizzare un grande dolore ha
trovato la forza di guarire attraverso la letteratura. Sacks perché, attraverso
l’urgenza di testimoniare la malattia dei suoi pazienti, ha fatto della
malattia stessa letteratura. Cervantes perché attraverso il suo grande
anti-eroe racconta della malattia del leggere e del vivere solo attraverso la
letteratura. Tutti autori che si confrontano con la più grande malattia dell’uomo
moderno: il mal di vivere.
In Selvaggiamente le parole lussureggiano nella mia
testa da
Winkler e in Le metamorfosi e altri racconti da Kafka, che hanno debuttato
rispettivamente a Vienna e Colonia, il tema della malattia è declinato come
rottura del legame parola-cosa, frattura fra linguaggio e realtà…
La parola è il perno di tutto. La parola che piega il
corpo al suo volere. La parola che è volontà assoluta. Alla parola viene ridata
la totale forza creativa, di inventare luoghi e oggetti che esistono per il
fatto stesso di essere detti.
Nello spettacolo su Kafka, gli attori sono costretti ad
agire in uno spazio ridotto al proscenio, che con la calata del tagliafuoco
annulla il palco e quindi la possibilità di teatralizzare. Gli oggetti, i
pensieri sono parole incise su innumerevoli lavagne, ogni parola è una
cicatrice. Il corpo degli interpreti è schiacciato dalla mostruosa alienazione
della vita quotidiana. Gli attori sono come condannati davanti alla scelta di
un ultimo desiderio. Tutto assume una forza bidimensionale, come se fossimo
davanti alla pellicola di un film in bianco e nero, che fa del silenzio la
perfezione.
In Winkler i corpi degli attori sono schiacciati dalla
prepotenza della parola, su dei pallet da mercato, i corpi torturati dal suono
predominante di tasti da macchina per scrivere che incidono parole, vomitano le
parole stesse in un trittico pittorico, tutto è metafora. Anche qui il
proscenio è il solo luogo d’azione, il palco vuoto di teatro è occupato da una
donna che compie un rito quotidiano, un gesto di vita che si oppone all’intellettualizzazione
della vita stessa.
In Don Chisciotte e (H)L_Dopa tratto da Risvegli di Oliver Sacks la malattia
coincide con la perdita della realtà. A differenza dell’incubo in cui precipita
Gregor Samsa, il sogno a occhi aperti di Don Chisciotte e lo stato letargico
dei pazienti di Sacks sembrano offrire un’alternativa più allettante rispetto
al quotidiano. È il risveglio a costituire il vero trauma. È l’altra faccia
della medaglia? Un lato positivo della malattia?
Cosa è vero e cosa non lo è? Con questa domanda ogni
risveglio può essere una condanna. Se non ci riconosciamo in ciò che vediamo,
in ciò che sentiamo, in ciò che ci insegnano, il risveglio da un sonno “malato”
può essere un vero incubo, una terribile condanna a morte per l’ammalato.
Dopo Don Chisciotte di Franco Branciaroli della
scorsa stagione, trasformato in un omaggio all’arte d’attore, il tuo avrà per
protagonisti due attori-non attori prestati al teatro quasi per gioco…
Omaggiando i due più grandi attori del nostro novecento,
Branciaroli crea un artificio sintetico ma di massima teatralizzazione. Egli
stesso fa del suo corpo una macchina teatrale e totalizzante, diventando il tutto, mette il suo grande e indiscusso
talento al servizio della letteratura, restando comunque e sempre nel riconoscibile
della grammatica teatrale.
Il mio tentativo è di usare la grammatica per poterla
rompere, destrutturarla, usando degli attori che hanno scelto di non esserlo
più da molto tempo, che tornano al teatro per testimoniare il loro bisogno di
vivere una normalità di vita e non una finzione di vita, regalando al luogo
della finzione schegge di vita reale e personale. Davanti a loro lo spettatore
farà fatica a capire il limite tra la finzione e la realtà, egli stesso diventa
Don Chisciotte
e avrà la possibilità di scegliere di perdersi oppure no, la possibilità di
fare del suo esserci letteratura.
(H)L_Dopa nasce dopo l’esperienza all’Ecole des Maîtres del 2006 ed è il risultato di un
laboratorio svoltosi in vari paesi europei (2008/09). Come hai lavorato con i
14 attori, di cinque nazioni diverse, che compongono il cast?
(H)L_Dopa è un regalo che con gli attori abbiamo sentito il bisogno
di farci, uscendo dai bisogni del teatro commerciale, lontano dalla malattia
delle logica di mercato. Regalarsi il tempo della ricerca per permettere alla
materia di essere pronta a essere plasmata. Il lavoro si è svolto in diverse
tappe durante un anno e più. Solo così la materia assume un ruolo dominante e
attivo nell’atto della formalizzazione finale.
Tutto diventa drammaturgia necessaria al racconto, una
parola, un gesto, un suono, una luce, un colore; quasi come se fossimo davanti
a una storia raccontata su tavole pittoriche. Ogni cosa è un colore, un atto
pittorico. Durante questo lungo viaggio gli attori stessi sono diventati
pittori, o meglio autori. Il mio compito è stato quello di ascoltarli, di
stimolarli e, soprattutto, il compito più difficile, quello di imparare a non
dire no, anche davanti a forme di espressione lontane da un mio gusto intimo ed
estetico. Ma credo che proprio nell’accettazione della diversità si compia una
reale crescita umana e artistica.
Da qualche anno risiedi a Berlino, ma adesso stai per
tornare a Napoli come direttore del Nuovo Teatro Nuovo. Che progetti ha per il tuo “nuovo” incarico?
Una sola convinzione: il lavoro. Per il mio essere
concreto, credo nella forza del fare e quindi nella grande possibilità
dell´agire, che il lavoro ci dà. Nell´atto del fare c’è la sorpresa, la
scoperta, la fatica, la gioia, il successo e l’errore, in quest’ultimo si
annida la mia seconda convinzione.
Credo che sia fondamentale, anche se il mercato non lo
prevede, dare agli artisti la possibilità di confrontarsi e crescere davanti ai
propri errori, non averne paura, ma, anzi, accettarne la sconfitta per una reale
crescita. Cosa che per un direttore di teatro è assai difficile da accettare,
viste le pressioni imposte dalla sopravvivenza a cui il governo italiano ci
costringe con la sua elemosina. Come direttore spero di essere sempre coerente
con la mia etica come lo sono sempre stato come regista.
Un sogno è creare una reale casa della cultura, con le
radici nel fuoco di quel teatro nato su terra lavica. Un teatro che, grazie a
Igina Di Napoli e a Angelo Montella, ha fatto del teatro un’arma pronta a
sparare cultura a ogni costo. Pur di resistere.
Recentemente hai dichiarato al Mattino che “fare teatro ha ormai
senso solo se gli si attribuisce un valore civile e politico”. Che cosa intendi?
1. Essere comunque e sempre coerenti con la propria etica
e le proprie idee.
2. Non avere paura della paura di quelli che ci fanno paura.
3. Saper rinunciare alla fascinazione del potere fine a se stesso.
4. Far capire al pubblico che, come il pane e l’acqua, il teatro e la cultura
in genere sono necessari a nutrire il proprio corpo e la propria anima.
5. Ricordarsi che anche negli splendidi velluti rossi si annidano gli acari, i
parassiti.
6. Vivere il teatro come un atto dovuto alla vita.
7. Dare forza alla povertà, trasformandola in creatività.
8. Non dimenticare mai che la cultura è la più grande bandiera civile per
parlare a tutti.
9. Non arrendersi ma sperare comunque e sempre.
10. Vivere il teatro come un gesto d’amore assoluto, senza
aspettarsi nulla in cambio.
a cura di giorgia marino
la rubrica arteatro è diretta da piersandra
di matteo
dal 26 dicembre 2009 al 24 gennaio 2010
Don Chisciotte
dal 5 al 24 gennaio 2010
(H)L_Dopa
Nuovo Teatro Nuovo
Via Montecalvario, 16 – 80134 Napoli
Info: tel. +39 081425958; fax +39 081406062; info@nuovoteatronuovo.it; www.nuovoteatronuovo.it
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